DAN PETERSON

(Daniel Lowell Peterson)

(allenatore)

Dan Peterson appena arrivato a Bologna

nato a: Evanston, Ill. (USA)

il: 09/01/1936

Stagioni alla Virtus: 1973/74 - 1974/75 - 1975/76 - 1976/77 - 1977/78

statistiche individuali

biografia su wikipedia.it

palmares individuale in Virtus: 1 scudetti, 1 Coppa Italia

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PETERSON IN ITALIA CON DUE NAZIONALI CILENI

Il nuovo allenatore della Norda a Bologna in settembre

di Luigi Coreschi - Stadio - 22/06/1973

 

Santiago del Cile, 21. Dan Peterson, l'allenatore statunitense della Nazionale cilena di basket, è molto soddisfatto del contratto firmato con la Virtus di Bologna.

"Quella gente - dice - non poteva trattarmi meglio. Ha compreso che ho degli obblighi con la Nazionale cilena e mi ha quindi permesso di continuare a dedicarmi ad essa sino al primo settembre, quando mi recherò in Italia".

Peterson era stato ingaggiato dai cileni per dirigere la Nazionale maschile di basket, che ha il suo massimo obiettivo nei Giochi Panamericani che si svolgeranno in Cile nel 1975. Sotto la sua direzione tecnica, la squadra ha fatto indubbiamente dei progressi, come lo dimostra la tournée effettuata negli Stati Uniti e la partecipazione al primo Festival mondiale del basket svoltosi recentemente in Perù. Ivi, i cileni, per esempio, sono riusciti a sconfiggere l'Uruguay, una squadra sulla quale da quindici anni non la spuntavano.

Prima di partire per l'Italia, Dan Peterson guiderà la Nazionale cilena in due importanti tornei continentali: il campionato sudamericano che si svolgerà a Bogotà (Colombia) a partire dal 26 luglio e il torneo afrolatinoamericano che si svolgerà in Messico nel mese di agosto. Forse, Peterson non andrà solo in Italia, dato che è sua intenzione di portarvi anche due cestisti cileni sui quali fa molto affidamento come elementi che andrebbero bene al basket italiano, approfittando del fatto che le squadre italiane possono ingaggiare un cestista straniero. Si tratta di Edgardo Arizmendi e Francisco Pardo, entrambi della nazionale cilena.

"Questi due giocatori - dice il futuro tecnico della Virtus - hanno eccellenti possibilità di aver successo in Italia".

Ad ogni modo, il tecnico statunitense ha aggiunto che quei cestisti non andranno alla Virtus. "La squadra bolognese - egli ha detto - ha già lo straniero e non vale la pena sostituirlo, perché si tratta di un giocatore molto bravo e di grande statura".

IL PICCOLO DAN PROMETTE TRE COSE...

di Gianfranco Civolani - Giganti del Basket - Ottobre 1973

 

Il piccolo Dan mi fa l'effetto di un ballerino di tip-tap o magari di un entertainer da night. Metri uno e sessanta con tacchetto pretenzioso, capelli lunghi alla paggio, occhi chiari, lineamenti da bambino stizzoso.

The name, Mister Dan, is your name Peterson or Petersen or Pedersen?

Por favor, parliamo italiano. Io so parlare spagnolo e un poco italiano, studio ogni giorno italiano, tu mi aiuti a parlare italiano?

Insomma, come ti chiami?

Dan Peterson.

Danese?

Bisnonni danesi, ma no, parenti di duecento anni fa, forse...

Nato dove e quando?

Nato a Evanston, Illinois, il 9 gennaio 1936. Evanston confina con Chicago. Ma occhio alla differenza: Chicago è la citta più brutta del mondo, Evanston la più bella. Papà mio faceva il poliziotto, ho un fratello di trentaquattro anni. Ho pure moglie e due figli. Sono sposato da dieci anni, ma non mi va di parlare della famiglia. Mio figlio deve essere un ragazzo libero di dieci anni, guai se anche solo per un attimo si sente figlio di Dan Peterson e condizionato da Dan Peterson, capisci?

Tua adolescenza, tua escalation, tuoi studi, raccontati un po'...

Ho frequentato la Northwestern University e poi l'Università di Michigan. Nel 1962 sono diventato maestro di educazione fisica e storia. E poi tutto basket, sempre basket. Giocavo, anche. Uno schifo mai visto. Beh, no, non era una cosa seria. Tentavo di giocare, ma come vedi non sono una pertica d'uomo...

Parliamo delle tappe...

Ti scrivo tutto su questo foglio, puoi farlo leggere agli sportivi. Tieni presente quattro anni come assistant coach e poi cinque anni come capo unico all'Università del Delaware. E poi il Cile, come sai...

Sappiamo poco di questo Cile...

Mi arrivò un'offerta per andare là con il Corpo dei Pacifisti. Poche lire e pagate dagli Stati Uniti. Dal Cile nemmeno un escudo. Ma io non ho mai fatto questione di soldi. Mi interessa sempre fare esperienza, mi basta avere lo stretto necessario per vivere... Comunque guarda tu cosa dicono i giornali cileni. Un successo dopo l'altro. Quando sono arrivato a Santiago, non c'era quasi nulla. Ho ricominciato da zero. Qualche risultato? Ai giochi Sudamericani di quest'anno abbiamo ottenuto il miglior piazzamento degli ultimi vent'anni. E ascolta ancora: da venticinque anni il Cile non batteva l'Uruguay. Con Peterson a dirigere, modestamente abbiamo vinto sull'Uruguay quattro volte su quattro. Insomma mi sono trovato benissimo, ho raccolto buoni successi, potrei tornare in Cile in qualunque momento e mi accoglierebbero a braccia aperte. Anzi, l'estate prossima, situazione politica permettendo, ci tornerò due mesi, a fare un po' di preparazione fisica a quella gente...

Bene, ma allora perché sei venuto via?

Mi telefonò l'avvocato Kaner, mi disse che un club di Bologna cercava un coach. Feci un salto qui, conobbi Porelli, lui piacque a me, io piacqui a lui. E poi mi interessava maturare altre esperienze, conoscere il basket europeo, quello italiano, conoscere l'Italia, il vostro modo di vivere.

Sai niente del basket italiano?

Assolutamente niente.

Conosci qualche nostro giocatore?

Bob Morse, bravissimo...

Cosa sai del nostro campionato?

So che Ignis, Innocenti e Forst sono le squadre migliori. SO che dietro loro nello spazio di sei punti l'anno scorso sono finite nove squadre.

Sai pure che Ferracini potrebbe non giocare?

Sì, mi hanno detto, ma non sono problemi miei...

Hai un buon contratto?

Discreto, Ma ti ripeto: un uomo deve avere i soldi per mangiare, bere, dormire e vestire. Tutto il resto è superfluo. Ho firmato per un anno. A fine stagione la Virtus dovrà essere contenta di me, ma pure io dovrò essere contento della Virtus. Se saremo contenti tutti, firmerò per altri due anni.

Parlami dei tuoi sistemi, dei tuoi orientamenti tecnici.

Prima cosa: il basket è basket in senso universale e quindi applicherò alla Virtus semplicemente gli orientamenti che ho sempre avuto a proposito del basket. Quando avrò tutti i giocatori a disposizione, ci alleneremo 4 o 5 ore al giorno...

Troppo, troppo...

No, mai troppo, Le mie squadre in genere partono pianino, ma alla fine sono incontenibili. A marzo la Virtus sarà fortissima!

Marzo è tardi, meglio entrare in forma prima...

Beh, voglio dire che in genere le mie squadre raddoppiano il rendimento nel girone di ritorno...

Schemi di gioco?

Non so se giocherò con un pivot o con due. In difesa giocheremo a uomo. In Cile facevo sempre adottare il pressing, ma il Cile non aveva un Serafini e allora qui faremo comunque tanta difesa individuale...

Mai la zona?

Uhm, non mi piace la zona...

Cosa prometti ai tifosi?

Tre cose: una difesa che lavora, una squadra che è squadra, una squadra che ha sempre fiato per quarantaciqnue minuti, cioè per l'eventuale supplementare...

Hai già in mente il quintetto-base?

Gioca chi lavora. Quando Serafini, Bertolotti e Ferracini mi tornano dalla Nazionale, io non so mica chi sono. Lavoreranno e successivamente giocheranno. Nessuno deve godere di diritti acquisti.

Ti spaventa l'ambiente?

Oh, figurati, quando uno ha lavorato in Sudamerica...

L'uomo Peterson, dimmi dell'uomo...

Mi piace viaggiare, leggere, ascoltare musica e suonare. Sì, suono la chitarra e canto canzoni western. Suono male e canto male, ma ci provo.

Altri interessi?

Altri sports: hockey, football americano, tennis, baseball. Il vostro soccer, il calcio? No, non mi piace.

Sei repubblicano o democratico?

Ma tu credi che ci sia veramente differenza? Se vuoi saperlo, ho votato quattro volte: una volta per i democratici, poi sempre per i repubblicani. Ma sono facce dello stesso capitalismo, non c'è differenza...

A Bologna vivrai da solo?

Alt, por favor. Niente moglie, adesso. Devo dare un'occhiata, devo vedere come vanno le cose. Non posso avere fretta, devo rendermi conto, devo sapere dove sono capitato. Pensi che ho torto?

MAI DAVANTI AL PIVOT!

di Massimo Mangano - Giganti del Basket - Febbraio 1974

 

Chiacchierare con Dan Peterson è stato un vero piacere: non soltanto perché mi sono trovato bene con un coach con alcuni connotati fisici (altezza in primis) vagamente pari ai miei, ma soprattutto perché mister Peterson è una persona affabile, simpaticissima, con le idee già molto chiare non solo sul basket, ma, quel che più conta, sul basket italiano. Abbiamo iniziato a parlare di filosofia cestistica alle 13 e, se alle 16:30 non me lo avesse rubato un collega giornalista, Dan Peterson mi avrebbe probabilmente costretto a passare la notte a Bologna, sempre con una penna ed un foglio di carta zeppo di appunti, di schemi, di diagrammi. La filosfia di Peterson è di una chiarezza e di una semplicità addirittura sconcertante, ma appunto per questo mi è sembrata validissima. Soprattutto comunque mi hanno colpito l'uomo-Peterson, già perfettamente integrato nella vita, nei costumi, nei sistemi italiani, e il coach-Peterson, che non tira mai in ballo frasi tipo "... ma in America è un'altra cosa..., io nel mio college..., voi qui siete al medioevo..". Il basket è uguale dappertutto e tutti i tecnici hanno gli stessi problemi, sostiene Peterson. Ed è da questa affermazione che è partito praticamente il fuoco di fila delle domande che si proponevano di presentare Dan Peterson, come uomo e soprattutto come tecnico, con la stessa chiarezza con cui lui si offre e si presenta a tutti nel suo colorito ma chiarissimo idioma italo-american-spagnolo.

Anche se la tua esperienza è abbastanza breve, puoi dirmi Dan, quale differenza hai trovato tra la mentalità italiana e quella americana di concepire e di fare il basket?

Nessuna differenza tra le capacità di lavoro di un giocatore italiano ed un americano; nessuna differenza tra le possibilità dell'uno e dell'altro di progredire; una sola differenza ho trovato, nella mia squadra, rispetto alla squadra di college che ho allenato in America, non rispetto, comunque alla Nazionale cilena, che ho allenato per due anni: si tratta di quella capacità di concentrazione per quaranta minuti che, per esempio, è una delle caratteristiche peculiari dell'Innocenti o dell'Ignis o anche della Forst. La mia squadra attuale ha questo problema, come l'ha avuto il Cile per il primo anno, ma è anche un problema di convinzione nel lavoro che si fa e nei propri mezzi. Dunque deve essere oggetto di un lavoro non proprio brevissimo. Da questo punto di vista (convinzione e concentrazione), l'Innocenti che ho incontrato io è pari alle più forti squadre americane di college. Un altro problema che riguarda il mio lavoro in Italia è quello del convincere i giocatori che nel basket si progredisce continuamente anche a ventotto anni o a trenta.

Possiamo provare a dare un'idea, con poche frasi, dei sistemi della filosofia tecnica di Dan peterson?

Okay. Una sola parola potrebbe bastare: semplicità. Ma è una parola che va ripetuta all'infinito. E poi: fondamentali, resistenza, disciplina negli schemi. Ma la semplicità è alla base di tutto. Se la mia squadra deve fare un gioco semplice in attacco, lo ricorderà e lo metterà in atto anche nel momento più drammatico di un incontro, mentre un sistema complicato potrebbe metterci in difficoltà quando la squadra è in crisi. Io dico sempre ai miei giocatori, prima di ogni incontro: niente id nuovo, niente di differente, niente di difficile, neinte problemi...

Una volta chiariti questi principi generali, proviamo allora a esaminare prezzetto per pezzetto questa filosofia della semplicità, chiarendo ancora di più questo concetto o meglio come questo concetto viene esplicato giorno per giorno negli allenamenti...

Io ho preparato un programma generale di lavoro con moltissimi esercisz e con un piano che deve esaurirsi entro quest'anno. Alla base del mio lavoro sta la ripetizione continua di certi gesti e di certi movimenti, fino alla completa assimilazione. Nei mei allenamenti difficilmente un esercizio dura molti minuti. Preferisco fare tanti esercizi per pochi minuti. Lo stesso programma viene poi ripetuto settimana per settimana. Per esempio, il martesì e il mercoledì noi facciamo sempre lo stesso lavoro. Il martedì fondamentali d'attacco, il mercoledì fondamentali di difesa. Questo sistema permette sicuramente a chi lavora con impegno di progredire, ma in ogni caso ha il vantaggio di non far peggiorare nessuno. Se io non ripeto invece questo lavoro è facile che durante il campionato si peggiori. Gergati ha ventisette anni, ma fa fondamentali come gil altri e migliora anche lui, così come in America Jerry West, sacrificandosi e migliorando, oggi a trenta anni è ancora un giocatore adatto al basket moderno. Lui giocava vent'anni fa in un modo: ora gioco in un altro. Ma è sempre un campione".

Ma che tipo d'esercizi fai per i fondamentali di attacco e di difesa?

