MARIO PORTO

nato a: Catania

il: 28/02/1959

altezza: 203

ruolo: ala

numero di maglia: 13

Stagioni alla Virtus: 1976/77 - 1977/78 - 1980/81

statistiche individuali del sito di Legabasket

 

IL RUGBYSTA MANCATO MARIO PORTO

di Roberto Quartarone - www.basketcatanese.it - 04/11/2011

 

Nel 1973 la Catania sportiva era una città un po’ disillusa dal calcio, maltrattato da chi di sport capiva poco (e in attesa del ritorno di Massimino), e aveva perso il basket di Serie B perché i soldi erano finiti troppo in fretta. Era invece in netta ascesa il rugby, sport povero ma nobile, che presentava una formazione in Serie A e tante buone prospettive. L’Amatori Catania lavorava bene e faceva un buon reclutamento a scuola.

Tra le promesse più interessanti del panorama catanese c’era un ragazzino di appena 14 anni, alto (già 1.95 cm, arriverà a 2.03), impostato e forte, già pronto per la Serie C (a Misterbianco) e anche per la Nazionale di categoria. Era un elemento su cui puntare. «In realtà giocavo anche a pallavolo – spiega Mario Porto, 52 anni –. Credo che avessi le potenzialità per fare carriera nel rugby, ero l’unico meridionale nella Nazionale Under-15, fui selezionato tra i 18 più forti di quell’età, passando da un trofeo tra le regioni del sud e un quadrangolare a Tirrenia. Ci portarono a Clermont-Ferrand, dove c’era un importante torneo per club. Come Nazionale non potevamo giocare, così ci misero una maglia tricolore e vincemmo davanti a squadre molto importanti. L’Amatori mi teneva sott’occhio, una volta a settimana mi allenavo a Fontanarossa con la prima squadra».

L’attività di base della pallacanestro, comunque, era altrettanto ben organizzata. Stava sorgendo la scuola di Camillo Sgroi al P.G.S. Sales, ma era anche affermata quella dell’Or.sa. La Salette a San Cristoforo, che aveva svezzato il futuro capitano del Gad Etna, Gianni Messina. I dirigenti di questa squadra (tra cui Gianni La Mendola, Pippo Vittorio e don Vittorio Costanzo, che sarebbe poi andato in missione in Madagascar) non si potevano lasciar scappare un ragazzo dal fisico così promettente, capitato lì per caso. «Un mio compagno di classe mi propose di provare con lui – continua Porto – in realtà però non ero propenso, ero già abbastanza impegnato. La mattina veniva l’allenatore a scuola per convincermi e alla fine accettai. Per un anno decisi di fare tre sport contemporaneamente!»

Iniziando così non era prevedibile un grande impegno da parte di un quattordicenne che sembrava già avviato sulla via del rugby. «Eppure nell’estate successiva partecipai a un raduno a Morbegno, con i quaranta migliori quindicenni del Sud. Lì mi videro gli osservatori della Sinudyne Bologna, che mi proposero di entrare nel settore giovanile delle V nere. Così lasciai tutto e partii per Bologna, dove giocai per quattro anni di giovanili». Questo acerbo ragazzino dai capelli rossi si ritrovò a mollare la famiglia e gli amici giovanissimo, seguendo la strada che aveva portato i catanesi Orazio Strazzeri e Santi Puglisi a cercare gloria al Nord.

Con una delle squadre più importanti della Serie A1 (che nel ’73 aveva iniziato un ciclo di vittorie che in un decennio avrebbe portato quattro scudetti e due Coppe Italia in bacheca), la crescita di un giovane pivot, con tanto da imparare ma dotato di mezzi fisici tali da poter diventare qualcuno, poteva essere portata a compimento con successo. «A volte sostituivo i titolari fra i dieci e nemmeno a 18 anni esordii in A1, partecipavo anche a qualche trasferta nelle coppe europee. Ebbi anche l’opportunità di partecipare a un raduno estivo prima dell’Europeo Juniores d’Italia nel 1978, ma mi scartarono all’ultimo. Da senior mi mandarono in prestito alla Virtus Imola e a Montebelluna (in B) e poi decisero di inserirmi tra i dieci dei campioni d’Italia uscenti, nel 1980-‘81». Non era la stessa squadra che aveva vinto due titoli consecutivi, senza Terry Driscoll in panchina e Krešimir Ćosić in campo.

