GIORGIO BONAGA
Giorgio Bonaga ai Giardini Margherita nella squadra delle Vecchie Glorie (foto tratta dal Corriere di Bologna)
nato a: Bologna
il: 11/07/1945
altezza:
ruolo: playmaker
numero di maglia:
Stagioni alla Virtus: 1961/62 - 1963/64 - 1964/65
(in corsivo la stagione in cui ha disputato solo amichevoli)
GIORGIO BONAGA E LA VIRTUS
www.virtus.it - 03/04/2015
Accademico, pensatore libero, acuto e mai banale, bolognese che conta senza pretenderlo, affascinante crocevia di scienza e filosofia, convincente senza mai prevaricare. Sportivo vero, naturalmente: per trascorsi, passione e mentalità. Segni particolari? Virtussino nell’anima.
Ci è cresciuto, Giorgio Bonaga, con la canotta e la fede bianconera addosso. In quei favolosi anni Sessanta a metà dei quali approdò anche alla prima squadra. “Stagione 1964/65. Ero “aggregato”, allora si diceva così. Giovane all’ultimo anno tra gli juniores, in prima squadra c’erano Giomo, Calebotta, Pellanera, Alesini, e poi Dado Lombardi che segnava a raffica. L’anno dopo misero dentro Giovanni Dondi Dall’Orologio, che era il figlio del presidente, e la strada si chiuse. Io ero cresciuto nel vivaio, mi ero fatto tutta la trafila fino alla categoria juniores. A quel punto successe che la squadra della GD, che si stava mettendo in luce, ricevette il sostegno di Isabella Seragnoli e sotto l’egida della casamadre Gira fu attrezzata per una Serie B di livello. Finii in quel gruppo, dove ricevetti i miei primi soldi, che mi facevano anche comodo. Fin lì avevo giocato per la gloria, cominciai a farlo anche per “vil danaro”. Roba da 300mila lire al mese, che per un ragazzo di vent’anni erano una bella sommetta”.
Venne fuori lì la famosa litania. “Bonaga è meglio di Raga”…
Già, opera di Tullio e Maurizio Ferro. Noi della GD giocavamo alle 15, prima della Fortitudo. Iniziarono con quella cantilena che richiamava a Manuel Raga, il messicano di Varese, grandi doti atletiche e un’elevazione mai vista. Io molto discretamente cercavo di farli smettere. Perché era chiaro che Raga era molto, ma molto meglio di Bonaga.
Perché, che giocatore era Bonaga?
Diciamo di medio livello, ma con una mia popolarità. Ma soltanto perché ero piccolo… Ero molto veloce, questo sì. Avevo caratteristiche di dinamismo che per quei tempi erano inadatte. Insomma: quasi nessuno aveva un’accelerazione del genere, ma tanto poi dovevo fermarmi, perché era un basket lento. I lunghi, allora, dovevi aspettarli. A Calebotta dicevo sempre: Nino, ti chiamerò “controflusso”, ti trovi sempre in attacco quando difendiamo e in difesa quando attacchiamo. Ma la realtà è che lui era un grande lungo, per quell’epoca.
Dopo, la Virtus è diventata la passione da coltivare.
È rimasta, direi. Come la pallacanestro. Anche se adesso a palazzo ci vado poco e c’è stato un lungo periodo in cui avevo proprio smesso. Lo ammetto, sono uno di quelli che pensano che il terreno che aveva generato Basket City si sia un po’ sgretolato sotto i nostri piedi, e non è colpa di questo o quello ma di un declino generalizzato che è passato anche da qui. Il basket europeo, e quello italiano in particolare, oggi hanno giocatori di livello medio rispetto a un tempo. Giocatori atleticamente fortissimi, intendiamoci, perché questo da noi è diventato uno sport superatletico ma molto meno tecnico. Ripeto, è un problema generale. Non voglio fare l’analista, o esaltare una nazione che non amo necessariamente in tutte le sue espressioni, ma è un fatto che negli Usa l’idea sana è che dovendo catturare il consenso, tutto il mondo che ruota intorno a una disciplina viaggia nella stessa direzione. Da noi una squadra come Siena, vincendo sette campionati di fila, al di là di quello che c’era dietro, ha fatto l’interesse di una sola società, non di un intero movimento, distruggendo piazze storiche.
È un fatto, però, che adesso l’abbiamo rivista alla Unipol Arena.
“La passione non svanisce mai. E penso che Renato Villalta e quelli che lavorano con lui si stiano impegnando enormemente per dare una strada alla Virtus. Sì, mi sono riavvicinato a partire dalla partita in casa con Milano della passata stagione, tra l’altro vinta contro ogni pronostico. E anche quest’anno va così, ogni volta che vado a palazzo vedo la Virtus vincere. A Renato ho detto che mi dovrebbe dare un’indennità da talismano, ma lui dice che i bilanci della società non lo permettono. Me ne farò una ragione...
Cosa le piace, di questa Virtus?