Uno contro uno senza palla, palleggi, trattamento di palla, tap-in, uno contro uno con il pallone, provando e riprovando tutti i tipi di conclusione e poi il tiro con una mano sola per migliorare e perfezionare la tecnica di tiro, poi la tecnica dell'arresto, la tecnica della ricezione del pallone. Poi 2 contro uno, 3  e 4 contro due. Come fondamentali di difesa per esempio il mercoledì i miei giocatori fanno venti-venticinque minuti di scivolamenti, con gli assistant a fare da specchio, poi tutta la tecnica della nostra difesa, la tecnica del tagliafuori, il marcamento del pivot e l'aiuto sul pivot. E poi finiscono sempre con una serie di suicide-trainings.

Qaul è, secondo te, il più grosso problema di un allenatore di squadre di club?

Convincere i giocatori che a vent'anni non sono arrivati, ma hanno appena iniziato la loro vita cestistica. Anche in molti college americani i coach hanno questi problemi. Convincere un ragazzo che a trent'anni deve giocare molto meglio che a vent'anni, così come a ventidue meglio di quando ne aveva ventuno. L'allenatore di una squadra Naizonale, per esempio, non ha questo problema, perché lui cambia tutte le volte e prende sempre i più forti in quel momento.

Torniamo ai tuoi allenamenti. Come si svolge la parabola del tuo lavoro? Parti piano per poi finire in crescendo? Che tempi di recupero dai?

Scarsissimi tempi di recupero. I giocatori sanno ormai più o meno quello che devono fare. Il ritmo è elevatissimo almeno per 90 minuti di seguito. Io non ho usato mai e non userò mai un preparatore atletico, perché faccio tutto io, con i miei aiutanti: sia il lavoro ateltico, sia quello tecnico; e per tenere tutti in forma durante il campionato occorre che il lavoro atletico sia condensato con quello tecnico e che quindi il ritmo dell'allenamento sia incessante.

Prova a dirmi quali sono i maggiori difetti dei giocatori italiani nei fondamentali d'attacco...

Non solo dei giocatori italiani. Io non faccio differenza: sono problemi del basket mondiale, questi. Per primo il gioco ed il giro con il piede perno. Quante volte i giocatori fanno passi per non sapere muoversi bene sul piede perno? Poi la paura di subire falli che condiziona i tiratori: in America questo problema è minore, grazie al regolamento, tanto che noi coaches cerchiamo spesso l'azione da "tre punti", cioè tiro realizzato e fallo, quindi un tiro libero. In Europa il problema è certamente assai più grave. Infine il gioco senza palla. Questo è un problema che fa sempre impazzire i tecnici di tutto il mondo...

E i difetti nei fondamentali difensivi?

Per quel che riguarda la mia squadra (e, comunque, molte squadre abbastanza giovani), il maggior difetto riguarda la difesa sull'entrata, cioè sull'uno contro uno. Troppi giocatori si cullano sull'aiuto e difendono poco individualmente.

E allora parliamo adesso dell'ideale di difesa di Dan Peterson...

Una difesa che non cerca di intercettare la palla per non restare in sottonumero (4 contro 5). Una difesa di cinque uomini sempre in movimento, una difesa che aiuta e recupera, ma una difesa che anticipi anche le ali, che non dia respiro al palleggiatore, che soffochi il pivot...

Ma qual è la maggiore difficoltà d'attuazione della famosa "help and recover"?

Il problema più grosso non sta nell'aiuto. In percentuale d'importanza tra l'aiuto e il recupero, l'aiuto varrà il venticinque-trenta per cento, il recupero almeno il settanta. Così come è inutile saper anticipare le ali, se poi la difesa non sa aprirsi al momento giusto e si becca il canestro dietro le spalle con la tipica azione di back-door. Il problema della difesa "aiuta e recupera" è anche la tendenza al flottaggio esasperato che consente tiri facili da fuori. Ma comunque mettiamoci in testa che i problemi difensivi non sono solo italiani o solo dei giovani allenatori e giovani giocatori. Anche nell'olimpo del basket, anche tra i professionisti, ci sono giocatori e squadre che non sanno difendere o che non hanno la giusta mentalità difensiva. È il problema classico dei troppo bravi, che pensano di aver inventato loro il basket...

Parlami del marcamento del pivot. Tu lo fai marcare davanti?

No, affatto. E per ragioni ben precise. Davanti è troppo pericoloso perché: 1) il passaggio lob (a parabola) può essere pericoloso; 2) se un giocatore tira da fuori, il pivot è sicuramente in posizione di vantaggio per prendere il rimbalzo offensivo, se è marcato davanti. Il pivot va marcato d'anticipo laterale e va forzato secondo le posizioni o verso gli angoli, o verso il centro. Come tutti gli altri giocatori.

E nella tu afilosofia difensiva, quando porti i giocatori verso le linee laterali e quando verso il centro?

Verso le linee laterali nella loro metà campo e anche nella mia quasi fino agli angoli, poi li forzo verso il centro dove dovrebbe funzionare l'aiuto. Ma non sempre è così, ahimé, così come non sempre riusciamo a chiudere la famosa e oppressiva linea di fondo. Quante volte avremo gridato "chiudi la linea di fondo"? Che ci vuoi fare, è il nostro destino...

E nella tua filosofia difensiva, come funziona la meccanica degli aiuti? Per esempio su un gioco a due difesa-post, chi aiuterà come terzo difensore? Il marcatore dell'uomo d'angolo o dell'altro pivot?

No, nella mia difesa il difensore dell'altro pivot non si muove perché io non voglio rischiare di lasciare libero un uomo così pericoloso come un pivot sotto canestro. Inoltre se l'uomo dell'altro pivot aiuta e c'è un rimbalzo offensivo il pivot avversario lo conquisterà facilmente. C'è una meccanica di scambi per cui chi aiuta effettivamente è il difensore dell'uomo più lontano dalla palla. È un movimento che io chiamo taglio difensivo e dà spesso ottimi frutti.

E dopo aver tanto parlato di difesa, proviamo a parlare di attacco...

Okay. Primo: non perdere mai la palla. Secondo: giudicare l'opportunità del contropiede. Meglio un contropiede in meno che una palla persa in più, insomma. Io poi ho una regoletta per perdere meno palloni in contropiede. Superata la metà campo l'uomo di centro non deve più passare la palla, ma deve palleggiare fino alla lunetta per vedere quali opportunità vi sono per una soluzione in soprannumero. Terzo: abolizione del passaggio battuto a terra, che è il passaggio che più amano le difese moderne ed aggressive. Quarto: niente schemi complicati, anzi, niente schemi. Il campo viene praticamente diviso continuamente in due parti. Da una parte si gioca a tre e dall'altro si gioca a due. Semplicità dunque. Più che di schemi con i numeretti si tratta di pochi movimenti con infinte soluziioni. Ogni soluzione tuttavia presuppone un movimento di squadra. perché i compagni debbono sempre sapere prima quello che farà l'uomo con la palla per poter andare al rimbalzo al momento opportuno. Quindi anche se c'è una certa libertà nell'iniziativa, l'iniziativa a sua volta è controllata. Si tratta in pratica di varie opzioni che i giocatori scelgono di volta in volta. Questo tipo di gioco non avvantaggia nessuno in particolare, nel senso che noi non facciamo nulla di particolare per Fultz o per Serafini. Tutta la squadra ha le medesime opportunità per segnare: ed infatti anche se Fultz si eleva per classe naturale, difficilmente nella mia squadra c'è un solo giocatore che fa quaranta punti e gli altri che giocano per lui.

E nell'attacco alla zona?

I principi sono più o meno gli stessi. Occore solo una maggiore pazienza, una maggiore disciplina e tanto movimento di palla e di uomini. In più bisogna considerare che contro la zona si possono conquistare dei buoni rimbalzi offensivi occupando alcune posizioni chiave. Infatti uno dei vantaggi dell'attacco alla zona è che spesso vi sono dei rimbalzi lunghi, che quindi gli attaccanti possono conquistare con una certa facilità.

Ma perché Peterson non fa la zona?

Perché io penso che un allenatore debba specializzarsi in una difesa, pur senza ignorare le altre. Io mi sento uno specialista della difesa ad uomo e mi sento di insegnare alla mia squadra soprattutto questa difesa. La zona è una difesa validissima se si hanno dei giocatori molto alti e molto lenti. Io ho allenato 5 anni l'università di Delaware ed ho sempre difeso pressing. Poi un anno ho avuto una squadra adatta a difendere a zona ed ho fatto la zona riuscendo a ottenere ugualmente ottimi risultati.

Si sente spesso parlare di programmazione a lunga scadenza: tre, quattro, cinque anni. Tu cos'hai programmato per la Sinudyne?

Io per l'anno prossimo niente, se non eventuali acquisti di giocatori. Io lavoro anno per anno ed in un anno debbo svolgere il mio programma, giorno per giorno, mese per mese. Per me ogni anno è come se finisse il mondo. Non m'importa cosa succederà fra due o tre anni. I progetti della mia squadra li voglio vedere nell'arco di un anno.

E per la Sinudyne di quest'anno il prossimo obiettivo qual è?

Di obiettivi ce ne sono ancora tanti. A partire dalla concentrazione intensa di tutte le partite. Noi ci siamo posti inoltre l'obiettivo di non perdere con le squadre più scarse di noi, di non perdere con le squadre uguali a noi e di cercare di vincere tutti gli incontri punto a punto. Inoltre dal punto di vista tecnico, l'obiettivo è arrivare al tipo di gioco e difesa "run and jump", corri e salta. Cioè una difesa pressing tutto campo che deve cercare la palla solo in determinate occasioni, ma deve costringere le squadre avversarie a correre continuamente ed a giocare in condizioni difficili.

Ma questo pressing è solo una difesa tattica, oppure può essere una difesa base, una difesa da giocare tutto l'incontro?

Può essere senza dubbio una difesa base. Una difesa che io vorrò vedere per quaranta minuti di seguito. Una difesa che deve raddoppiare a ragion veduta, che non deve far fare all'attacco quello che vuole. Una difesa che non si preoccuperà tanto di rubare la palla, quanto di rubare posizioni agli attaccanti. Un metro guadagnato nella ricezione della palla sarà un metro importantissimo. Una difesa che imporrà veramente il suo gioco, una difesa insomma pari a quella dell'Ignis (veramente magnifica) o quella dell'Innocenti.

Perché ti sei portato un aiutante (Jim McMillen, 25 anni) e ne hai preteso un altro (Ettore Zuccheri, 32 anni) qui?

Io ho molto bisogno di due assistenti. Io divido in allenamento il campo in due parti. I miei aiutanti lavorano sulla base degli esercizi che abbiamo preparato e io controllo il lavoro dei giocatori più tranquillamente.

Credi nella validità del rilevamento statistico delle squadre avversarie? In quale considerazione tiene le relazioni sulle altre squadre? Si dice che la Sinudyne non si preoccupa mai del gioco delle altre squadre.

È vero e non è vero. Io sulle squadre che incontro voglio sapere: 1) che cosa fanno in attacco; 2) che difesa giocano; 3) quali sono le marcature più opportune. Una volta a conoscenza di queste tre cose, durante la settimana posso ripassare con maggiore intensità alcuni esercizi che riproducono situazioni di gioco simili, ma io non preparo mai l'incontro facendo vedere alla mia squadra gli schemi della squadra avversaria o dicendo ad un tal giocatore che quel giorno deve marcare in un modo piuttosto che in un altro. Se un mio giocatore sa difendere sul pivot, che bisogno ho di spiegargli quali movimenti fa quel pivot? Lui sa sempre cosa fare in ogni situazione perché ogni situazione è stata provata mille volte in allenamento. E poi è una quetione di semplicità, come al solito. Non bisogna, secondo me, confondere i giocatori dicendogli, quesyo lo marchi in un modo, quell'altro lo marchi in un altro e quell'altro ancora come tre volte fa. La mia filosofia mi impone di dirgli soltanto chi deve marcare e di dargli solo qualche consiglio, senza angosciarlo con cento notizie che poi il giocatore regolarmente dimentica.

E sulla parte psicologica nel rapporto con il giocatore, cosa mi dici?

Ti dico che il migliore esempio che può dare l'allenatore ai suoi giocatori consiste nella stabilità e nell'equilibrio. Secondo me l'allenatore deve avere la stessa faccia, quando perde e quando vince, o quasi. Non esaltarsi troppo per le vittorie e non demoralizzarsi troppo per le sconfitte. Le squadre sono sempre lo specchio della personalità, della filosofia, dei sentimenti dell'allenatore. Solo in questo modo si può riuscire a fare rendere un giocatore od una squadra al cento per cento.

Ultima domanda. Qualche rammarico nel tuo lavoro di quest'anno?

Sì, quando sono venuto a Bologna per firmare il contratto avevo visto una certa squadra e per questo avevo scelto di venire in Italia, poi qualcosa è cambiato... Non è che io ne faccia un dramma, perché questa squadra mi piace, i ragazzi mi seguono con piacere, il pubblico è magnifico, la società è buona, però, c'è sempre un però...

Però con Ferracini lottavi per lo scudetto...

L'hai detto. E lo confermo: con Vittorio in squadra avremmo fatto sicuramente un campionato d'eccellenza. Ma tant'è. Sono solo al primo anno!

"SENZA LA COPPA ITALIA NON SAREI DIVENTATO DAN PETERSON"

Dan Peterson (tre Coppe Italia come Alberto Bucci) ricostruisce la finale del 1974. da sconosciuto a mito. "L'avvocato Porelli mi riconobbe un premio extra di duemila dollari"

di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 01/02/2007

 

"Senza la Coppa Italia non sarei diventato Dan Peterson", parola di coach. È il 12 maggio 1974, si gioca a Vicenza, dall'altra parte del campo la Snaidero Udine allenata dal bolognese Beppe Lamberti. Finisce 90-74, la prima vittoria della Virtus a 18 anni di distanza dall'ultimo scudetto.

Peterson è unico: non racconta solo la finale ma pennella, con il suo linguaggio immediato, tutta una stagione: "Avevamo perso di 3 al Pianella - ricorda - al ritorno battemmo Cantù di 8 al termine di una gara dall'intensità incredibile. Dopo Cantù ci trovammo in un girone con Roma, all'epoca in B, ma già allenata da Valerio Bianchini, e poi con Pesaro, guidata da McGregor".