«Arrivammo in finale sia in Coppa dei Campioni sia in campionato, ma perdemmo la coppa contro il Maccabi di un punto a Strasburgo e il campionato contro il Cantù di Riva e Marzorati. Ero il decimo ma giocavo spesso qualche minuto e segnavo anch’io». E non andò affatto male alla Virtus, considerando che gli stranieri McMillian e Marquinho s’infortunarono e non giocarono la finale play-off e che ci fu anche un cambio in corsa di allenatore (Zuccheri fu sostituito da Nikolić, che però non era abilitato per il campionato e quindi era affiancato da Ranuzzi). «In squadra avevamo i nazionali Bonamico, Caglieris, Generali, Villalta, ma giocare la finale senza stranieri era molto difficile».

In cerca di spazio e pronto per una sfida importante, Mario Porto lasciò Bologna. «Mi volle la Viola Reggio Calabria, in Serie B. Sfiorammo la promozione al primo anno e con un compagno di squadra fui selezionato dalla Nazionale militare per partecipare a Bruxelles al torneo Shape con le potenze della Nato. Vincemmo contro gli Stati Uniti ed era la prima volta in sette anni che l’Italia li batteva!» La vetrina internazionale è un grande traguardo personale, ma i successi più grandi stanno per giungere in campionato.

«Poi arrivarono l’allenatore Gianfranco Benvenuti e l’oriundo Mark Campanaro e vincemmo il girone e il play-off contro Pavia. Dopo un piazzamento a metà classifica, vincemmo anche l’A2 davanti alla Benetton, a Brescia e all’Otc Livorno, potendo anche partecipare ai play-off scudetto contro la Scavolini. Nel 1985-’86 tornai così in A1, fu una stagione discreta, ma Brescia ci condannò per gli scontri diretti, malgrado fossimo arrivati appaiati». Con l’arrivo del pivot catanese iniziò il periodo d’oro del basket calabrese, che avrebbe mantenuto la massima serie (A1 e A2) per ventitré stagioni consecutive.

Intanto, a 27 anni, è importante continuare a mantenere il ritmo giocando con squadre di un certo livello. «Benvenuti mi volle all’Enrico Fermi Perugia, di nuovo in B1: arrivammo terzi dietro Pistoia e Montecatini. Ricordo una partita sfortunata contro Montecatini: Andrea Niccolai fece canestro da trequarti campo e vinsero loro, superandoci in classifica. Quell’anno incrociai il catanese Angelo Destasio, che giocava a Trapani e si era ripreso da quegli infortuni che non gli fecero continuare una carriera che era iniziata molto bene. Mi prese quindi Sassari e al secondo tentativo conquistammo l’A2 battendo ai play-off la Mens Sana Siena. Nei due anni che rimasi con loro in A2 ci siamo salvati». Porto era un talismano per chi tentava la promozione e, malgrado l’età avanzasse, in B era sempre un totem.

«Nel 1991-’92 andai al Petrarca Padova, dove sfiorammo i play-off. La squadra fu poi confermata, arrivò Pietro Generali dalla Benetton, e questa volta ci qualificammo per giocare contro l’Udine di Bonamico e Pozzecco. In trasferta a 16” dalla fine perdevamo di cinque e vincemmo di tre, ribaltando il punteggio con i tiri liberi sul fallo sistematico e un canestro da tre con fallo. Vincemmo sia da loro che da noi e quindi siamo stati promossi in A2. Decisi di rimanere in B1, con la Serapide Pozzuoli, ma fu un campionato anonimo».