Non pretendo che sia come quella degli anni di gloria. Erano altri tempi, e io sono stato fortunato a vedere da vicino il Paradiso. In questa vedo più continuità rispetto agli anni scorsi, senso del gruppo. Elementi incoraggianti per un tifoso. Ho visto vincere partite casalinghe con carattere, personalità. Poi, magari in trasferta si fatica perché lì per vincere devono funzionare simultaneamente molti fattori, nel basket di oggi se ti siedi per sei o sette minuti dal punto di vista dell’agonismo perdi il treno. Poi, anche se è vero che in generale gli italiani tendono ad avere un ruolo sempre più subalterno, qui c’è attenzione per loro, e un ragazzo come Fontecchio ha potenziale, è già in grado di prendere l’iniziativa e anzi per me dovrebbe farlo con sempre maggior frequenza.
Ha idee su questo basket in difficoltà?
Per affezionarsi a una squadra, occorrono tre condizioni. Che vinca tanto, che valorizzi i giovani, che resti la stessa per diversi anni. Oggi raramente se ne trovano almeno un paio insieme. Manca una formazione. Non solo per i giocatori, ma per dirigenti, arbitri, giornalisti, spettatori. Quella formazione per me si chiama scuola. È la scuola che lavora su centinaia di migliaia di ragazzi, e nei paesi in cui c’è una grande cultura sportiva ha la funzione di crescerli. Mi chiedo, perché le federazioni non fanno una battaglia affinché al posto di una incolore ora di ginnastica a scuola non si insegni davvero lo sport? L’istituto scolastico dovrebbe essere un “supermercato” che offre una base, le società sportive dovrebbero poi avere la possibilità di selezionare, non prendendosi a carico lo sviluppo di un gruppo di ragazzi per forza di cose più limitato nei numeri. In questo modo potrebbero sbocciare talenti veri, ma anche buoni arbitri, buoni dirigenti, buoni cronisti. Una questione di cultura sportiva.
Virtus nel cuore. E il resto del basket?
Faccio parte di un gruppo di fanatici degli Spurs. Io, mio fratello, un gruppo di amici che si buttano giù dal letto di notte per vedere e raccontarsi quella che per me è la migliore squadra del mondo. Attenzione: non sto parlando dei singoli, ma della squadra. Il gruppo.
Il posto dove Ettore Messina ha scelto di allargare gli orizzonti della sua già enorme conoscenza.
C’è buona Virtus anche a San Antonio. Bello, no?
GIORGIO BONAGA, IL TALENTO A BASKETCITY
Insigne professore universitario fuori dal campo, fantasista sul parquet, Giorgio Bonaga esordì nei dieci della prima squadra il 4 marzo 1962, una data simbolica, perché Giorgio di Lucio Dalla fu amico, come di tanti altri personaggi illustri di Bologna. Quel giorno le V nere travolsero Vigevano 106-57, con 31 punti di Lombardi, 20 di Pellanera, 16 di Paolo Conti, 10 di Paoletti e Zuccheri, 8 di Alesini, 5 di Magnoni, 4 di Canna e 2 di De Fanti. Purtroppo qualcuno non c'è più, ma sembra quasi di leggere il resoconto di uno degli ultimi ritrovi dei maturi baskettari, splendidamente organizzati proprio da Paolo Magnoni. Bonaga ritrovò la prima squadra nel 1963/64 con qualche amichevole, poi due presenze in campionato nel 1964/65. Ma in quegli anni e in quelli precedenti era stato grande protagonista nelle giovanili delle V nere, a partire dal 1957/58, spesso in coppia con il fratello Stefano. Tanta era la passione dei fratelli Bonaga, che una volta ci scappò anche una manomissione delle date sui cartellini per giocare (ma non rivanghiamo, anche perché ormai i testimoni non sono più tra noi, dal grande virtussino Guido Foschi, a un altro appassionato delle V nere, Italo Vezzali, quella volta avversario che scoprì l'inganno). A metà anni sessanta Giorgio Bonaga lasciò la Virtus, ma intraprese una dignitosa carriera, ma sempre sopra le righe, tanto da vedersi affibbiato uno storico slogan "Bonaga meglio di Raga", paragonandolo all'asso messicano di Varese. Un'idea che venne ai fratelli Tullio e Maurizio Ferro, ben prima che il secondo diventasse giocatore della Fortitudo e poi della Virtus: il Gira GD di Bonaga, che militava in serie B, giocava prima della Fortitudo e i fratelli Ferro erano già sugli spalti e furono colpiti da questo giocatore velocissimo. Anche lontano dal bianconero, Giorgio è rimasto sempre però legatissimo alla Virtus, competente tifoso, ma anche giocatore e allenatore nelle gare di vecchie glorie. Rimane un personaggio talmente emblematico di Basket City, che ancora oggi, dopo oltre mezzo secolo, si narra di episodi che raccontano del suo talento. Come quella volta che in un torneo estivo, nell'ultimo minuto, con il punteggio in parità, volò in contropiede e si ritrovò con un solo avversario come ostacolo per arrivare a canestro: Giorgio, con un'azione più di stampo calcistico, lo superò mandando il pallone da una parte e recuperandolo dopo avere aggirato il difensore dall'altra. Chi assistette a quel gesto sublime rimase di stucco di fronte a un'invenzione che nessun altro avrebbe tentato, soprattutto in quel frangente con il punteggio in bilico. Se la mattina vi trovate a passare per Piazza Santo Stefano lo troverete seduto fuori dal bar attorniato dai vecchi amici, ma non chiedetegli dei suoi trascorsi cestistici, glisserà con naturale modestia, ma invitatelo a parlare del futuro della pallacanestro, perché Giorgio, che fa parte della storia bolognese cestistica e non, è sempre proiettato nel futuro. Non ha da esibire grandi trofei, ha appena sfiorato la serie A, ma Giorgio Bonaga è uno di quei personaggi per il quali Bologna è diventata Basket City, la capitale del basket italiano.