Poi, finalmente, Vicenza e una semifinale difficile con la Saclà Asti e qualche incomprensione col tecnico avversario. "Gara durissima, noi eravamo nervosissimi. A pochi secondi dalla fine, sopra di 6, chiamai timeout. Lajos Toth, sull'altra panchina, si infuriò. Gli feci cenno che gli avrei spiegato tutto. Noi eravamo arrabbiati con gli arbitri: temevo che potesse scappare qualche parola di troppo. Dissi ai miei uomini che un arbitro l'avremmo ritrovato in finale. Era meglio non scherzare".

Poi la tensione prima della finale e l'incontro con Arnaldo Taurisano. "Vide che ero preoccupato: mi disse di stare tranquillo perché eravamo forti. All'intervallo eravamo ancora pari, poi prendemmo il largo con un Loris Benelli magistrale, un grandissimo John Fultz, che prese tanti rimbalzi e la regia di Albonico.

Ci fossero stati i playoff, forse avremmo vinto lo scudetto, come sarebbe successo due anni più tardi. L'avvocato Porelli, il nostro presidente, mi riconobbe un premio extra di 2.000 dollari. Mentre Peppino Cellini scese dalla tribuna stampa e cominciò a fare l'aeroplano urlando "Ora cominciamo a volare". Vincere quella Coppa Italia significò qualificarsi per la Coppa delle Coppe. Ma fu molto importante per me, davvero. Non avevo grande esperienza, era il primo trofeo. Senza quel trofeo non sarei mai diventato Dan Peterson".

NON VOLEVO FAR DANNO A NESSUNO

di Luigi Maffei - Giganti del Basket - Ottobre 1974

 

Allora, Dan, com'è 'sta storia della lettera ai "pro"?

Dan Peterson non ha bisogno sull'argomento di particolari sollecitazioni a prendere in mano l'ipotetico bastone del comando delle operazioni.

"Sono stato uno stupido" ammette con candore, ma con la fatica di chi malvolentieri si accorge di aver commesso un passo falso. "Ho dimenticato per qualche attimo fatale di vivere e avaorare in un paese diverso, dove di ogni parola si fa un dramma e dove l'humour è bene accetto solo al cinema o in teatro. Okay, ho sbagliato. Però sinceramente non comprendo come mai si sia potuto ingigantire una faccenda che ha una portata sicuramente inferiore a quella che ha riempito le colonne dei giornali. Dunque, vediamo assieme cosa in fondo ho scritto in quella fottutissima lettera...

Già, vediamo...

Ai club professionisti io ho inviato in pratica una relazione sul nostro campionato, sugli americani che vi giocano, sulle caratteristiche degli stessi e sul loro attuale rendimento valutato sul metro del gioco "pro" USA. Il carattere della missiva è puramente informativo. Per definire talvolta la bontà di qualche giocatore ho aggiunto che "è un giocatore che non è comodo trovarsi di fronte". Alcune traduzioni approssimative e magari un po' in malafede hanno ribaltato in senso negativo le esatte proporzioni del mio scritto. In verità il senso letterale delle frasi è che a me, alla Sinudyne, ai miei giocatori non frega niente, come dite qui in Italia, chi è il giocatore americano dell'altra squadra. Perché noi stimiamo tutti gli avversari e siamo preparati allo stesso modo per fermare Alcindoor o Tiziocaiosempronio.

Ma veramente, nella lettera, tu hai scritto esattamente: "My motives in providing this service are strictly selfish as there are a few of these men I'd just as soon not have to play against next year and I'm hoping some pro team might explore their chances of playing pro ball". Il che nella traduzione, niente affatto approssimativa, pubblicata dai "Giganti", suona: "Rendo questo servizio per motivi strettamente egoistici, perché, se possibile, non vorrei dover giocare il prossimo anno contro alcuni di questi e spero che qualche squadra "pro" possa indagare sulla loro possibilità di giocare il basket dei professionist". Come la mettiamo?

Ma pensa un po' alla meccanica del fatto che tutti censurano. Houston riceve una lettera dall'Italia, da una società forse mai sentita prima, da un coach, Peterson, noto forse solo dopo aver spulciato nei ricordi, e in questa lettera il misterioso ma gentile informatore assicura che in Europa c'è un giocatore, Steve Hawes, che può immediatamente giocare nei "pro" e che è un peccato che stia a marcire nel Vecchio Continente... Alllora, secondo te, Houston pensa: Ok, prendiamo Hawes, a scatola chiusa, fidiamoci di quel Peterson, è impensabile che un americano tiri un bidone ad un altro americano. E Hawes lascia l'italia. Ecco, se le cose stessero esattamnte così, pur in buona fede, meriterebbe di essere lapidato dai benpensanti italiani. Ma tu realmente pensi che un club professionistico americano agisca con tale faciloneria e imprudenza? Diciamo invece che Steve era già seguitissimo e la mia lettera potrà magari aver fatto piacere ai dirigenti di Houston, poiché hanno vista confermata la loro scelta dal giudizio di un allenatore americano che ha avuto modo di conoscere a fondo e valutare il giocatore. Putroppo il malumore e la rabbia per aver perso un gran protagonista e un perfetto ragazzo hanno avvelenato le reazioni contro il mio comportamento. Comunque, e qui concludo realmente, di tutta questa storia sono infinitamente dispiaciuto per vari motivi, innanzitutto perché si sono incrinati dei rapporti con alcuni miei colleghi italiani che stimo moltissimo, come Tonino Zorzi, ad esempio, il cui malumore comprendo perfettamente, ma a cui tengo a dire di non sentirmi affatto in colpa. Pensare che il motivo principale che mi ha spinto a scrivere quella dannata lettera è stato di incrementare le relazioni pubbliche fra la Sinudyne e i clubs americani! Avessi immaginato questo caos, avrei ben volentieri cercato altre vie per ottenere gli scopi prefissi... Pazienza.

 

BIG NANO

di Gianfranco Civolani

 

Improvvisamente Gigi Porelli annuncia urbi et orbi che il signor coach sarà targato Usa, punto e basta. Coro unanime: ottimo e abbondante, ma come si chiama e chi è? Si chiama Peterson, sì, pare proprio Peterson, viene dal Cile e lui in persona vi spiegherà se stesso. In effetti era accaduto che il Dux non ne voleva più sapere dell'italianissimo Nico Messina e si era rivolto là, molto aldilà. Gli avevano subito proposto Rollie Massimino, un paisà molto accattivante e intrigante. Ma poi quel Massimino aveva tirato indietro il sederino e allora ecco Daniele Lowell Pedersen che in Illinois avevano trasformato in Daniele Peterson detto Dan.

Ma il Cile, cosa poteva mai entrarci la Cordigliera delle Ande con il sapore e il sapere yankee? Bene, arriva Daniele e io subito ci faccio una battutina un po' scontata, Daniele nella fossa dei leoni. Andiamo avanti e vediamo chi è il Carneade. Terrificante, un omarino microscopico che si presenta acchittato come Timberjack. Terrificanti i capelli lunghissimi a paggio, terrificanti le bragacce a quadracci, terrificati le camicie e le scarpe e i concetti, ma sì, quella rivoluzione annunciata sulla pelle dei lasagnoni che magari avrebbero presto fatto la forca al Little Dan. Ecco, l'omarino racconta e si racconta. E lasciatelo un po' lavorare, voi brutta gente, tuona il Dux. E Little Dan racconta di essere nato a Evanston, periferia di Chicago, e di avere accettato un bel dì di essere spedito in missione per spezzare il pane della sua piccola scienza a Santiago del Cile. Poi da quelle bande ne erano successe di tutti i colori, molto meglio tagliar l'angolo in tempo, sai mai. E l'omarino parla correttamente in buon castigliano e dice che presto e bene imparerà tutto dei nostri usi e costumi e ci invita a verificare come lui lavora, due volte al giorno e lavoro duro, quando mai si è visto un professionista che lavora tenero? Il resto è storia, ma vorrei anch'io raccontare un po'.

L'omarino viene portato per mano da Porelli il quale gli insegna a vivere, e siccome l'omarino è di intelligenza sveglia e ha una straordinaria capacità di assimilazione, subito il risultato è stupefacente. Diventiamo tutti quanti amiconì e in sostanza lui allena la squadra e la stampa e i tifosi e quella larga fetta di Bologna che spasima per la Virtus. Ma da tempo immemore la Virtus non batte più un chiodo e insomma si gradirebbe un altro tricolore, una volta o l'altra. Il resto è storia, dicevo. Nell'anno di grazia settantatré Little Dan approda su queste zolle, ci mette un attimo per prendere le misure e poi regala al popolo l'agognato scudetto, per la cronaca e per la storia il settimo. Poi arriva il momento del commiato, Little Dan rimpiazzato da un suo giocatore e cioè dal cerebrale Terry Driscoll. E io che modestamente cerco di piazzare Little Dan al Gira Fernet vengo zittito da una telefonata che suona pressapoco così: per favore, fatti gli affari tuoi. Io al Gira non ci vado e scommettiamo che trovo di meglio? Non scommettiamo, ma veramente trova di meglio a Milano-Olimpia e là vince e rivince e stravince e diventa cittadino del mondo perché Porelli gli aveva sempre detto che Bologna è stupenda, ma Milano è l'ombelico, oh yes.

Little Dan ieri e oggi. Comincio dall'oggi. Ha quasi sessant'anni, ha smesso da un pezzo di allenare, fa con eccellentissimi esiti il telecronista e lo scrittore, veste come un damerino, altro che il Timber Jack che conoscemmo al primo impatto. Mi dicono sia ricco e che soprattutto raramente spenda anche solo un diecimila. È molto cambiato, non è più lui per noi che continuiamo a vivere in questa nostra magica palude. Ci tiene un po' a distanza, chiaramente ha voluto tirare una riga sulle scampagnate che facevamo in collina, lui, me, Giorgino, Peppino e qualche volta anche l'orso bosniaco Nikolic, con Dan che intonava struggenti nenie country e con l'orso che gorgheggiava immondi coracci bosniaci. Dan ieri. Disponibilissimo a valori di scambio squisitamente culturali, disponibilissimo ad attraversare tutte le più variegate realtà, fossero uomini o femmine, gli uomini per conoscere meglio la città che lo ospitava e le femmine per conoscere meglio, beh, ci siamo capiti. Io non mi sono mai mosso di qui, lui ha volato, ha trasvolato e non si è ancora posato. E rispettato e osannato e strapagato com'è giusto che sia.

Prima era un paraculissimo senza pudori, e oggi lo è con stile, mai facendo apparire o trasparire. Ti incontra e - incredibile per un omarino piccolo piccolo - riesce a guardare più in alto della tua testa, ti trapassa e non ti fila. Stavo per andare a Seattle, lo incrociavo e gli chiedevo che città fosse e lui: «Rain City, la città della pioggia» e via di corsa, sempre la stessa risposta così gentilmente stereotipata. E si racconta che dopo una notte un po' brava con una fanciulla più o meno in fiore - racconto una cosetta degli anni Settanta - la mattina Little Dan congeda la fanciulla che è senza macchina e deve andare a lavorare un po' distante da casa Peterson. My dear, prendi un taxi, fa lui. My dear, come facciamo a chiamarlo, dice lei. My dear, avrai duecento lire per un gettone, fa lui. My dear, le duecento ce le ho, ma la cabina dov'è? My dear, scendi giù che non è nemmeno tanto freddo. Stupendissimo Big Nano. Fu grande subito, ci fece marameo e ci fece capire che lui non era mica dell'Illinois o di Santiago o di Bologna o di Roccasecca, lui era di là, di sopra, molto di sopra. Ogni tanto lo vedo, una buona stretta di mano. Io sono rimasto al paese, lui naviga nella galassia. Una sera l'ho sentito in telecronaca. Prima della partita mi ha fatto l'onore di citarmi. Grazie Nano, qui in paese sappiamo che ogni tanto hai un soprassalto di bolognesità, thank you Nano, e don't forget tortellini.

Tratto da "Virtus - Cinquant'anni di basket"di Tullio Lauro

 

Un ometto basso di statura, vestito come si possono vestire gli americani che hanno vissuto in Sud America alcuni anni, cioè orribilmente. "Il piccolo Dan mi fa l'effetto di un ballerino di tip-tap o magari di un entertainer da night" racconta dalle colonne di Giganti del basket Gianfranco Civolani "Metri uno e sessanta, con tacchetto pretenzioso, capelli lunghi, ala paggio, occhi chiari, lineamenti da bambino stizzoso". Ma il piccolo Dan, che in seguito verrà soprannominato "Il piccolo grande uomo" mostra subito idee chiare, parlantina sciolta e svelta. E si fa capire subito, eccome, sia che parli inglese, in spagnolo, o in specie di italiano alla Wan Wood o meglio ancora quando cerca di evitare il conto al ristorante. "Prometto tre cose ai tifosi" annuncia subito "una difesa che lavora, una squadra che è una squadra, una squadra che ha sempre fiato, per quarantacinque minuti, cioè anche per l'eventuale supplementare... Ho firmato per un anno. A fine stagione la Virtus dovrà essere contenta di me, ma io pure dovrò essere contento della Virtus. Se saremo contenti tutti firmerò per altri due anni".

"Quando arriva a Bologna" racconterà Adalberto Bortolotti dalle colonne di Giganti del basket "lo scetticismo dilaga. Io, a quei tempi lavoravo a Stadio e i redattori che tornano dagli allenamenti mi confidano particolari agghiaccianti: non conosce la zona, confonde gli schemi, i giocatori sono frastornati. Quando ripenso a quei primi giudizi... In realtà Dan si è accorto che l'ambiente ha bisogno di una frustata, prima che di un lavoro tecnico in profondità. Ha trovato una squadra oramai preda di una rassegnazione congenita perché da troppo tempo abituata a non vincere niente. Così lavora prima sull'animo e al diavolo gli schemi, per quelli c'è tempo. Anche la sua filosofia di gioco (i tiri liberi si battono sempre) o il suo sistema di cambi, lasciano sulle prime interdetto il pubblica che si picca di essere il più competente d'Italia. Ma presto Bologna lo capisce e lo adotta. E lui di cala perfettamente nello spirito della città, anche se personalmente sono convinto che Dan, cittadino del mondo, problemi di ambientamento non ne avrebbe in alcun luogo".