Era ora di cambiare abitudini. «A Reggio Calabria mi ero sposato nel 1985 e con due figlie piccole decisi di andare a vivere lì per dar loro un po’ di stabilità e trovarmi un lavoro». Per qualche mese Mario Porto fu un ex giocatore, ma il richiamo del campo era forte e a 35 anni era ancora fisicamente integro e decisivo. «A novembre 1994 mi contattò Barcellona. Facevo il pendolare da Reggio per giocare in C1 e aiutai la squadra ad arrivare in finale play-off contro il Cap Reggio Calabria. Ci ripescarono in B2 e lì agguantammo l’ultimo posto utile per la Poule Promozione. Anche stavolta riuscimmo ad arrivare fino alla finale play-off, contro Teramo, che però vinse di venti. La società era comunque contenta per il risultato inatteso e ci diede fiducia. Vincemmo l’anno dopo la B2 ma a quel punto per me veniva troppo impegnativo affrontare la B1».

Quel Barcellona era l’embrione della squadra che avrebbe poi fatto la A2 e avrebbe venduto il titolo alla Pallacanestro Messina. Il presidente della squadra, Edoardo Capizzi, aveva intanto lasciato per andare a Catania, per aiutare l’ambizioso Cus allenato da Gaetano Russo. Porto fu uno dei primi rinforzi «Giocammo i play-off ma fummo eliminati al primo turno. Con me c’erano Alberto Di Mauro, Pupino di Napoli, l’ex Barcellona Corlito, Lonatica, Marchesano, Leonardi. Non era male come squadra, ma non siamo riusciti a fare meglio di così. Lì finii la carriera». Curiosamente Porto iniziò e finì la sua lunga esperienza da giocatore con un anno a Catania, senza però lasciare un segno indelebile.

Tutt’altro a Reggio Calabria. Lì è rimasto nei cuori dei tifosi e soprattutto è tenuto in grande in considerazione dalla Viola. «Mi cercarono per fare il team manager nella squadra del presidente Gianni Versace e di Manu Ginóbili in campo. Per tre anni ho ricoperto questo ruolo in A1, poi continuai a svolgere vari ruoli, anche un anno con l’Audax. È un compito meno pesante, è un hobby».

A Catania è tornato da avversario due anni fa, come dirigente della rinata squadra arancionera. «Ora sono dirigente della Team Basket Viola, la nuova proprietà viene da Gioia Tauro e ha già fatto bene lo scorso anno arrivando in finale. C’era anche la possibilità di essere ripescati, ma abbiamo preferito continuare in DNB. Non vogliamo forzare le cose, si vuole far crescere la società e se dobbiamo essere promossi è meglio sul campo».

Reggio Calabria tenta faticosamente di rinascere, ma attorno, soprattutto al sud, c’è un vuoto sempre più preoccupante. «Solo in Puglia l’anno scorso dall’A1 alla B Dilettanti vi erano 11 squadre, ma anche lì ora molte società si sono ridimensionate. Poiché ritengo che lo sport rifletta la società attuale, in questo momento in una profonda crisi generale, è difficile capire quale possa essere la soluzione giusta per uscirne fuori. Gli sport minori come il basket ne stanno risentendo in modo particolare. In più al Sud, non essendoci alle spalle imprenditori come Armani o banche come MPS, i pochi appassionati che si cimentano a spese loro senza aver un ritorno economico, si stancano dopo pochi anni e ci si trova ad avere piazze che per 3-4 anni lottano per risultati importanti e l’anno successivo sono costrette a chiudere i battenti».

Intanto, la Viola tenta di dare il massimo con le risorse limitate che ha, facendo un passo alla volta. Nella speranza che ci siano sempre appassionati che aiutino a crescere e magari un giorno si riesca a trovare quella continuità che permetta la crescita, magari di pari passo con l’uscita dalla crisi in cui versa buona parte del basket meridionale.