MEGLIO DI RAGA, NON SI DISCUTE!
La firma del “professore” sul basket bolognese. «Alla Virtus sono arrivato a tredici
anni, e ho fatto tutta la trafila» «Quel coro lo inventarono i fratelli Ferro, e un po’ mi vergognavo: ma ero veloce, questo sì. Quando Lucio Dalla affermò di essere il papà del gigante Calebotta... Notti in bianco, poi Tobia e Lucio mi urlavano di andare a letto prima» «Al Playground dei Giardini ho giocato con jeans e stivali a punta.Mi definirei un
tifoso competente, uno che odia il fanatismo»
di Marco Tarozzi - Stadio - Corriere dello Sport - 26/01/2022
Giorgio Bonaga, cosa provava quando, mentre era in campo, dagli spalti si alzava il coro “Bonaga è meglio di Raga”?
«Un sentimento di vergogna, soprattutto. Perché Manuel Raga era uno dei più grandi fenomeni mai sbarcati nel basket italiano, all’epoca. Era un paragone impossibile».
A qualcuno, evidentemente, i conti tornavano.
«Tullio e Maurizio Ferro hanno sempre avuto voglia di scherzare. Io avevo già lasciato la Virtus e giocavo nella GD. Andavamo in campo alle 15, prima della partita della Fortitudo, e loro erano già lì sugli spalti. Quando partiva il coro, dal campo cercavo molto discretamente di farlismettere...».
Qualche merito l’avrà pure avuto.
«Sono stato un giocatore di medio livello. Un regista piccolo e veloce. Questo mi caratterizzava, e mi dava quel poco di popolarità di cui ho goduto. Però, per i tempi ero abbastanza inadatto».
Per quale motivo?
«Avevo caratteristiche di dinamismo che mi mandavano fuori tempo, nel senso che quasi nessuno aveva accelerazioni simili, e il risultato era che in una pallacanestro fondamentalmente lenta finivo per dovermi fermare».
A questo proposito, aveva anche inventato un soprannome per Calebotta.
«Lo chiamavo “Controflusso”, perché gli dicevo che si trovava sempre in attacco quando difendevamo e in difesa quando attaccavamo. Ma in realtà scherzavo, perché è vero che i lunghi allora dovevi aspettarli, ma Nino era tra i grandi dell’epoca».
Debutto in prima squadra il 4 marzo 1962. Data significativa, per uno che ha avuto tra i suoi grandi amici Lucio Dalla.
«Spesso ci trovavamo al sabato sera a mangiare da Cesari, in via Carbonesi. Io arrivavo con la borsa sportiva, perché poi avrei dovuto giocare la domenica mattina e sapevo che non si sarebbe andati a letto. Tobia, ovvero Umberto Righi, collaboratore stretto di Lucio fin dai tempi della gavetta, era stato tutto il tempo al ristorante con noi, sapeva bene delle mie nottate insonni e ogni tanto, quando sugli spalti c’era un attimo di silenzio, sentivo la sua voce che mi pungolava: “Bonaga, va a lèt prèmma la sìra!”».
Quella con Lucio è stata una grande amicizia, nella quale entrava da protagonista anche la pallacanestro.
«Due cuori virtussini. Ricordo i tempi in cui lui abitava a Roma, ma saliva a Bologna quasi ogni fine settimana. Non era ancora famoso, non conosceva Porelli che aveva preso le redini della Virtus in tempi difficili: c’era da raddrizzare la barca, e tra le prime decisioni dell’Avvocato ci fu quella di eliminare tutte le tessere di favore. Io avevo comunque fatto l’abbonamento, e un pomeriggio io e Lucio ci presentammo insieme al Palasport per vedere la partita. L’addetto ai cancelli ci chiese di mostrare la tessera, che Lucio vivendo a Roma non aveva. Ricordo come fosse ora: io entro, e lui senza esitazioni si presenta così: “Sono il padre di Calebotta”. Aveva scelto proprio il giocatore più alto, due metri e quattro centimetri. Ho in mente l’espressione della maschera, che lo squadrò e poi, non sapendo cosa rispondere, gli disse semplicemente, con un tono rassegnato: “Va là, fila dàntar!”»
Riavvolgiamo il nastro. La passione bianconera nasce dalla militanza.
«Quel debutto della primavera ’62 fu una toccata e fuga. Alla Virtus sono arrivato ragazzo, a tredici anni, e ho fatto tutta la trafila delle giovanili. In Serie A ho giocato soprattutto dal ’63 al ‘65. Ero il decimo uomo, un giovane all’ultimo anno tra gli juniores, e mi ritrovai con gente come Giomo, Calebotta, Pellanera, Alesini, e poi Dado Lombardi che segnava a raffica. L’anno dopo arrivò Giovanni Dondi Dall’Orologio, figlio del presidente, e la strada diventò stretta e tortuosa per me».