Tratto da "Virtus - Cinquant'anni di basket" di Tullio Lauro

 

Nel settembre del 1974 una polemica sembra turbare la carriera di Dan Peterson nel nostro paese. Il coach della Virtus scrive una relazione ai club professionistici della NBA, con tutto l'elenco dei giocatori americani che si esibiscono in Italia e le loro possibili quotazioni nel campionato pro. Si solleva un putiferio, forse anche giustificato, ma molto spesso pompato e strumentalizzato. Ecco come si difese Peterson: "Sono stato uno stupido. Ho dimenticato per qualche attimo fatale di vivere e lavorare in un paese diverso, dove di ogni parola di fa un dramma e dove l'humour è bene accetto solo al cinema o in teatro. Okay, ho sbagliato. Però sinceramente non comprendo come mai si sia potuta ingigantire una faccenda che ha una portata sicuramente inferiore a quella che ha riempito le colonne dei giornali". E sicuramente, a posteriori con una mentalità un po' meno provinciale, si può certo affermare che si è trattato di un'iniziativa che presa solo qualche anno più tardi sarebbe passata sotto silenzio.

Dan durante un time-out

DAN IL TERRIBILE

di Gigi Speroni - Radiocorriere TV

 

Dan Peterson s’accuccia sul divano del piccolo soggiorno, su misura per lui, sovraccarico di quadri, libri, videoregistratori. È asciutto, tutto nervi, in tuta blue e scarpe da tennis: pare pronto a scattare in mezzo ai suoi ragazzi, come l’abbiamo visto fare tante volte durante un incontro. Ma lui, il maggiore allenatore che l’America abbia prestato all’Italia, s’è messo a riposo, per ora almeno, per dedicarsi unicamente alla televisione, voce inconfondibile nelle reti di Berlusconi.

Dan fa un gesto, come per dire “sono pronto”, ma in quel momento squilla il telefono. Tutta la nostra chiacchierata sarà interrotta dalle telefonate di tecnici, presidenti, colleghi che vogliono da lui suggerimenti o semplici parole di conforto. E lui non si tira indietro: “Vedi, vecchio, loro stanno ad aspettare gli errori degli altri … loro non vincono le partite, sono gli altri che le perdono … ma la buona squadra è questa …”

Sta parlando della “sua” Tracer che l’anno scorso, dopo averla portata al Grande Slam (scudetto, Coppa Italia, Coppa dei Campioni), ha abbandonato.

Perché?

M’ero consumato troppo, in nove anni mai una vacanza. Anche d’estate ero impegnato nella campagna acquisti. Non volevo entrare in un’altra stagione già stanco, dovevo fare almeno un anno di riposo totale.

Dan Peterson parla con quella sua tipica cadenza americo-italiana che ha contribuito a farne un personaggio tv. Vive in Italia da quindici anni: possibile che non sia ancora riuscito ad avere un accento più nostrano?

Dovrei dire “lui ha fatto le ore piccole” ma dico, invece, “lui ha fatto le piccole ore”. Gli amici mi correggono, ma aggiungono “non cambiare, per carità, altrimenti perdi immagine”.

Quindi un po’ ci gioca, perché fa spettacolo …

Strizza l’occhio… E sorride.

È rimasto cittadino americano …

… domiciliato in Italia e residente negli Stati Uniti dove ho lasciato la moglie e quattro figli. Quando venni in Italia, nel ’73, mia moglie era incinta e voleva far nascere la bambina negli Stati Uniti, mentre i due maschietti avevano già messo radici nel loro ambiente. Così quando, due anni dopo, le rimase incinta di nuovo, decidemmo che ormai era tropo difficile sradicare cinque persone dal loro mondo. Ci telefoniamo e scriviamo tutti i giorni e spesso vado a trovarli, anche se è un viaggio stressante. Ma sono uno che s’adatta facilmente: ogni volta sono felice di andare da loro e felice di tornare in Italia. È un paese unico al mondo perché somma bellezza, cultura, storia. Gli americani dicono che se uno di loro sotto i trent’anni vive a Roma per sei mesi non torna più a casa …

E lei, che è arrivato in Italia a 37 anni?

Oggi ne ho 52, sono ancora qui.

Dan Peterson allenava la Nazionale di pallacanestro cilena quando nel 1973 l’Avvocato Porelli lo chiamò alla guida della Virtus Bologna.

Mi piaceva soltanto l’idea di prendere un aereo e venire in Europa e, francamente, contavo di rimanere a Bologna soltanto un anno. La Virtus navigava male e io, invece dei premi partita, chiesi dei premi classifica. Con una clausola: che se la squadra avesse vinto entro tre anni lo scudetto avrei ricevuto diecimila dollari (di allora!). Il terzo anno vincemmo il campionato, mi vennero i diecimila dollari e all’Avvocato un collasso. M’ero affezionato al presidente, ai giocatori, alla città…

Ma nel 1978 passò alla Tracer…

Milano è come New York: bisogna rispettare la chiamata della grande città perché poi, magari, non arriva più. Poi avevo voglia di prendere in mano una squadra nuova… Forse non riesco a spiegare bene il perché di questo… Vede: sono uno che non cambia mai giocatori e dopo cinque anni a Bologna li avevo ancora tutti con me. Ogni tanto mi veniva la domanda: cosa posso dire ancora loro? Questi hanno già sentito tutto… E così parlavo sempre meno con la squadra…

In televisione, sul campo, a casa: il basket è veramente la sua vita…

L’ho amato sin da piccolo e ho cominciato a praticarlo a quindici anni. Ma non ero un bravo giocatore, e di statura troppo bassa. Così mi sono messo ad allenare i ragazzi della scuola della mia città, Evanston, un sobborgo di Chicago. Vincemmo tre campionati della gioventù cristiana poi, terminati gli studi, ognuno se ne andò per proprio conto. Anch'io pensavo d’aver chiuso, quando un allenatore cui devo tutto, Burmaster, mi convinse a continuare ricordandomi che “Piccolo generale”, un suo collega, era diventato famoso nonostante la statura. Quando lo dissi a mia madre fu un mese blu: stilista (di moda femminile), mi aveva trovato una borsa di studio all’Istituto d’Arte di Chicago, ma io sapevo di non avere talento.

E suo padre?

Era poliziotto, con un carattere opposto a quello della mamma: da lui ho ereditato la logica ed il buon senso.

Perché la pallacanestro ha un successo crescente?

Perché offre grandi emozioni e perché piace anche alle donne: si gioca al coperto, senza vento, pioggia, freddo e con gli uomini in mutande, così vicini e con quelle gambe lunghe…

Un prezioso documento inviatomi dall'Ing. Sermasi che dimostra come coach Dan abbia portato una ventata di aria nuova.

Tratto da "Quando ero alto due metri" di Dan Peterson

 

Il mondo è piccolo, come si dice. Molti mi chiedono come sono arrivato in Italia, a Bologna, alla Virtus. La mia risposta è quel proverbio, perché è così. Nel Marzo del 1973, stavo programmando una seconda tourneè negli USA per il Cile. Non avevo, in quel momento, la minima intenzione di lasciare il Cile. Però, sono andato negli USA per il Torneo NCAA, per “ingaggiare” partite per la tourneè. Infatti, sono arrivato a Evanston, dove i miei genitori vivono ancora, come base di operazione, visto che c'era il First Round a Dayton, i Regionals a Nashville e la Final Four a St. Louis, non tanto distante dal McKendree College. Quindi, sono arrivato anche per vedere la mia università, Northwestern, giocare l'ultima partita della stagione regolare, ad Evanston, contro Minnesota. Ero amico del coach di Northwestern, Brad Snyder e sono andato a vederlo in ufficio. Mi ha chiesto il mio attacco contro il pressing a tutto campo. Dopo avere affrontato Temple, mi consideravo “esperto” in materia. Brad l'ha usato e ha battuto Minnesota, un raggio di sole in una stagione disastrosa, 549 globale, con 242 nella Big 10. Il giorno dopo, sono passato nell'ufficio dell'ex-coach di Northwestern, Waldo Fisher, ormai vice-Direttore Sportivo. Mi ha chiesto che intenzioni avevo per la mia carriera. Dissi: "Sono contento in Cile". Lui: "Ti interessa fare il coach qui?" Scherziamo! Io: "Però c'è Brad Snyder". Fischer: "Dan, in confidenza, lui si è già dimesso da tempo. Parla con “Tippy” Dye". W.H.H. “Tippy” Dye era il Direttore Sportivo. Ho parlato con lui e ho fatto chiamare persone che mi conoscevano per raccomandarmi. Non pensavo di avere nessuna chance, perché c'erano 150 candidati.

Durante il viaggio del Torneo NCAA, sono andato in giro per vedere le partite. Un giorno, sono ad Evanston e Dye mi chiama: "Dan, è fra te e Tex Winter. Lui ha fino a mezzanotte per accettare". Come si sa, Tex Winter ha accettato, alle ore 23:15, e non sto scherzando. Non mi piaceva l'idea perché era ovvio che Tex voleva un altro posto e ha preso Northwestern perché sono cadute le altre offerte. Strano, NU era mia alma mater, la scuola che amavo, e che amo tuttora, ma non ci sono rimasto male. In parte perché ero davvero innamorato del Cile e della mia Seleccion Chilena. Vado a St. Louis per la Final Four. Incontro Chuck Daly, al momento coach dell'Università di Pennsylvania... Una delle scuole che avevo già ingaggiato per il giro del Novembre del 1973. Chuck mi chiede, a bruciapelo: "Dan, ti interessa allenare in Europa?" Nota che non ha detto né Italia né Bologna. Ha detto, all'inizio, "Europa". Ho risposto: "Sì. No. Non so. Può darsi". Chuck mi racconta "Il mio vice-allenatore, Rollie Massimino ha firmato un pre-contratto per Bologna (non ha specificato né Virtus né Fortitudo, solo Bologna). Lui è anche candidato come head coach a Villanova University. Se è preso da Villanova, non va a Bologna. Se non viene ingaggiato da Villanova, accetta la proposta di Bologna. Si saprà non subito, ma dopo un po' di tempo". Durante la conversazione, il mio povero cervello sta andando a cento all'ora. Sto pensando che il mio contratto con il Corpo di Pace scade il 31 Agosto; che c'è sempre la possibilità di una rivoluzione; che la vita è sempre più dura; che i giocatori fanno sempre più fatica a venire; che le condizioni di lavoro non sono ottimali e... Che non sono stato mai in Europa. Comincio ad essere interessato Dico: "Cosa devo fare?" Chuck dice "Vedi Jack Rohan (coach di Columbia University a New York City). Sa tutto lui dell'Italia". Ringrazio Chuck, con una stretta di mano. Faccio 10 passi e giro l'angolo del corridoio nell'albergo e faccio “sfondamento” contro... Jack Rohan. Rohan mi dice: "Manda un tuo curriculum all'Avvocato Richard Kaner di New York. Ecco l'indirizzo". Quando torno ad Evanston, prima di partire per il Cile, spedisco un mio curriculum a Richard Kaner. Parliamo una volta per telefono e mi conferma ciò che Chuck Daly ha detto: che la Virtus Bologna vuole un coach americano e che ha un'opzione su Rollie Massimino, che è anche candidato per il posto a Villanova, che il processo tira per le lunghe che forse si saprà qualcosa fra un mese. Non ci penso più.

Siamo ormai al 1° Aprile. Torno in Cile, facciamo il Festival Mundial in Maggio. Neanche un cenno, ma non ci penso minimamente. Ho la mia squadra, ho il mio lavoro, sono contento, nonostante le difficoltà. Poi, il 1° giugno, arriva un telegramma da Kaner: "Puoi andare a Bologna tra due giorni?". Rispondo: "No. Quattro giorni". Kaner risponde "OK". Così, sono partito un venerdì per fare nove giorni fuori dal Cile, con il rientro una domenica. Il pre-pagato arriva e, come programmato, prendo il volo della Varig che fa Santiago-Rio-Dakar-Parigi, per cambiare per arrivare a Linate. Essendo, come tanti uomini, un bambino dentro, quando siamo atterrati a Dakar, sono sceso per un minuto, ho messo i piedi sulla terra e ho detto: "Africa!". All'arrivo a Linate, mi vengono a prendere Dino Costa, Achille Canna e l'Americano, John Fultz… Cliente di Kaner. Achille Canna, guidando a velocità supersonica, ci fa arrivare a Bologna in un tempo degno della Formula Uno. Non abituato a viaggiare come un jet… Almeno sulla terra… Sono un po' scosso dal tragitto Linate-Bologna. Mi sistemano nel Garden Hotel. Sono a Bologna! Tutto succede in fretta. Conosco l'Avv. Gianluigi Porelli, un tipo che mi piace subito: deciso, businesslike, come dicono negli USA, uno che non perde tempo, che è organizzato, che ha idee chiare. Mi spiega la storia della Virtus. Mi schiaffa in mano un libro sulla Virtus e 5-6 numeri di Giganti del Basket, mi parla del contratto, 3 anni, rinnovabile ogni anno, se siamo d'accordo.

Tre cose mi convincono che questo è un altro mondo rispetto alla realtà attuale nel Cile: Bologna è una città di una bellezza straordinaria; vedo il Palazzo dello Sport, che è un vero gioiello; e vedo la squadra fare un allenamento. Vedere gente così alta e così talentuosa mi impressiona. Mi piace, in particolare, Vittorio Ferracini, un combattente, difensore, rimbalzista. Decido di firmare. È un salto nel buio per entrambi Porelli e Peterson. Lui ha promesso un coach americano ai tifosi della Virtus e io sono un americano, benché sconosciuto. Anzi, un titolo su un giornale è "Dan Chi?" Poi, anche per me è un'avventura, perché‚ conosco il basket e conosco il basket internazionale, ma non conosco il campionato italiano, non conosco gli avversari, la lega, gli allenatori, ecc. Ovviamente, qualcuno ha qualche dubbio su di me: i capelli lunghi, il parlato, i pantaloni a quadrettini, l'altezza, il physique du role. Il dirigente Giancarlo Ugolini, che poi diventerà mio grande amico, chiede a Porelli, "Gigi, non vuoi dirmi che questa mezza figura qui sarà il nostro allenatore?". Penso che l'accordo sia stato “siglato” in quel momento. Porelli: "Sì!"