Fu a quel punto che si aprì quella che portava alla GD.
«Fin lì aveva avuto una squadra “aziendale”, ma l’impegno dei Seragnoli la fece crescere. Giocavo in Serie C, e dopo la promozione in B. Vissi gli anni da “professionista”, nel senso che ricevetti i primi soldi, qualcosa come 300mila lire al mese che per un ragazzo era una discreta sommetta. Nel 1972 ho giocato l’ultima stagione col Gira “griffato” Montenegro, poi il servizio militare e l’Università, dove iniziavo a insegnare, mi hanno fatto dire basta».
Il che non significa che abbia accantonato una passione vera. Nella Sklero Basket, banda di veterani pronti soprattutto a divertirsi, c’era la sua firma.
«La fondammo io e Massimo Osti. C’erano Fultz, Villalta, Martini, Benelli, Albonico, Ferracini, Serafini. Età media cinquant’anni. Però vincemmo il campionato di Seconda Divisione, e poi quello di Prima. Poi Villalta e Martini si misero in testa di giocare in Promozione, dove c’era gente giovane e assatanata che si allenava davvero. Insistettero, affrontammo quella categoria e non vincemmo una partita in stagione. Dopo, quando vedevo Renato e Mario li prendevo in giro: voi siete il gatto e il gatto, dicevo, perché la volpe non c’è».
Al Playground dei Giardini, dove se ne sono viste tante, lei ha un primato ineguagliabile: l’unico giocatore sceso in campo con gli stivali.
«La scena è questa: sono lì da semplice spettatore, ci sono quelli del Gruppo Vela che prima dell’inizio della partita si contano e capiscono di essere sotto organico. Stefano Dall’Ara, che tira le fila, dà un’occhiata a chi bivacca sui gradoni, mi nota e mi chiama; io non me lo faccio dire due volte, infilo una canotta e gioco tutto il primo tempo così, in jeans e stivali. Nell’intervallo sono arrivati calzoncini e scarpette...».
La passione evolve nel tempo. Oggi che tifoso è, Giorgio Bonaga?
«Uno che odia il fanatismo. Se vado a vedere Roberto Bolle danzare, non è che non lo applaudo perché non è di Bologna. Rispetto, considerazione e stima dell’avversario sono fondamentali, e sono valori che dovrebbe insegnare la scuola. Mi definirei un tifoso competente, uno che discute di sport, ma non sarò mai un estremista».
Il cuore resta comunque bianconero.
«Quello non cambia colore».
THE FUNNY STORY OF SMALL GIORGIO PLAYMAKER
Introduzione di Enrico Campana - Basket Vision - 11/07/2025
Come i grandi scrittori guadagnano altra stima scrivendo in terza persona, ecco "the funny story of small Giorgio Player". Non so se questo racconto è scritto dal protagonista, Giorgio Bonaga o da un alter ego che lo conosce fin dall'infazia, magari il fratello filosofo e mondano. Dopo averlo letto trovandolo spassoso, è una ghiotta occasione per pubblicarlo. Si incastra anche nella storia d'Italia, dal servizio militare stupidamente "punitivo" per chi ha idee proprie e un importante ruolo sociale, pensate che a soli 26 anni lui era già professore bilaureato all'Università di Bologna e oltre alla chimica voleva prendere anche la terza in Fisica. Dotato di talento raro come giocatore di basket, un bassotto capace di schiacciare come Spud Webb (nonostante il suo 1,68 ebbe fama per la vittoria nella gara della schiaccita dell'All Star Game) e di rubare la scena a un personaggio come Dado Lombardi (nel torneo di Roseto) che alle Olimpiadi di Roma, appena ventenne, fu degno del Quintetto Ideale con le grandi star americane. Con Lucio Dalla, il suo più grande amico dall'infanzia e compagno di squadra alle leva della Virtus di Gianni Corsolini, creato però come giocatore da Beppe Lamberti, pensate poi che in atletica correva i 100 metri il 10"9. Grazie al suo senso paradigmatico del gioco di squadra sia nello sport che nella vita sociale, è uno degli ultimi personaggi a tutto tondo. Molto di più di un influencer, è un ambasciatore dotto e con senso pratico e umano di questa Bologna che ha radici culturali millenarie grazie alla famosa Alma Mater crocevia della cultura europea e dove i regnanti mandavano i loro figli a studiare. Ancora oggi insegna, aggiornandosi di anno in anno, tanto che le sue lezioni diventano un'attrativa per le giovani menti, mentre potrebbe vivere negli Stati Uniti che gli ha offerto la cattedra universitaria più prestigiosa nel campo della chimica, grazie anche a un suo best seller in materia sulla chimica benefica. La gloria può attendere... preferisce usare quotidianamente il suo talento spontaneo e la capacità di calarsi nel ruolo di collante umano e spiritoso: presidente dell'Airc Emilia e Romagna ma anche un asso nella briscola bolognese. Un genio che spunta nei quattro angoli, divertente narratore, scrittore, relatore e nel ruolo di opinionista e giornalista del suo sport preferito, il basket. Figura non replicabile, generoso, leale, bello dentro, amato dalle donne e naturalmente dalla famiglia, un figlio che tende al genietto e affascinante e colta moglie internazionale. Essere Giorgio Bonaga è un modello di vita allegra, utile, impegnata, vissuta a 360 gradi, che ruota sul "piede perno", fondamentale del basket che marca i campioni. Vedi ad esempio, quella di inventare una squadra di famosi ex campioni azzurri, Villalta, Bonamico, Ferracini, Serafino, chiamarla Sklero affidando la presidenza onoraria a Basaglia.... Grazie dunque all'autore di chi ci ha inviato questo racconto costruttivo, edificante, invidiabile, esemplare per gustare una storia di una vita vera, dinamica, umana. Sottoscrivo il filo rosso del racconto, però a volte è capace di fare anche....lo stronzo. Ma sempre divertente. Buona lettura....