Chiedo un paio di condizioni a Porelli. Il primo, di finire il lavoro in Cile… Cosa che lui concede, perché il campionato comincia tardi, il 4 Novembre, a causa degli Europei a Barcellona. Il secondo, avere John McMillen come vice anzitempo, perché‚ così possano cominciare a lavorare. Senza problemi, Porelli dice di sì. Firmo il contratto, ma dopo avere chiesto una clausola in più. La clausola: un premio di $10.000 se vinciamo lo scudetto nei tre anni del contratto. Porelli, più preoccupato della Serie B che dello scudetto, pensa "Ma questo è matto. Cosa me ne importa dire di sì, tanto non lo vincerà mai!". Porelli accetta anche questo. Sono soddisfatto anche per avere conosciuto Porelli, grande personaggio, il mio tipo di dirigente. Torno a Santiago strafelice.

 

Dan festeggiato per lo scudetto del '76

BIG NANO E L'AVVOCATO

di Gianfranco Civolani - tratto da "EuroVirtus"

 

No, quello non può essere un allenatore, quello è una gran cartolina. Il bulbo extralungo, i bragoni a losanghe, il tacchettino quasi a spillo, ma dove l'hai preso un soggetto del genere, avvocato carissimo?

Gianluigi Porelli - l'Avvocato - già da un bel po' aveva rifondato una Virtus basket in crisi di astinenza e di portafoglio. Gianluigi detto Gigi era stato un gran sacerdote dell'Ordine del Fittone quando - lui mantovano - era venuto a studiare a Bologna e subito aveva professato sconfinato amore per tutto ciò che era Virtus. E- toccato con la spada da Giorgione Neri detto il Capitano - aveva fatto tabula rasa nella sezione tennis e poi era anche tracimato nel basket e lì non era mica andato per il sottile. "Lei questa operazione l'avrebbe mai fatta?" mi disse un giorno il trucissimo Gigi, quando ancora ci davamo del lei. "Mai al mondo, un orrore - gli risposi. In effetti come si poteva mollare insieme due principotti come Dado Lombardi e Massimo Cosmelli? E prendere chi poi, per prendere quel grissinone di tale Gianni Bertolotti? "Gianni diventerà un super"  tuonò l'Avvocatissimo. "Ma se non prende in una casa" feci io sbagliando fino all'inverosimile.

Fatto si è che Porellone aveva rimesso in piedi quasi dal nulla una sezione e una squadra che balbettavano tremendamente. E all'alba degli anni settanta ecco il duce ci recapita quell'omarino buono forse per strimpellare con la sua chitarra, ma andiamo, quest'uomo senza pedigree e magari senza né arte né parte.

Era andata che a Gigia vevano promesso un paisà d'America - Rollie Massimino - ma poi all'ultimo momento il paisà si era fatto di nebbia e allora ecco Daniel Lowell Peterson, figlio dell'Illinois e già sperimentato in Cile con il suo assistente John McMillen.

Porellone si occupa subito del suo nuovo figlioccio. Lo porta dal parrucchiere e dal sarto, gli insegna a parlare e a gestire e voilà l'omarino profondamente cambiato, l'omarino-damerino, sorpresona per tutti.

Ma di basket, sì, quanto ne sapeva di basket l'om-dan? Ne sapeva tantissimo e soprattutto era così camaleontico nell'adattarsi alle situazioni. E faceva i risultati e vinceva una Coppitalia anche se Varese per esempio restava qualcosa di più e di meglio. E Big Nano la sera si concedeva a qualche amico e io, Giorgino Comaschi e Peppino Cellini andavamo in collina e lui Big Dan intonava struggenti nenie country e qualche volta - ma no - c'era anche l'orco-orso bosniaco, il prof. Aza Nikolic che faceva il controcanto con il suo vocione sgraziato e baritonale.

Sì, ma il basket? Nell'anno settantasei Big Nano e Porellone ci regalano il settimo sigillo dopo vent'anni di soffertissimo digiuno. Gli eori? il razzente play Charlie Caglieris (transfuga Fortitudo), il dirompente Bertolotti, Gigione Serafini scoperto fra quattro case di Casinaldo dal Zigant Calebotta. E Bonamico detto Goodfriend per il suo furore da marine e quindi il Bostoniano di ritorno (Driscoll, una mammola che era diventato una rupe) e Casanova Antonelli (il brutto che piace) e Piero Valenti e altri ancora.

Maledetti, datemi il pallone che devo portarlo al sindaco Zangheri, urla Porellone nel delirio. E Din-Don-Dan si dà un ulteriore mossa, nel senso che comincia a stare sul pero e addio alle ballate di Tom Dooley, addio per sempre qui su questi schermi.

Gli amori nascono e poi puntualmente si inceppano. Nel settantasei Big Nano e l'Avvocato si amano, ma tre anni dopo si separano. Big Nano va a stare da principe a Milano e in Virtus gli subentra proprio Driscoll.

 

Peterson e Nikolic prima di un derby

(foto tratta dall'Archivio SEF Virtus)

PETERSON RICORDA LA PRIMA FINALE EUROPEA

di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 13/04/2007

 

Prima finale europea della Virtus, una firma che non si dimentica: Dan Peterson. Se la pallacanestro italiana è divenuta basket, c'è il contributo dell'uomo di Chattanooga (Tennessee), maestro e principe delle telecronache. Da quella finale - Milano, 1978, Coppa delle Coppe tra Sinudyne e Forst - sono passati 29 anni.

...

Di quella Virtus cosa ricorda?

"Secondo me la squadra più bella che ho allenato. Non parlo di risultati, ma di gioco, di fluidità. Straordinaria".

È vero che Roche era sempre pronto a menar le mani?

"No. Era un po' incaz... era uno tranquillo, 99 volte su cento era un vero e proprio gentleman. Ma se lo picchiavano non si tirava indietro".

Torniamo a quella finale.

"L'ho persa io".

Perché?

"Sul pullman lasciai salire tutti. C'erano i dirigenti, il nostro amico Andalò. La squadra respirò quella tensione. E poi...".

Poi?

"L'avvocato Porelli chiese e ottenne, anche giustamente, che la partita cominciasse con qualche minuto di ritardo, perché i nostri tifosi non erano ancora arrivati. Crebbe il nervosismo. Poi la moglie di Roche era appena arrivata. Caglieris non stava benissimo. Tante piccole cose. E se io fossi stato più sveglio".

Finale decisa in volata.

"Avevo raccomandato massima attenzione. Attenti alle finte di Recalcati. Come non detto: finta di Charlie, Antonelli abbocca e gli frana addosso. Due liberi, finale a Cantù".

Va bene il mea culpa, ma lei alla Virtus ha regalato la prima Coppa Italia, la prima finale europea e il primo titolo dell'era moderna.

"Meno male che qualcuno ricorda ancora queste cose. Però ho avutogiocatori di prim'ordine: Serafini, Bertolotti, Caglieris, Villalta, McMillen, Driscoll, Bonamico, Roche, Antonelli. Ma se non ci fosse stato l'avvocato Porelli non avrei ottenuto nulla. Sono arrivato in Italia da dilettante, sono uscito dalla Virtus da professionista. Restando a stretto contatto di gomito con l'avvocato, un dirigente, un amico, più che un vice allenatore".

Parlava di questioni tecniche?

"Avrebbe potuto farlo. Ma da buon avvocato, però, faceva tante domande. Così non imponeva mai il suo parere. Però mi costringeva a pensare. E tante volte aveva ragione".

PETERSON A.M.

di Gianfranco Civolani – Superbasket – 27/01/1983

 

C’era una volta uno di noi, uno di noi mortali. Peterson A.M., voglio dire. E quell’a-emme non significa Anfitrione Magnifico, oppure Amico Mio, significa semplicemente Ante Mediolanum, Peterson prima di Milano, ecco, Peterson cioè quando cavalcava la terra come noi.

Me lo ricordo bene al primo impato. Americanissimo dalla testa ai piedi, due braghe a rigatoni da far inorridire, il capello lungo da vecchio suonatore di sitar, qualche camiciazza al di là de bene e del male e in ogni caso una grandissima disponibilità verso chiunque.

Lo chiamai subito Timber Jack, facemmo abbastanza amicizia e lui era furbo, lui cercava di sapere e di approfondire e tutto faceva brodo per integrarsi in un certo tipo di realtà. E fare il giornalista con un soggetto csì era davvero gratificante per chiunque, perché appunto al primo impatto si poteva immediatamente afferrare che il professionista era davvero di primissima qualità e lo stesso Porelli era in un certo modo soggiogato dal fascino sottile e indiscreto di quell’ometto che scandiva ogni discorso come un libro stampato e che ci metteva pure la battuta giusta al momento giusto, proprio così.

Pian piano si diede un’aggiustata alla carrozzeria, una bella tagliata ai capellucci e via i dragoni da bagonghi, via dalla pazza America del country per approdare nei templi dell’alta moda. E nel frattempo si usciva insieme a schitarrare dolci nenie del Tennessee e insomma si stava in brigata e meglio ancora se c’erano fanciulle più o meno in fiore, meglio ancora se la cultura del canestro si mescolava con la prosaica cultura della vita vissuta. E si riusciva persino a parlare di cose di casa-Sinudyne fuori dei canali ufficiali e ricordo una sera freddissima a Leningrado, dico meno ventidue, dico un taxi nella notte e molte chiacchiere su Albonico e su Gigione Serafini e su quel Bonamico che aveva appena diciassette anni ma non era mica male…

Passarono gli anni e mi accorsi che il personaggio lievitava e cominciava a librarsi in volo. Non si associava più con nessuno, dedicava tutto sé medesimo al culto della sua immagine, tendeva a staccarsi dai nostri cammini di povera gente qualunque. E mi lasciavano profondamente perplesso certi suoi modi di intendere il rapporto umano e nella sua distaccata freddezza lui mi diceva che i giornalisti erano tutti perfettamente uguali, quelli che gli erano amici e quelli che randellavano, tutti uguali nella sua profonda indifferenza. E io mi scaldavo perché per me nessun uomo è mai uguale all’altro e io credo nella meritocrazia e distinguo i meno cattivi dai perfidi e insomma toccavo con mano che l’uomo si vaporizzava e che cresceva e si dilatava a dismisura l’arancia meccanica, il robot, il computer. E nei suoi ultimi mesi a Bologna chi era più capace di stargli accanto se ogni qualvolta gli si poneva un quesito lui ti diceva tutto impettito e acchittato “Vai da avvocato, chiedi a Porelli se io posso rispondere”?

Un bel giorno accadde che io mi misi a scrivere che il signor Dan Peterson alla Sinudyne aveva fatto il suo tempo e che semmai poteva venir buono per il Gira Fernet Tonic, semmai. Lui mi chiamò al telefono e glacialmente mi disse: può darsi tu abbia ragione, può darsi che Sinudyne non faccia più per me, ma perché mi vuoi far finire al Gira? Lasciami fare i miei interessi, ti chiedo troppo se non mi trovi una collocazione?”.

Figuriamoci se volevo fargli spazio. Pensavo gli piacesse restare a Bologna, pensavo così e sbagliavo. Ovviamente lui dalla Sinudyne se ne andò perché si verifico esattamente quello che avevo previsto. Il collega Macchiavelli mi è testimone. Una sera in Francia captai un certo movimento e al collega dissi: “L’anno prossimo Dan se ne va e lo rimpiazza con Driscoll, mettiamoci d’accordo e scriviamolo”.

Basta così, Dan se ne andò a Milano e da quel giorno credo proprio che la schiatta dei comuni mortali l’abbia perso per sempre. E intendiamoci: io ho nei riguardi di Dan una sconfinata stima sul piano squisitamente professionale perché raramente ti capita un tizio che ti consenta sempre di mettere insieme un servizio giornalistico stimolante e poi non si discute, Dan è bravissimo quando scrive (ha il dono della sintesi, un dono che manca a tanti miei colleghi) e anche quando racconta i fasti dei professionisti d’America (in autentico e molto studiato, ma bravissimo anche qui) e naturalmente sul piano del valore di coach, dico che lui e Bianchini per motivi diversi sono sicuramente gli allenatori più completi in circolazione. Ma io sono ancora uno di quegli individui che cercherebbe l’uomo e i computers non mi vanno a genio e i robots meno ancora e all’arancia meccanica preferisco il limone che sta sugli alberi perché se non altro è un prodotto di questa nostra terra.

Non so se a Milano Little big Dan concede ogni tanto le sue confidenze a qualche fortunato. Ho letto una sua frase molto illuminante, diceva: “Preferisco leggere un libro piuttosto che chiacchierare con il mio prossimo perché da un libro imparo qualcosa e dal  mio prossimo mai”.

Frase illuminante, concetto che dice tutto. E mi dispiace tanto che quell’ometto dalle grandi braghe e dai capelli di fata morgana si sia dissolto nelle nebbie dell’empireo. Noi mortali siamo rimasti quaggiù e se Dan è putacaso quaggiù con noi, chiedo scusa ma non lo vedo.

UOMINI

di Oscar Eleni - tratto da "Il cammino verso la stella"

 

I capelli lunghi e una chitarra. Dan Peterson uomo di pace e del mistero si dondolava su tacchi troppo alti, masticando spagnolo-sudaca imparato in Cile. Radici nell'Illinois, un passato senza tanta gloria e in mano questo contratto dall'altra parte del mondo in una città dove il rosse è quasi tutto: arte, politica, sentimento, un sentiero d'amore fra portici, chiese e cooperative.

Gianluigi Porelli, alla quarta vita, dopo l'infanzia nel mantovano, gli studi bolognesi, una laurea in legge, un diploma in tante cose belle, selvagge, travolgenti, uomo da trincea, un grave incidente stradale che ha martoriato il suo cuore da leone, indebolito un fisico abituato a non negarsi quasi nulla; si mangiava con il cervello quel "cantante" che doveva ricostruirgli la squadra di pallacanestro, la sua Virtus appena uscita da sabbie mobili pestilenziali. ANche nella sua quarta vita Porelli , reincarnazione lombardo emiliana del terribile Torquemada, provava un piacere speciale ad esplorare la vita e i cervelli. Duro, spietato, curioso, disponibile ad accettare ogni vizio, a patto che fosse l'anima a governare.

Gli andava bene chiunque, lui stesso non era un santo, poteva resistere a tutto meno che alle tentazioni. Dan Peterson con i suoi brutti vestiti, le idee troppo chiare e schematiche, americano convinto di essere stato mandato da Dio nel mondo per civilizzare i padri della sua tera, era una tentazione fortissima: questo nano diventerà un gigante, ci scontreremo, si litigherà spesso, ma alla fine io cambierò lui e Dan Lowell Peterson cambierà noi. L'uomo si conquisterà gli spazi perché ha sete di cose nuove: America come madre, ma Europa come nutrice. Noi fioriremo con lui, è un viaggio che si può fare, che si deve fare.

Siamo nel 1973, la Virtus è soltanto un'idea, la vera Virtus nascerà poco a poco e i maestri muratori sono proprio quei due uomini così distanti e così disponibili a fondersi, costruttori per gli altri e per sé stessi: vite parallele per gente che di sicuro si era già incontrata prima, in un'altra vita, affinità elettive inventate dalle esigenze. Cinici non per vocazione ma soltanto per difesa avevano trovato una donna da servire assieme: la Virtus era lì da prendere, smontare,ripulire, vestire in maniera più fresca per mandarla al ballo di corte. Ci sono riusciti. Hanno lavorato con impegno, gli altri li studiavano, si distraevano, bocciavano e tolleravano ed intanto loro mettevano il corpo della ragazza in un castello ideato da architetti meno vanitosi di quelli che in quei giorni governavano basketlandia. In poco tempo gli indiani Virtus avevano circondato la carovana, vent'anni dopo l'ultimo urlo tricolore con Tracuzzi e Canna trovavano sul campo di Varese il fiore del bene, lo scudetto, proprio loro, poeti maledetti che sembravano destinati a coltivare soltanto fiori del male.

Dan Peterson non è stato subito il figlio della città e di Torquemada: però il suo modo di aggredire, invadere, distruggere luoghi comuni, evitando patronati, chiassate, cene in osteria, affascinava la gente. Arrivò e vinse una Coppa Italia, poi si mise a studiare il fenomeno Virtus cercando di non isolarlo dalla terra dove nasceva. Gianluigi Porelli gli ha fatto lezioni privatissime, una burrasca al giorno, ma quel dare e prendere, quel riverniciare dopo aver demolito, l'ansia di scoprirsi e scoprire, cambiò presto il rapporto. Peterson si affidò al Pigmalione italiano per cambiare pelle e il costruttore si rese conto che le fantasie dell'uomo che arrivava da Evanston erano gli squilli di tromba di un mondo nuovo, nuovissimo, meglio affidarsi all'esploratore per andare a cercare altri territori e se il basket, in Italia, è cambiato davvero lo deve anche a questi due personaggi o forse lo deve soprattutto a loro.

Dan Peterson era il terzo allenatore straniero della società, il suo arrivo, vent'anni dopo il breve regno di Jimmy Strong. Poi nel 1960, per tre stagioni, governò uno spagnolo, Kucharski e per altri tre anni, dal 1966 al 1969 ci furono i silenzi disarmanti del cecoslovacco Jaroslav Sip. Era facile per Peterson diventare orchidea in mezzo a quelle ortiche, però gli serviva un padrino e con Porelli trovò quello che altri non ebbero la fortuna di avere: una società vera dietro le spalle e davanti all'opinione pubblica.

Fu questa forza ad impedire stritolamenti: ci fu la burrasca dello spionaggio alle società professionistiche americane, robetta che, però, in quei tempi, faceva comodo ingigantire. Poi venne l'epoca delle contestazioni: il Dan Peterson che lasciava poche possibilità di sbagliare, che non ti raccontava frottole, ma pretendeva il 110 per cento, graffiava l'animo dei nostri dolcissimi giocatori. Quello fu un terremoto sul serio, ma dopo tre stagioni arrivò il colpo del maestro. Ricordo benissimo il campo di Varese. La Mobilgirgi di Sandro Gamba era appena tornata in Italia con la sua Coppa dei Campioni vinta a Ginevra. In sala scommesse non c'era quasi gioco. Varese favorita per tutti. Quello fu un capolavoro di psicologia, una versione moderna della Stangata: Porelli era il vecchio Paul Newman, Marco Bonamico fu il Robert Redford della situazione; Peterson il burattinaio e Bob Morse il "cattivo" castigato. Alla fine, mentre Masnago, nel silenzio, accettava il verdetto, vidi Porelli e Peterson scambiarsi soltanto un'occhiata; Gigione Serafini era l'addetto alle cerimonie, alle danze di vittoria, Bertolotti, che quel giorno aveva lasciato per una volta il fioretto, usando la sciabola, si era aggrappato sulle spalle di Terry Driscoll, la montagna, il cuore, l'uomo squadra. Quella scena, vista in tribuna stampa, fu una scarica elettrica. Quel giorno non assistemmo soltanto ad una grande vittoria sportiva, contro la Girgi di Sandro Gamba, bellissima anche lei, fu qualcosa di più, la fine di un inseguimento, il primo zampillo di un pozzo cestistico che ci darà calore fino all'anno duemila.

 

Clicca qui per un'interessante scritto su Peterson da parte di chi lo ha conosciuto molto da vicino come Ettore Zuccheri: Due cose su Dan

 

Peterson nella Hall of Fame italiana

PETERSON NELLA HALL OF FAME

tratto da ilcentro.it - 25/11/2012

 

Il consiglio federale della Fip ha ratificato le decisioni assunte dalla Commissione degli Onori, assegnando il premio «Italia Basket Hall of Fame» per l’anno 2012 ai seguenti personaggi. Categoria atleti: Renzo Bariviera e Franco Bertini. Categoria atlete: Wanda Sandon. Categoria allenatori: Dan Peterson. Categoria arbitri: Stefano Cazzaro. Categoria alla memoria: Gianfranco Benvenuti. Categoria una Vita per il Basket: Gilberto Benetton (già ratificato in precedenza).

ALFABETO PETERSON

di Marco Tarozzi - 09/01/2016

Buon compleanno, Dan. Ed è un compleanno davvero speciale, quello di Daniel Lowell Peterson, per amici e gente di basket semplicemente Dan, americano d’Italia che festeggia oggi le ottanta primavere, e domani andrà a trasformarle in vivacità e passione su una delle due panchine dell’All Star Club Beko, affiancando Max Menetti. Il giovane coach e l’altro, quello ancora giovane dentro, che ha esercitato il mestiere che più amava in modo speciale, divulgando il verbo e facendo proseliti come pochi altri hanno saputo fare.
La Virtus si unisce al coro dei festeggiamenti, perché gli anni bolognesi di Dan sono stati per tanti versi importanti, e lui lo ha sempre ricordato. Sono stati il suo approdo, la sua conoscenza dell’Italia, di una terra che è diventata la sua terra. Sono stati, anche, la rinascita di una Virtus che da vent’anni faticava a tornare tra le grandi, progettata da quella coppia d’assi, da quelle due P così fondamentali nella storia bianconera, Porelli e Peterson.
Oggi che tutti raccontano il piccolo grande uomo dell’Illinois, che tutto di lui è stato e sarà raccontato, noi proviamo a festeggiarlo mettendo in fila in un grande alfabeto il suo passaggio nel basket italiano. Ne escono storie, uomini che hanno condiviso con lui una parte della strada, e le firme di quelli che lo hanno raccontato in questi quarantatré anni.
Buon compleanno, coach.

A come AVVERSARI
Il più agguerrito se lo ritroverà di fronte domani a Trento, in una edizione dell’All Star Game Beko che riaccenderà il canale dei ricordi. Valerio Bianchini, il Vate, è stato, parola di Peterson, l’avversario più ostico. Per come gli opponeva le sue squadre in campo, ma anche per quello che costruiva intorno. “Valerio ha sempre avuto una grande capacità: se una partita era importante, lui la faceva diventare epocale. Con le parole, la faceva diventare un evento, la partita del secolo”.

B come BASKET
Scelta non molto originale, d’accordo. Ma di questo ha vissuto Dan, da sempre e per sempre. Di questo vive ancora, con uno spirito che anche i giovani dovrebbero invidiargli. Dal basket ha avuto tanto, al basket tanto ha dato, da tecnico ma anche da commentatore, insegnante, in una parola divulgatore.

C come CILE
Dopo quattro anni da capoallenatore alla Università del Delaware, la prima esperienza all’estero con la Nazionale cilena. Una pallacanestro tutta da costruire. Parole datate 1973, poco dopo l’approdo a Bologna: “Mi arrivò un’offerta per andare là con il Corpo dei Pacifisti. Poche lire e pagate dagli Stati Uniti. Dal Cile nemmeno un escudo… Ho ricominciato da zero. Qualche risultato? Ai giochi Sudamericani di quest’anno abbiamo ottenuto il miglior piazzamento degli ultimi vent’anni… Insomma mi sono trovato benissimo, ho raccolto buoni successi, potrei tornare in Cile in qualunque momento e mi accoglierebbero a braccia aperte. Anzi, l’estate prossima, situazione politica permettendo, ci tornerò due mesi, a fare un po’ di preparazione fisica a quella gente…”.
Già, la situazione politica. Peterson arriva a Bologna poco prima del golpe che metterà fine tragicamente alla guida di Salvador Allende. E questo fatto, all’epoca, fa sì che circolino voci su una sua… collaborazione diretta con la Cia. “Mi fa ancora ridere, quella storia. C’erano giornalisti che non si capacitavano che uno statunitense fosse andato in Cile soltanto per allenare…”. Nel 2008, finalmente, si è tolto lo sfizio: per un minuto lo ha fatto davvero, il truce agente della Cia, in un episodio della serie sull’ispettore Coliandro.

D come DRISCOLL
Nella sua Virtus, uno degli uomini che hanno lasciato il segno. Probabilmente il più significativo, se il coach lo ha inserito nel suo quintetto ideale insieme a quattro “milanesi”, Mike D’Antoni, Roberto Premier, Bob McAdoo e Dino Meneghin, e a un sesto uomo, Gallinari, che ha giocato in entrambe le “squadre della vita” di Peterson, prima all’Olimpia e poi alla Virtus. Con Driscoll scattò un feeling speciale, se è vero che Edward Cuthbert, detto Terry, fu il faro della Virtus di Dan per tre stagioni, e con lui vinse lo scudetto, aggiungendone poi due a sua volta da tecnico, proprio sedendosi sulla panchina bianconera quando Peterson prese la strada di Milano.

E come EVANSTON
Il posto delle fragole. La città natale, a cui Dan è sempre rimasto legato. “Sono nato a Evanston, Illinois, il 9 gennaio 1936”, raccontava in una delle prime interviste appena arrivato a Bologna, a Gianfranco Civolani. “Evanston confina con Chicago. Ma occhio alla differenza: Chicago è la citta più brutta del mondo, Evanston la più bella”.

F come FULTZ
A Linate, il nuovo coach della Virtus arriva dopo un viaggio estenuante dal Cile. “Prendo il volo della Varig che fa Santiago-Rio-Dakar-Parigi, per cambiare e arrivare a Linate. Essendo, come tanti uomini, un bambino dentro, quando siamo atterrati a Dakar, sono sceso per un minuto, ho messo i piedi sulla terra e ho detto: “Africa!”. Ad attenderlo per la sua prima avventura italiana ci sono Dino Costa, Achille Canna e John Fultz, cliente dell’avvocato newyorkese Kaner, che ha fatto conoscere Peterson a Porelli. Partono da questa conoscenza comune, i due americani che faranno rinascere la V nera. “Kociss” il trascinatore, Dan che subito cambia metodi e regole. Eppure quel coach sconosciuto, pian piano, riesce a cambiare l’idolo delle folle, trasformandolo da primattore in vincente, da cannoniere a cui arrivano tutti i palloni roventi a uomo-squadra. La Coppa Italia del ’74, che riconsegna alla Virtus un posto in Europa, è un capolavoro di entrambi.
Proprio al termine di quella finale, Dan parlò chiaro a John “Gli dissi: John, certamente hai sentito voci che prenderemo Tom McMillen come straniero il prossimo anno. E’ vero, siamo in trattative. Ti dico solo questo: se viene lui, lo rpendo. Ma se lui dice no, voglio che tu rimanga. Hai fatto un progresso straordinario quest’anno, ora sei un campione… Poi, è venuto Tom McMillen. Ma non ho mai smesso di ringraziare John per ciò che ha fatto per la Virtus e per il sottoscritto”.

G come GIGI
Porelli, certo. Vedi alla voce. Ma anche l’altro Gigi, Serafini, il ragazzone di Casinalbo che con i compagni vide arrivare a palazzo questo piccolo uomo che davvero sembrava piombato sulla terra dopo un atterraggio di fortuna. E, parola di Gianfranco Civolani, sorrise soddisfatto quando gli dissero che era un convinto assertore del doppio allenamento. Poi, però, gli spiegarono che non si trattava di due volte a settimana, ma di due al giorno. E Gigi pensò che forse quel coach non sarbbe durato a lungo, a Bologna. Ma ci mise poco, a ricredersi. Certo, lo faceva faticare il doppio. “Però è bravo davvero”, assicurava confidenzialmente agli amici. E non solo a loro.

H come HALL OF FAME
In quella della Fip, la “Italia Basket Hall of Fame”, Daniel Lowell Peterson è entrato ufficialmente nel novembre del 2012. La Federazione ha messo nero su bianco tutta l’importanza che questo piccolo grande uomo d’America ha avuto per la pallacanestro del nostro Paese.

I come ITALIA
Perché gira e rigira, da quasi quarantatré anni questa è diventata la casa di Dan. Arrivò che di anni ne aveva trentasette, e ci è rimasto per la vita. Lui ci sta divinamente, mantenendo delle origini quella parlata “allargata” e confidenziale, e certe passioni, come gli onions ring sulla tavola. “Insieme al mio Paese, questo è il migliore in cui vivere. L’Italia ha tre fondamentali qualità: storia, cultura e una natura fantastica. Oltre alla buona tavola, naturalmente”.

L come LAURA
Questa volta l’ha fatta un po’ arrabbiare, la sua Laura, accettando di andare a festeggiare i suoi primi ottant’anni sulla panchina del Cavit All Star Team, all’All Star Game di Trento. Ma ha già trovato il modo di farsi perdonare. Risposandola. «Lo faremo il 7 dicembre del 2017, perché dobbiamo mettere un po’ di cose a posto. La prima volta fu nel ’97, il 7 dicembre a Miami, a casa di Bob McAdoo». Trent’anni di amore, quasi venti di matrimonio e… il secondo in vista. Bel programma, mister Peterson.