GIORGIO BONAGA, “LUPETTO”, L’AMORE DELLO STUDIO, LA SUA BOLOGNA
di Giorgio Bonaga - Basket Vision - 11/07/2025
Dunque, siamo negli anni ‘50 che, per un bambino di 9 anni di condizione sociale modesta, significava essere prigioniero nel triangolo inesorabile dell’Italia del dopoguerra: famiglia, scuola e parrocchia. La famiglia di Giorgio Bonaga era meravigliosamente povera ed incredibilmente allegra e serena (grazie ad una madre e ad un padre tanto ignoranti - o meglio non scolarizzati - quanto intelligenti). A scuola era molto bravo, perché gli piaceva studiare (capita), senza essere un secchione. In parrocchia divenne un “lupetto”, un membro dell’organizzazione giovanile ASCI (Associazione Scautistica Cattolica Italiana), che al compimento del 12esimo anno poteva diventare uno “scout” (gli scout, dai critici più crudeli, venivano definiti: “dei bambini vestiti da cretini comandati da dei cretini vestiti da bambini”). Giorgio è stato un ottimo lupetto, raggiungendo il grado di “lupo anziano a due stelle, con 14 specialità“ (cuoco, chierico, esploratore, maratoneta, massaia, falegname, guida, ecc.), oltre ad essere il caposestiglia dei Lupi Fulvi del Bologna 1. La sua foto vestito da lupetto fu riportata nella prima pagina della rivista dell’Associazione, che si chiamava “Bau Bau”, in qualità di lupo anziano tra i più “decorati” d’Italia (anche se i 14 triangolini di cuoio delle specialità che si era guadagnato non stavano tutti nella manica troppo corta del maglioncino blu di un bambino alto circa 100 cm). Dai 9 ai 12 anni fu lupetto, un’esperienza che non ha mai rinnegato e sottovaluto, perché non voleva dire essere membro di una comunità cattolica “bigotta”, ma piuttosto essere un soggetto attivo di un’organizzazione dedicata all’avventura (campeggi, balneazioni, esplorazioni della natura, ecc.) e all’attività fisica (scalpo, palla a 5, rubabandiera, cavallina, ecc.). Giorgio ricorda il suo primo approccio con la “palla al cesto”, perché in una sala della sua parrocchia era stato sistemato un canestro, ma così vicino al soffitto che molto spesso il pallone (probabilmente quello da calcio), scagliato verso il canestro si incastrava tra il soffitto e il ferro. A 12 anni, suo fratello Stefano, anziché passare negli scout, cominciò a giocare a pallacanestro nella squadra degli allievi della Virtus Minganti, allenata da Gianni Corsolini. Fu così che anche Giorgio, l’anno dopo (1957) fece la stessa scelta e cominciò a giocare nella “Palestrina” di via San Felice, una ex chiesa sconsacrata dopo si allenavano le squadre giovanili della Virtus e dell’Acli Labor. L’Acli Labor aveva ingaggiato come allenatore (non si chiamava ancora “coach”, allora) un giovanissimo Beppe Lamberti e tra i suoi allievi giocava un 14enne molto basso e già molto peloso in tutto il corpo, che diventerà famoso con le sue vere generalità: Lucio Dalla, anche se allora, dato il suo aspetto, gli affibbiarono il soprannome di “Tombolino”. Dunque il primo, indimenticabile, allenatore di Giorgio è stato quel galantuomo di Gianni Corsolini, che nel 1958 lasciò le giovanili della Virtus ed andò ad allenare la Pallacanestro Cantù di Aldo Allievi, in serie A. Insomma, tra la vita da scout e la pallacanestro Giorgio scelse definitivamente la seconda. E non si è mai pentito. È di quegli anni un episodio curioso, che però fece abbastanza scalpore (e ridere) nel mondo del basket giovanile di Bologna. Il fratello Stefano, non si sa per quale motivo, quando la Virtus gli fece compilare il “cartellino” scrisse che era nato il 5 marzo 1945, anziché 1944 che è il suo vero anno di nascita (allora l’anagrafica veniva dichiarata, non dimostrata con un documento). Quando fu il suo turno, Giorgio fu costretto a scrivere che era nato nel 1946, essendo loro due fratelli e non gemelli. Verso la fine di quel campionato allievi la Virtus con Stefano e Giorgio incontrò una squadra molto modesta, il CVD (Ci Vogliamo Divertire), nella quale giocavano i fratelli Cinti, due loro cugini di primo grado. Giorgio fece 30 punti, suo fratello qualche punto di meno e vinsero la partita per 80 a 20. Nello spogliatoio, i compagni dei Cinti, commentando le ottime prestazioni dei due Bonaga, sottolinearono anche il fatto che eravano più giovani di loro di 1 e 2 anni. In conclusione, informati dai Cinti della loro vera età, il CVD fece ricorso