M come MC MILLEN
Un altro di quelli che rendono piacevole il mestiere di allenatore. Peterson riuscì a portarlo alla Virtus nella stagione 1974-75. L’opera di convincimento la fece il suo assistente John McMillen, che di Tom era cugino. Il campione studiava a Oxford e andava e veniva ogni fine settimana, vero pendolare dei canestri. Si sono rivisti qualche mese fa, a una rimpatriata con quella Virtus, naturalmente da Cesari, il posto del cuore. “Mi ha detto” ha confessato il coach in una lunga intervista ad Alessandro Gallo, “ che se quell’anno non si fosse stancato per i continui viaggi tra Bologna e Oxford avrebbe fatto meglio di quei 31 punti e 17 rimbalzi a partita. Quando l’ha spiegato davanti a Serafini, Bonamico, Albonico e Tommasini, tutti suoi ex compagni, sono impazziti…”

N come NBA
L’America in salotto, la prima, quella che resta nella memoria di ognuno di noi, ce l’ha portata lui. Con quella capacità mediatica unica, che gli permise di passare dalla panchina, abbandonata a soli 51 anni (“Un grave errore”, ricorda oggi) agli studi televisivi, per iniziare un’opera di proselitismo che ha fatto bene al movimento. Le primissime telecronache di quel mondo ancora magico e lontano erano lunghe e affascinanti spiegazioni, prima ancora che pura cronaca. Con la chiusa finale, quando il campo aveva ormai decretato i vincitori di una sfida: “mamma, butta la pasta!”. Fine delle trasmissioni.

O come OLIMPIA
E poi arrivò Milano. Inutile essere gelosi, un legame anche più lungo di quello con Bologna, e certamente più ricco di successi anche internazionali. Se la Virtus è stata l’inizio della grande avventura, L’Olimpia è stata la consacrazione. “Milano è come New York: bisogna rispettare la chiamata della grande città”, spiegò il coach a Gigi Speroni, sul Radiocorriere Tv, un giorno di trentacinque anni fa, “ …perché poi, magari, non arriva più. Poi avevo voglia di prendere in mano una squadra nuova… Forse non riesco a spiegare bene il perché di questo… Vede: sono uno che non cambia mai giocatori e dopo cinque anni a Bologna li avevo ancora quasi tutti con me. Ogni tanto mi veniva la domanda: cosa posso dire ancora loro? Questi hanno già sentito tutto… Alla fine, parlavo sempre meno con la squadra…”

P come PORELLI
Storia di un rapporto che, visto nei primi giorni, non avrebbe dovuto nemmeno decollare. L’americano apparentemente così stravagante e curioso e l’Avvocato tutto d’un pezzo, poche parole e idee sempre precise. Che tra l’altro, all’inizio, aveva tra le mani Rollie Massimino, che invece andò a lavorare all’Università di Villanova. Dunque, un americano era arrivato. Ma sconosciuto. Fecero in fretta a capirsi. Dan dando una regolata a capelli e abbigliamento, ma srotolando la sua conoscenza di basket, Porelli spiegandogli la Virtus, Bologna, l’Italia e un po’ la vita da questa parte del mondo. Come ha ricordato, splendidamente, Oscar Eleni:
“Dan Peterson non è stato subito il figlio della città e di Torquemada: però il suo modo di aggredire, invadere, distruggere luoghi comuni, evitando patronati, chiassate, cene in osteria, affascinava la gente. Arrivò e vinse una Coppa Italia, poi si mise a studiare il fenomeno Virtus cercando di non isolarlo dalla terra dove nasceva. Gianluigi Porelli gli ha fatto lezioni privatissime, una burrasca al giorno, ma quel dare e prendere, quel riverniciare dopo aver demolito, l’ansia di scoprirsi e scoprire, cambiò presto il rapporto. Peterson si affidò al Pigmalione italiano per cambiare pelle e il costruttore si rese conto che le fantasie dell’uomo che arrivava da Evanston erano gli squilli di tromba di un mondo nuovo, nuovissimo, meglio affidarsi all’esploratore per andare a cercare altri territori e se il basket, in Italia, è cambiato davvero lo deve anche a questi due personaggi o forse lo deve soprattutto a loro”.

R come RITIRO
A cinquantun’anni, all’apice del successo come coach, Peterson disse basta. Diverso e unico anche in questo. Anche se oggi rivede quella decisione e forse è l’unica da catalogare alla voce “rimpianti”. “Sbagliai. Il fatto è che essere costretto a dimostrare, a vincere a tutti i costi mi aveva logorato. Stavo male, e avevo per fortuna altre attività a cui dedicarmi. Ma quando sono stato richiamato sulla panchina di Milano, nel 2011, ho provato una delle gioie più grandi della mia vita. Abbiamo fatto quello che potevamo, con quel gruppo, ma ho davvero voluto bene a quei ragazzi”.

S come SUCCESSI
A Bologna, in una Virtus che non vinceva più dagli anni Cinquanta, subito la Coppa Italia del 1974, e a seguire lo scudetto numero sette, nel 1976. Lasciando, due anni dopo, una società e una squadra ben consce di essere tornate tra le protagoniste del campionato. Il resto a Milano: altri quattro scudetti, due Coppe Italia, una Korac, una Coppa dei Campioni. Due volte eletto allenatore dell’anno in Italia, una volta in Europa. Parlano i numeri, ogni commento a margine è superfluo.

T come TESTIMONIAL
“Qui a Chattanooga, Tennessee, quando il sole ti spacca in quattro…”. Già, non c’era altro da fare che buttare giù the ghiacciato. E’ passato alla storia, il Peterson degli spot pubblicitari. Un altro modo di portare un messaggio “baskettaro” anche in casa di chi non sapeva neppure cosa fosse una palla a spicchi. Quel tipo che diceva che quel the, per lui, era il numero uno, ha sdoganato la sua passione anche così.

U come UOMINI
Trattare i giocatori da uomini. Responsabilizzarli. Caricarli emotivamente. E’ stato il credo di Dan Peterson, in anni in cui certe teorie e certi metodi di allenamento erano all’avanguardia, quasi una rivoluzione.
Lo scopriamo nelle parole di Ettore Zuccheri, che fu suo assistente per tre stagioni. “Dan è stato un grande conduttore di uomini, con lui si arrivava ad interpretare la figura del guerriero in campo. Ti faceva sentire importante e trovava mille modi per trasmetterlo. Un esempio? L’ultimo allenamento della settimana teneva una piccola riunione nello spogliatoio. Disegnava cartelli che io stesso appendevo sulle pareti e, quando i ragazzi finivano l’allenamento, teneva il discorso preparatorio per la gara, proprio nello spogliatoio. Non accennava mai ai cartelli affissi, sembravano lì per caso, ma i ragazzi li vedevano, eccome!!! Infuocava gli animi, non ci credete? Così piccolo, ma grande! Diventava alto più di due metri quando parlava, indicando la via del successo”.

V come VIRTUS
“Porelli non perde tempo, è organizzato, ha idee chiare. Mi spiega la storia della Virtus. Mi schiaffa in mano un libro sulla Virtus e 5-6 numeri di Giganti del Basket, mi parla del contratto, tre anni, rinnovabile ogni anno, se siamo d’accordo. Tre cose mi convincono che questo è un altro mondo rispetto alla realtà nel Cile: Bologna è una città di una bellezza straordinaria; vedo il Palazzo dello Sport, che è un vero gioiello; e vedo la squadra fare un allenamento. Vedere gente così alta e così talentuosa mi impressiona. Mi piace, in particolare, Vittorio Ferracini, un combattente, difensore, rimbalzista. Decido di firmare”.
E’ l’inizio della storia bianconera. Raccontato in prima persona in “Quando ero alto due metri”. Qualcosa che resta nel cuore, anche in quello di un uomo che Bologna l’ha lasciata ormai da trentotto anni. Lo ha ricordato anche ieri, Peterson, affidando parole dolci ad Alessandro Gallo sul Resto del Carlino: “Bologna mi ha trasformato. Ero un dilettante: sono diventato un professionista. Grazie all’avvocato Porelli. Ogni giorno con lui era come un anno all’Università”.

W come WRESTLING
Cose come la telecronaca del debutto di Undertaker, datata 1990, entrano nella leggenda. O certi commenti carichi di ironia, ma anche di passione per una disciplina che Dan ha seguito e amato davvero. “Ehi Sensational Sherri, sei settimane da Weight Watchers e poi potrai indossare quel vestito”. Semplicemente unico. E destinato a passare alla storia del genere. Come nel basket, anche qui l’eterno ragazzo di Evanston ha fatto epoca.

Z come ZAMPA DI ELEFANTE
D’accordo, all’epoca i pantaloni andavano così, ma era tutto l’insieme che colpiva. E poi quelli di Dan erano “a quadrettoni”. Almeno quando sbarcò in Italia e prese la strada di Bologna. Lo ricorda bene, in quei giorni, Gianfranco Civolani. “Andiamo avanti e vediamo chi è il Carneade. Terrificante, un omarino che si presenta acchittato come Timberjack. Terrificanti i capelli lunghissimi a paggio, terrificanti le bragacce a quadracci, terrificanti le camicie e le scarpe e i concetti, ma sì, quella rivoluzione annunciata sulla pelle dei lasagnoni che magari avrebbero presto fatto la forca al Little Dan… E lasciatelo un po’ lavorare, voi brutta gente, tuona il Dux. Daniele viene portato per mano da Porelli il quale gli insegna a vivere, e siccome l’omarino è di intelligenza sveglia e ha una straordinaria capacità di assimilazione, subito il risultato è stupefacente. Diventiamo tutti quanti amiconì e in sostanza lui allena la squadra e la stampa e i tifosi e quella larga fetta di Bologna che spasima per la Virtus. Ma da tempo immemore la Virtus non batte più un chiodo e insomma si gradirebbe un altro tricolore, una volta o l’altra. Il resto è storia, dicevo. Nell’anno di grazia settantatré Little Dan approda su queste zolle, ci mette un attimo per prendere le misure e poi regala al popolo l’agognato scudetto, per la cronaca e per la storia il settimo”.

DAN PETERSON: NELL’ALBO D’ORO METTIAMO ALMENO UN ASTERISCO PER LA VIRTUS

tratto da bolognabasket.it - 20/04/2020

 

Nella sua rubrica sulla Gazzetta dello Sport, Dan Peterson è tornato sulla questione scudetto-Virtus. Qualche passaggio.

“Tempo fa, quando è stato sospeso il campionato di basket della Serie A, ho suggerito, senza voler fare polemica con nessuno, di assegnare lo scudetto alla Virtus Bologna. C’era un motivo: sono stati campioni d’inverno, sono stati sempre in testa, hanno lavorato per sette mesi, hanno battuto tutte le altre squadre. Ovvio, parlavo come tifoso, non come dirigente perché sia Gianni Petrucci, presidente della Federazione Italiana Pallacanestro, sia Umberto Gandini, a.d. della Lega Basket di Serie A, hanno ragione dal punto di vista giuridico nel dire che non verrà assegnato lo scudetto.
Ora, Sasha Djordjevic, coach della Virtus Bologna, afferma che la sua squadra merita un riconoscimento per ciò che ha fatto. Giusto: non è che hanno giocato una partita sola in stagione! Ma ci troviamo davanti a una questione che sarebbe complicata perfino per la saggezza di Re Salomone.
Dunque Djordjevic e la sua bella squadra hanno vinto, hanno giocato benissimo, hanno dato spettacolo. Ma non avranno un riconoscimento perché non potevano battere pure questa assurda situazione. In America mettono un asterisco dopo certi record per segnalare “circostanze particolari”. Nell’albo d’oro allora mettiamo un asterisco per la Virtus Bologna. Un asterisco che vuol dire: “Oh, ragazzi, niente scudetto ma siete stati bravi”. Certo per noi romantici tutto questo è come uno schiaffo. Non me ne vogliano Petrucci e Gandini: ma un playoff a settembre proprio non lo possiamo fare?”


 

IL BLOG DEL COACH: PROF. LUCIANO BOCCANERA

di Dan Peterson - 30/11/2020

 

Prof. Luciano Boccanera era già una leggenda all’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna quando io sono arrivato alla Virtus nel 1973.  Per di più, lui era grande amico del nostro Avv. Gianluigi Porelli, big boss assoluto della Virtus.  Porelli aveva una stima illimitata di lui.  Cioè, ciò che diceva o faceva il Prof. Boccanera era legge incontrastabile.  Ero ignaro di tutto ciò quando mio grande giocatore, Gianni Bertolotti, un Nazionale, ha sofferto una forte distorsione di caviglia all’inizia dell’anno.  Porelli disse a me: “Coach, mi dispiace.  Bertolotti è fuori tre mesi; sei settimane di gesso; sei settimane di riabilitazione.”

Non accettavo questo.  Sapevo che una distorsione, pure grave, era trattabile.  Ero anche quasi ‘esperto’ nel come farlo.  Comunque, Porelli mi informò che portava Bertolotti dal Prof. Boccanera all’Istituto Rizzoli e mi spiega chi è Boccanera!  Chiesi di venire con loro per parlare con il Professore.  Porelli disse OK ma mi avvisò che Boccanera aveva l’ultima parola.  Come previsto, Prof. Boccanera disse che doveva ingessare la caviglia per sei settimane.  Dissi, con tutta la diplomazia nel mondo: “Prof, non per contrastare nessuno, ma ho una laurea in fisioterapia sportiva dell’Università di Michigan.  Posso far vedere un paio di cose?”

Porelli mi fulminò con gli occhi.  Certamente stavo anche rischiando il posto perché Porelli non gradiva queste cose.  Ma andai avanti.  Ho spiegato il metodo dei tempi di 30” di acqua calda, poi 90” di acqua fredda, per attivare la circolazione.   Poi, dissi, “Ecco la fasciatura che usano tutte le squadre sportive in America, la famosa ‘Louisiana Wrap.’”  Porelli stava per licenziarmi in tronco e cominciò a parlare: “Coach!”  Il Prof. Boccanera alzò la mano.   Porelli, paonazzo in faccia, doveva tacere.  Boccanera volle vedere la ‘Louisiana Wrap.’  Lo feci su Bertolotti.  Poi, dissi, “Gianni, ora cammino per il Prof.”  Biblico!  Bertolotti si alzò e camminò!

Prof. Boccanera, sapendo che Porelli stava per uccidermi, disse, “Gigi, trovo questo innovativo.  Vediamo come va.”  Porelli morse la lingua e le labbra ma accettò.  In quei giorni, facemmo tutto come feci alla Rizzoli.  La domenica, prima della gara, feci le fasciature con la ‘chiusura a figura 8’ per bloccare tutto.  E’ una cosa che si può fare per un paio di ore e non di più perché finisce a tagliare la circolazione del sangue.  Feci la ‘ancora’ in alto, poi le ‘staffe,’ verticali e orizzontali.  Poi, la ‘otto.’  Bertolotti giocò senza problemi e vincemmo.  Porelli, felice per tutto ma arrabbiato con me, non mi disse nulla.  Ma non mi ha licenziato!

Per questo post, Patrizia Tomba dell’Istituto Rizzoli si è messo in contatto con il Prof. Boccanera.  Lui, 92enne, le disse: “Ah, sì, Peterson.  Quelle delle fasciature!”   Ho poi parlato con lui al telefono.  L’ho ringraziato per avere operato Charley Caglieris per il polso, per aver curato la schiena di Terry Driscoll e per la sua disponibilità ai tempi, di avermi dato la possibilità di dire la mia, e per avermi salvato il posto di lavoro!   Tale era la sua credibilità che bastava alzare la mano per fermare Porelli.  Il che non era in grado di fare nessun’altra persona.  Per me, un Giganti con le G maiuscola!   Foto della ‘Louisiana Wrap’ in basso.


 

IL PRIMO DERBY UFFICIALE DI DAN PETERSON

di Ezio Liporesi - 1000cuorirossoblu - 12/01/2021

 

Nell'ottobre del 1973 la Virtus vinse la prima edizione del Trofeo Battilani, organizzato in memoria di Giuliano, giocatore, allenatore e dirigente bianconero, scomparso nel giugno precedente in un drammatico incidente. Le V nere vinsero tutti gli incontri, compreso il derby, 81 a 66, disputato nella prima serata. Fu quello il primo derby di Dan Peterson, allenatore americano appena arrivato alla guida delle V nere che segnerà un'epoca non solo a Bologna, ma in tutta la pallacanestro italiana. Un secondo derby Dan lo perse nel torneo di Imola a dicembre, 79 a 78. Nelle sue cinque stagioni alla Sinudyne furono sette le stracittadine amichevoli giocate, con quattro vittorie e tre sconfitte.

Nettamente migliore il record nei derby ufficiali, tutti di campionato: Peterson può, infatti, vantare nove vittorie e una sconfitta. La prima di queste gare ufficiali tra Virtus e Fortitudo nell'epoca Peterson si giocò il 13 gennaio 1974: In casa della Fortitudo, le V nere s'imposero 73 a 65. L'Alco parte meglio mantenendo tre punti di vantaggio per qualche minuto, ma al settimo minuto Sinudyne già lontana, 11-20; dopo un breve riavvicinamento, 12-16 a metà tempo, il vantaggio delle Vu nere sale, 19-26 al quindicesimo, 19-30, poco dopo e 27-40 alla pausa. Nuovamente nella ripresa parte meglio la Fortitudo, ma dopo cinque minuti la Sinudyne torna dominante, 37-54, poi 47-66 al 33'30". Rilassamento dei bianconeri e Alco a meno undici a quattro minuti dalla fine, 57-68, ma la Virtus controlla agevolmente e chiude vittoriosa 65-73. Nella Virtus da segnalare il ritmo dato da Gergati, i venticinque punti e quattordici rimbalzi di Fultz e un Bertolotti sempre efficiente in attacco, ma più sicuro in difesa.

Dan Petrson negli spogliatoi coin Serafini e John McMillen

ALL’ULTIMO RESPIRO ALTRO CHE
“OMARINO”, ERA UN GIGANTE

Quando il coach fece svoltare la Virtus di Porelli: «C’era scetticismo, lo capisco. Ma Porelli credette in me, e in tre stagioni fece il boom di abbonamenti. McMillen, un fenomeno vero. Questa città mi è rimasta nel cuore. Su Stadio uscì un articolo titolato: “Dan chi?”. Insomma partivo da -100. Il viaggio da Linate non lo dimentico: Canna viaggiava a 200 all’ora»
di Marco Tarozzi - Corriere dello Sport - Stadio - 01/02/2022
 

Dan Peterson, diciamo la verità: non è che Bologna l’abbia accolta benissimo, in quel lontano giugno del 1973.
«C’era molto scetticismo, posso capirlo. L’avvocato Porelli aveva detto chiaramente che il nuovo allenatore sarebbe arrivato dagli Usa, e il candidato era Rollie Massimino, che faceva il vice nella squadra di UPenn, l’università di Pen
sylvania. C’era già un precontratto, che però aveva una clausola: lo avessero chiamato a fare l’head coach dei Villanova Wildcats, sarebbe stato libero di andarci. Lo chiamarono».
Così, a fine maggio Porelli dovette guardarsi intorno in fretta.
«E in quel momento di allenatori liberi se ne trovavano pochi. L’Avvocato chiese a John Fultz, che chiamò il suo agente, Richard Kaner, che era anche il mio. Stavo allenando la Nazionale in Cile. Mi arrivò un telegramma proprio
da Kaner: “Puoi arrivare a Bologna in due giorni?” Feci una botta di conti e risposi: “No, me ne servono quattro”. Andò bene, e feci quel viaggio che mi cambiò la vita. Però non dovrei ricordarle, queste cose...».
Perché mai?
«Perché ho qui accanto mia moglie Laura che se la ride e mi dice: ma allora hanno preso un ripiego!»,
Ha ragione?
«Assolutamente sì. Ero un ripiego assoluto. Ricordo che Luigi Vespignani, su Stadio, titolò un articolo “Dan chi?”. E anche i tifosi non la presero benissimo. Come sapete non sono un gigante, e presto diventai “l’omarino” per tutti».
Anche per i collaboratori stretti di Porelli?
«Giancarlo Ugolini, che poi sarebbe diventato uno dei miei più cari amici, guardò l’avvocato e gli disse: non mi dirà che quell’ometto sarà il prossimo allenatore della Virtus».
Invece, quelli che vennero a prenderla a Milano le dimostrarono subito fiducia.
«Ricordo la spedizione come fosse ora. C’era Dino Costa, che mi è sempre stato vicino dandomi fiducia. C’era John Fultz, il nostro americano, che aveva interpellato Kaner. E c’era Achille Canna, che stava alla guida in un viaggio verso Bologna che non dimenticherò mai».
Per quello che è successo dopo?
«No, no: per come guidava Achille. Facemmo Linate-Bologna a 220 chilometri all’ora, non esagero. E io guardavo il tachimetro e cercavo di tradurre in miglia orarie. Dalle mie parti, quando giri a 90 all’ora stai già viaggiando veloce».
Il primo incontro con Porelli?
«Amore a prima vista. Mi portò a pranzo da Rodrigo con Ugolini, mi spiegò dove voleva arrivare con la sua Virtus. E poi, camminando per il centro, mi innamorai subito della città, un gioiello di storia e architettura. Fu un impatto meraviglioso».
Però, appunto, c’era da superare tutta quella diffidenza.
«Non partivo da zero, ma da meno cento. Però credo sia stato un vantaggio. Alla prima stagione abbiamo vinto la Coppa Italia, ci siamo qualificati per la Coppa delle Coppe».
Con John Fultz a trascinare la squadra. Ma alla fine della stagione dovette lasciare il posto a Tom McMillen.
«Volevo molto bene a John, quella scelta mi spezzò il cuore, avrei voluto portare in campo due americani, ma allora non si poteva. Con lui ero stato chiaro: per me tu resti, a meno che non riusciamo a prendere Tom. Sembrava un’impresa, e invece McMillen arrivò».
È stato il migliore di quelli che ha allenato, a Bologna?
«Sicuramente sì. Lo straniero più forte. Faceva il pendolare, perché aveva ottenuto un dottorato di ricerca a Oxford e ci raggiungeva per le partite nei fine settimana. Una volta, giocavamo a Napoli, si fece Londra-Milano e poi Milano-Napoli arrivando già in tuta a venti minuti dall’inizio della gara. Però in quella stagione, 1974-75, giocammo quarantotto partite e lui fu sempre presente».
Un bell’impegno, sommato a quello universitario.
«Chiuse quell’annata con 1221 punti e una media di 30.4 a partita, con 17 rimbalzi. Eppure aveva rimpianti: coach, mi disse, ero sempre stanco con tutti quei viaggi, avessi potuto stare sempre a Bologna avrei fatto meglio».
Con il suo arrivo si impennò anche la curva degli abbonati.
«Nella prima stagione il palazzo si riempiva sempre, ma gli abbonati erano 2500. Ho un ricordo preciso: c’è la notizia che arriva McMillen, e Porelli apre la campagna abbonamenti in un piccolo ufficio di viale Ercolani, con un piccolo delizioso giardino. È un’invasione, i tifosi arrivano in massa, le siepi ne escono malconce, allora Porelli chiude tutto e trasferisce il tesseramento ai botteghini del palasport, poi passa la notte con Pepoli a riorganizzare la numerazione dei posti. Subito si salì a 3500 tessere, con seicento tifosi in lista d’attesa; l’anno dopo con Driscoll, arrivammo a 4500, e mille in attesa; fino al limite massimo di 5750. Un trionfo».
Erano gli anni di Terry Driscoll, quelli.
«Un uomo squadra, ha trasmesso ai compagni la sua durezza mentale. Ci ha insegnato a diventare vincenti. Io devo tanto a ciò che ho avuto a Bologna. A Porelli, a Fultz, a McMillen, a Driscoll. E a un gruppo di giocatori che hanno scritto la storia della pallacanestro italiana: Bertolotti, Caglieris, Serafini, Villalta, Bonamico».
Gigi Serafini raccontava sempre di quanto soffriva i suoi “suicidi”...
«Poverino, lui quando arrivai era con la Nazionale agli Europei di Barcellona. Entrò nel mio gruppo dopo sei settimane, il primo giorno si voltò verso Bonamico implorando la Madonna... ma avevo portato un metodo, e il bello di quei ragazzi è che ci credettero, per questo arrivammo in alto».
Nel frattempo, Villalta è diventato maratoneta.
«Non per merito mio. L’unico aiuto che credo di avergli dato è stato convincerlo a non fare il pivot. Con la tua altezza, gli dissi, devi diventare un’ala. Fece un po’ di fatica all’inizio, e deve dire grazie soprattutto a John Roche. Ma poi diventò una leggenda».
E quelle serate in collina a suonare la chitarra?
«Strimpellavo tra amici. Artisti, bolognesi genuini. Ho due Giorgio nella testa, quando penso a Bologna. Comaschi e Bonaga. Grandi talenti, grandi personaggi, soprattutto grandi bolognesi. Ho sempre pensato che quelli come loro siano la colonna vertebrale di Bologna».
Cosa le ha dato questa città?
«La voglia di restare in Italia per sempre. E poi tanti amici anche fuori dal mondo del basket. Come Enzo Contini, il mio barbiere, o Osvaldo Finarelli, il mio sarto. Persone come Gigi Porelli e Giancarlo Ugolini, che non ci sono più ma restano qui, nella mia testa, per sempre».

 

I RICORDI DI DAN PETERSON: BOLOGNA MI PAREVA LA CITTA’ PIU’ BELLA DEL MONDO

tratto da bolognabasket.it - 20/12/2022
 

Dan Peterson (che presenterà alle 18 in Sala Borsa il suo libro “La mia Virtus”) è stato sentito da Walter Fuochi per Repubblica. Un estratto dell’intervista.

“La Bologna del 1973 a me pareva la città più bella del mondo. Avrei voluto il cellulare, allora. Per scattare una foto ogni dieci metri. Bellezza ovunque e Porelli che mi raccontava ogni angolo dei portici, lui che sapeva esattamente quanti chilometri sommavano. E poi, qualità della vita. Amici, cene, serate con la chitarra. E i settemila tifosi al palazzo.
Ho ricordi stupendi anche degli anni in cui non vincemmo. Quello con Tom McMillen, giocatore meraviglioso, i due con Villalta, che sarebbe poi diventato un pilastro. Le vittorie pesano di più, e allora due, scolpite qui. Coppa Italia ‘74: il nostro modo per dire a Milano, Varese, Cantù: ehi, la Virtus è tornata, non siete più sole. Scudetto ‘76 a Varese. Mi pare sempre un minuto fa.
La rivalità tra Virtus e Milano? Non metto il naso in dettagli che non conosco, so che la rivalità nello sport è pane quotidiano.
Ero salito a Milano e la Virtus fu quella che subito mi portò via due scudetti. Rivalità forti anche allora, poi però a Bologna ci sono tornato. A Porelli non potevo dire di no. Ero stato per cinque anni con lui a pranzo e a cena. Ascoltavo e imparavo.
Messina o Scariolo? Eh no, al gioco della torre non ci sto. Vedo invece i due più grandi allenatori italiani, due che ci troveremo presto nella Hall of Fame americana, alla guida dei due maggiori club e credo faccia bene a tutti. Diversi, con carriere infinite, impossibili da scegliere, è prestigioso riaverli entrambi qui.
Teodosic o Richardson? Sugar venne quando tornai alla Virtus. Merito di Porelli, soprattutto. Gli eravamo legatissimi, e non solo perché in campo era un giocatore totale, play, guardia, ala, tiratore, ma anche rimbalzista e difensore.
Rapido, ma pure grande e grosso: 1.95 usati bene. Okay, Teodosic oggi è di più. Spettacolare, ma di sostanza. Può fare il passaggio più fantasioso, ma se serve per vincere fa quello più normale.
Per Scariolo: un Picasso. Per mia moglie Laura, che lo adora: scenografico. Io ripeto che è lì per vincere, non per incantare.
Bada al sodo e sgrida i compagni che non lo fanno. Lo guardai in campo quando vinse lo scudetto con Djordjevic. Lo premiavano da Mvp, gli fregava poco: era lo scudetto quello che voleva”.