e la FIP regionale decretò la squalifica di tutte le partite giocate dai fratelli Bonaga, tanto che la Virtus allievi si classificò all’ultimo posto. La carriera agonistica di Giorgio continuò e divenne juniores, sempre nella Virtus, mentre il fratello Stefano quando di iscrisse alla terza liceo classico abbandonò il basket agonistico per una passione che in lui aveva già sostituito quella per la pallacanestro: le donne !!! Nel 1962-63 Giorgio era juniores nella Virtus Knorr e fece un campionato eccellente. Era un playmaker di 170 cm, con un’ottima visione del gioco (lo dicevano i tecnici di allora), molto veloce (faceva i 100 metri in 10”9), che saltava come un grillo e faceva una media di 20 punti a partita. Il suo limite principale era nella difesa, perché marcando degli avversari di stazza quasi sempre superiore alla sua, cercava troppo spesso di rubar loro la palla commettendo un po’ troppi falli difensivi. Quell’anno fu anche premiato come miglior giocatore al IV Torneo Baggioli di Milano, una manifestazione riservata alle squadre juniores delle società di serie A. Nel 1963, terminato il campionato italiano juniores (la Virtus arrivò terza, dietro Padova e Varese), sia per l’insistenza di Giulio Battilani (vice allenatore della Virtus Knorr) che era un suo grande estimatore, sia per l’apprezzamento dell’head coach, lo spagnolo Eduardo Kucharski, Giorgio fu aggregato alla prima squadra che si apprestava a prender parte ad alcuni tornei estivi.
Il roster della Virtus di quell’anno era: Calebotta, Alesini, Bonetto, Borghetti, Dazzi, Giomo (Augusto), Lombardi, Pellanera, Zuccheri, Rossi (Santo). Bisogna ricordare che alle OIimpiadi di Roma del 1960 Gianfranco (Dado) Lombardi era stato l’unico atleta non USA ad essere inserito nel quintetto “all star”. Gli altri quattro nominati allora, sono delle vere e proprie leggende del basket statinitense: Jerry West, Oscar Robertson, John Lucas e Walt Bellamy. È evidente che, per il giovane Giorgio, Dado Lombardi fosse un vero idolo e fu quindi molto lusingato quando Kucharski, nella partita di esordio contro l’Algor Pesaro nel torneo estivo di Roseto degli Abruzzi, lo schierò nello “starting five” insieme a Giomo, Pellanera, Lombardi e Calebotta. La cronaca dei primi minuti di quella partita consente di cogliere meglio il senso di quegli eventi: Calebotta vinse la palla a due iniziale, il pallone arrivò nelle mani di Giorgio che andò a segnare in contropiede (2 a 0); in difesa Giomo recuperò la palla e, giunto in attacco, la passò a Giorgio che, essendo poco pressato dal suo difensore (ma in fondo per il suo avversario, chi era quel ragazzino?), tirò da fuori e realizzò (4 a 0); nel nuovo attacco di Pesaro Giorgio riuscì ad anticipare Marchionetti, gli rubò il pallone e andò a realizzare ancora in contropiede (6 a 0). Mentre stava tornando in difesa orgoglioso di se, Dado Lombardi gli si avvicinò, gli cinse le spalle con il braccio e anziché fargli i complimenti (se li aspettava. Era pur sempre un 17enne intraprendente, no ?), lo guardò negli occhi e molto serio gli gridò in faccia: “Adesso la pianti di tirare !!!” Non essendo timido di natura e ben consapevole fin da allora che il basket sarebbe stata certamente una passione della sua vita, ma non il suo mestiere, Giorgio si liberò con stizza da quell’abbraccio e guardando Dado dal basso in alto (non poteva essere altrimenti) gli rispose con altrettanto piglio: “Visto che faccio canestro continuo a tirare finché mi pare, caro il mio Dado”. Questo piccolo battibecco non sfuggì a Kucharski che chiese subito il cambio. Conscio delle gerarchie Giorgio si avvicinò alla panchina per uscire, ma coach Kucharski, indicando Lombardi con l’indice disse: “Tu Dado, cambio. No, non tu Giorgio”. Giorgio guardò un Lombardi incredulo e gli fece un classico, ma molto energico, gesto dell’ombrello, suscitando l’ilarità del pubblico presente all’incontro. Questo episodio non impedì a Dado e a Giorgio di rimanere amici per tutta la vita, anche se hanno vissuto due storie completamente differenti. O, forse, proprio per questo. Nel 1964 Giorgio si iscrisse all’Università di Bologna e, non più juniores, giocò nella squadra di serie B della Virtus Knorr (naturalmente era impedita la promozione perché in serie A c’era già la Virtus), ma anche alcune partite con la Virtus di A. L’anno successivo Giorgio fu ceduto ad una Società di serie C (il Gira, sponsorizzato dalla GD dei Seragnoli) con la quale, grazie ad alcuni rinforzi di valore (Mario Nannetti, Marco Ciamaroni, Paolo Conficoni ed altri) furono promossi in serie B. In quegli anni di basket dilettantistico (la legge Bosman era ancora “di là da venire”) Giorgio percepiva circa 400mila lire di “rimborsi spese” al mese, per 10 mesi all’anno. Non male, per allora, no ? Il tempo dedicato al basket in quegli anni si limitava a 3 allenamenti settimanali di un’ora e mezza e alla partita di campionato, che una domenica si ed una no si giocava in trasferta. Questo tempo dedicato al basket, comunque, non interferiva più di tanto con la necessità di Giorgio di ottenere degli ottimi risultati negli esami dell’Università (perché era la condizione per avere la conferma della borsa di studio, con la quale si manteneva senza gravare sul bilancio della sua famiglia). In quegli anni cominciò a vedere alcuni (rari) filmati dei campionato NBA, grazie al materiale che gli procurava un vero appassionato di basket americano, Vittorio Verasani, che aveva anche giocato (solo pochi minuti a partita, in verità) nella Virtus Minganti nelle stagioni 1954-55 e 1955-56, due campionati che si erano conclusi con la Virtus Campione d’Italia. In uno di quei preziosi filmati Giorgio vide per la prima volta quello che diventò il suo idolo di allora: Pete “Pistol” Maravich. Pete resterà una leggenda per le sue entrate contro tempo, per i suoi passaggi dietro la schiena ed altri ancora più imprevedibili (è uno dei pochi, grandi, inventori di passaggi, una specie di padre spirituale di Magic Johnson, Larry Bird, Manu Ginobili, Miloš Theodosić e pochi altri), ma era grande anche per la precisione nel tiro da fuori e per la concretezza della sua regia.
Fino alla primavera del 1972 Giorgio ha sempre giocato in serie B al Palasport di Bologna la domenica pomeriggio, ma per un paio d’anni la partita della GD precedeva quella di serie A della Fortitudo o della Virtus. Risale a quegli anni un “refrain” che ormai è una piccola ossessione nella sua piccola biografia di giocatore di basket. Gli autori del coro “Bonaga è meglio di Raga” furono i fratelli Ferro, Tullio e Maurizio, che venivano al Palasport (oggi PalaDozza) in anticipo rispetto l’orario delle partite di serie A. Il coro iniziava dai fratelli Ferro e poi a quel ritornello si univa buona parte del pubblico presente. Per dovere di cronaca, Tullio è uno dei musicisti di Vasco Rossi (è sua la musica di “Vita spericolata”), mentre Maurizio è stato un buonissimo giocatore di basket, anche in molte squadre di serie A, e oggi è coach a Riccione (serie D). Per rinviare il servizio militare, dopo aver conseguito la laurea in Scienze biologiche, Giorgio mi iscrisse e si laureò in Chimica, mentre l’espediente di iscriversi anche a Fisica non funzionò perché la legge italiana prevedeva il rinvio per motivi di studio fino al compimento del 26esimo anno d’età e non oltre. Così, nel luglio del 1972, nonostante a 27 anni fosse già Professore presso l’Università di Bologna, con la coda tra le gambe fu costretto a partire per il CAR (è l’acronimo di “Centro Addestramento Reclute”) di Casale Monferrato, riservato ai soldati di fanteria.
Dopo pochi giorni di naja Giorgio capì a cosa servivano i due piantoni all’ingresso della caserma: a non fare entrare il buon senso. Poteva, a quasi 28 anni, divertirsi con le prepotenze e i soprusi del “nonnismo” ? No, di certo. Era logico la sveglia alle 6 del mattino per cominciare alle 10 le attività di addestramento ? No, di certo. E tante altre cose.
Comunque Casale Monferrato non fu la tomba della sua carriera agonistica, perché all’inizio di settembre 1972, durante una libera uscita, incontrò un “angelo“ che da quel giorno 3 volte alla settimana lo andava a prendere in caserma per farlo allenare con la squadra dello Junior Casale e, alla domenica, lo portava a giocare le partite di precampionato oppure a Milano a pranzo da sua moglie e poi a vedere le partite casalinghe del Simmenthal. Quel gentiluomo che Giorgio incontrò per le strade di Casale, quella splendida persona che non scorderà mai e non finirà mai di ringraziare ovunque sia, quell’angelo che incontrò per caso e che lo salvò dal baratro dello sconforto e della depressione ha un nome e un cognome: Vittorio Tracuzzi.
Con il parere favorevole di Tracuzzi, lo Junior Casale lo voleva ingaggiare (dandogli anche un buon “rimborso spese”) come playmaker nel campionato di serie B che iniziava ai primi di ottobre 1972, ma le autorità militari gli negarono, per motivi politici, l’autorizzazione a firmare quel contratto. Bisogna ricordare che nel dicembre del 1970 in Italia c’era stato il tentato colpo di Stato di Junio Valerio Borghese e da quell’anno nelle caserme fu potenziata la repressione verso i soggetti che - con il sistema di schedatura gestito dall’Arma dei Carabinieri - erano classificati come appartenenti alla sinistra più radicale. Giorgio era stato schedato come militante di “Potere Operaio” e questo era più che sufficiente per negargli ogni agevolazione e punirlo in ogni occasione (in verità, non è mai stato di Potere Operaio, ma militava in un gruppo molto più dedicato alla teoria politica che allo scontro con lo Stato. Era il Manifesto, fondato, tra gli altri, da Rossana Rossanda e da Luigi Pintor). Dopo il trasferimento a Verona ed il congedo definitivo dall’esercito, nell’agosto del 1973 Giorgio tornò a Bologna ed al suo lavoro accademico, senza rinunciare comunque a giocare a basket, questa volta in squadre che oggi sono definite “Minors”. All’inizio degli anni ‘80, insieme ad altri appassionati (giovani e meno giovani) cominciò a frequentare il campo all’aperto dei Giardini Margherita di Bologna e ad organizzare dei tornei 3x3 e 4x4 che, in breve tempo, ottennero un grande successo. Questi tornei pomeridiani possono essere considerati i genitori del “Walter Bussolari Playground” un torneo che si svolge a Bologna tutti gli anni, a partire dal 1983, e che oggi è uno dei più prestigiosi e popolari playground del mondo. Giorgio partecipò come giocatore alle prime edizioni, poi negli anni successivi optò per il ruolo di allenatore, insieme al Maestro Concetto Pozzati (noto artista ed ex giocatore della Virtus Bologna) della squadra dell’Accademia delle Belle Arti, con la quale vinse due volte il torneo dei Giardini Margherita. Nel 1992, alla fine di un’amichevole, ma vivace, discussione con Renato Villalta, Maurizio Bedin e lo stilista Massimo Osti (un loro caro amico), decisero di fondare una squadra di ex-giocatori. L’originalità dell’idea consisteva nel fatto che bisognava trovare uno sponsor abbastanza “folle” da essere disposto ad investire su dei “vecchi” anziché su dei “giovani”, ma l’ottimismo del gruppo era alle stelle. In conclusione ed in sintesi: per spirito autocritico chiamarono la squadra “Sklero Basket”, ottennero dalla Società “WP lavori in corso” dell’originale e simpatico Giuseppe Calori una robusta sponsorizzazione ed infine nominarono Presidente onorario Franco Basaglia, cioè colui che con la legge 180 aveva abolito i manicomi, rendendo così possibile anche la loro … “pazza idea”. Il roster della squadra era: John Fultz, Renato Villalta, Gigi Serafini, Vittorio Ferracini, Marco Bonamico, Renato Albonico, Mario Martini, Marco Baraldi, Maurizio Bedin, Giorgio Bonaga (allenatore/giocatore). Nonostante l’età media fosse superiore a 40 anni, con punte di 47 (proprio Giorgio Bonaga) la squadra non era poi così male, no? Il primo anno vinsero la 1^ Divisione, il secondo anno vinsero la 2^, che dava il diritto di giocare il campionato di Promozione. Giorgio, molto saggiamente, sconsigliò di iscriversi ad un campionato così impegnativo (specialmente in Emilia Romagna) con una squadra “vecchia” e che si allenava poco, ma nella riunione fatta per decidere cosa fare una maggioranza (irresponsabile) decise di iscrivere la Sklero Basket al campionato di Promozione. Il bilancio del terzo anno fu catastrofico: zero partite vinte, record di squalificati e di multe, zero divertimento perché chi ha praticato lo sport agonistico non ci sta a perdere neppure se tutti i suoi compagni di squadra sono diventati ciechi. Alla fine del 1995 la Sklero Basket, che grazie a Massimo Osti era anche la squadra più elegante d’Italia (li chiamavano “i Lord Brummel”), si sciolse definitivamente. Finì con la Sklero Basket la carriera di giocatore di palla al cesto, poi di pallacanestro, infine di basket di Giorgio Bonaga e iniziò quella di semplice spettatore. A parte il periodo 2003-2019 e i due anni (2021-23) di Sergio Scariolo, in cui la Virtus era troppo deludente per essere “guardata”, Giorgio ha ripreso ad appassionarsi al basket con la Virtus di Sasha Djordjevic, di Luca Banchi e di Duško Ivanović. Definire il basket vuol dire, in realtà, definire anche tutti gli altri sport di squadra: è una banalità dirlo, ma è una banalità dalla quale non si può prescindere affermare che gli sport di squadra esigono che ogni giocatore sia consapevole che le proprie capacità individuali possono essere perfino dannose se non si integrano con quelle dei compagni. Negli sport di squadra dev’essere egemone il valore del “noi” rispetto quello narcisistico dell’“io”, perché anche l’individualità di maggior talento, se avulsa dal collettivo, può essere perfino nociva. Sono queste le ragioni per le quali Giorgio ha scelto, come giocatore modello del basket europeo, Predrag “Sasha” Danilović, la cui sontuosa individualità è sempre stata messa al servizio della squadra, sia della sua nazionale (la Serbia) che dei club europei nei quali ha giocato (la Virtus Bologna e il Partizan Belgrado).
Per concludere, un breve calcolo ed un commento alla foto del terzo tempo di Giorgio Bonaga: se alla sua altezza di 170 cm si aggiungono circa 45 cm di estensione del braccio sopra la testa, si ottengono 215 cm. Essendo l’altezza del canestro di basket di 305 cm, il differenziale del suo salto è di circa 90 cm. Non male, lo sa anche lui, non male !