KRESIMIR COSIC
(giocatore)
(Krešimir Ćosić)
nato a: Zagabria (Jugoslavia - Croazia)
il: 26/11/1948 - 25/05/1995
altezza: 211
ruolo: centro
numero di maglia: 11
Stagioni alla Virtus: da giocatore 1978/79 - 1979/80
statistiche individuali del sito di Legabasket
palmares individuale in Virtus: 2 scudetti
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COSIC PASSA ALLA SINUDYNE
È il capitano della nazionale jugoslava di basket
Ansa - 1978
Kresimir Cosic è stato ingaggiato dalla Sinudyne di Bologna. Il contratto, con validità biennale, è stato firmato - ha informato la società - ieri a Belgrado. Cosic è nato a Zagabria il 26 novembre 1948, è il capitano della Nazionale jugoslava di basket. proviene dall'Olimpia di Lubiana ed è considerato uno dei più grandi pivot del mondo.
Dopo lo svolgimento dei campionati mondiali, che cominceranno il 23 settembre a Manila, Cosic sarà a Bologna a disposizione della società.
L'atleta, che ha giocato anche negli Usa fra i professionisti, dove si è convertito alla religione mormone, sarà comunque nel capoluogo emiliano anche prima di tale data; con la Nazionale del suo Paese parteciperà infatti al quadrangolare che s'inizierà il 12 settembre e al quale hanno dato l'adesione anche le nazionali d'Italia, di Cecoslovacchia e la squadra bolognese dell'Amaro Harrys, l'ex Fernet Tonic.
UNA SORPRESA DI NOME COSIC
Forse ci ha abituati troppo bene, offrendoci ogni anno (a noi appassionati di basket e soprattutto ai tifosi della Sinudyne) qualcosa di nuovo, di bello, di sorprendente. Prima Tom McMillen, poi il ritorno di Driscoll (e lo scudetto), poi Villalta, l'anno scorso - tanto per non stare nell'argomento giocatori - un parquet nuovissimo, all'americana. Tutti dunque ci si chiedeva quale sarebbe stata la trovata dell'avvocato Porelli per la stagione ormai alle porte. Già le voci circolate all'inizio dell'estate e riguardanti il possibile arrivo in via Ercolani di sua maestà Dave Cowens avevano fatto capire che tipo di aria sarebbe tirata quest'anno da quelle parti. E infatti, sebbene smentite le notizie circa l'arrivo del superpivot americano, i tifosi bolognesi e tutti coloro che seguono con interesse le vicende del nostro basket sono rimasti a bocca aperta quando, agli inizi di settembre, è giunta ufficiale la notizia del contratto stipulato tra la squadra bianconera e Kresimir Cosic, il più grande pivot in assoluto della storia del basket jugoslavo, un campione invidiato da tutta Europa, non fosse altro che per gli innumerevoli dispiaceri che ha sempre dato alle Nazionali di tutti i paesi europei. Era una sorpresa davvero grossa e non solo perché il diabolico avvocato Porelli era riuscito a battere (tanto per cambiare) la concorrenza dei Boston Celtics. Cosic infatti è stato in questi ultimi anni senza dubbio il campione straniero, meglio sarebbe dire "l'avversario", più ammirato e stimato dal pubblico italiano che pure avrebbe avuto mille e un motivo per nutrire nei suoi confronti ben altri sentimenti. Invece la sua classe cristallina, le sue incredibili invenzioni nei momenti più disparati (e spesso disperati...) degli incontri, quel suo eterno fare un po' guascone e un po' svagato, alla Woody Allen, hanno sempre attirato su di lui pareri positivi e basta.
Del resto, basterebbe dare un'occhiata al suo curriculum per rendersi conto che tante lodi e tanta ammirazione non sono mai stati mal riposti. Nato a Zagabria trent'anni fa, dopo alcuni anni passati nelle squadre jugoslave si è trasferito nel 1970 negli Stati Uniti, alla Brigham Young University, dove ha avuto modo di mettersi in luce come uno dei migliori pivot del campionato universitario americano tanto da essere inserito nelle scelte dei Los Angeles Lakers (NBA) e dei Carolina Cougars (ABA). Ritornato in patria, ha ripreso il suo girovagare dal un club all'altro, continuando nel frattempo a mieter successi con la Nazionale jugoslava: tre campionati d'Europa, un campionato del mondo, due medaglie d'argento alle Olimpiadi, un secondo posto nel nostro referendum per l'elezione del miglior giocatore europeo. A Kresimir Cosic, vescovo mormone destinato a diventare grande protagonista del prossimo campionato italiano, manca solo la conquista di uno scudetto italiano: un'idea, questa, che senz'altro sta bene anche all'avvocato Porelli...
IL "GIGANTE" DI BOLOGNA
di Guido D'Ercole - Superbasket - 07/11/1978
Una volta, erano i tempi di Ignis-Simmenthal, Cesare Rubini aveva un solo cruccio: trovare l'anti-Meneghin. Ci provò con Kenney il rosso, con Brosterhouse, poi con Hughes, ma con risultati assai discutibili. Il Principe avevo però individuato cosa occorreva alla sua squadra per metter fine all'egemonia varesina: scovare l'uomo che potesse contrastare la potenza e la mobilità di Super-Dino. I tempi sono cambiati: Rubini ha passato la mano ed il Simmenthal, dopo tante vicende, è diventato Billy ed ha ben altri problemiche trovare l'anti-Meneghin.
Il ruolo di rivale numero uno del club varesino di questi ultimi anni, è passato alla Sinudyne, e Bologna ha in Porelli il suo Rubini, assillato dallo stesso problema: si possono mettere in preventivo i 30 punti di Morse o magari tentare di fermarlo con Bertolotti (o, come accadde l'anno dello scudetto, con Bonamico), si può tentare di pareggiare il conto con Yelverton (meglio Wells che Roche, a questo proposito), ma resta sempre aperto il problema Meneghin. Porelli ha provato a cercare l'antidoto giusto: ha riportato a Bologna Terry Driscoll, ma la classe e l'intelligenza del bostoniano non potevano bastare sempre; allora ha provato con Villalta, quello che doveva essere il Meneghin del futuro, ma anche Renato ha accusato battute a vuoto: troppo lento, meno agile ed anche meno potente del varesino.
Ma insomma, dove trovare questo anti-Meneghin? In America pivot di valore ce ne sono, ma quelli veramente bravi costano un occhio della testa, ammesso che siano disposti a trasferirsi da noi, e rischiano di pagare l'ambientamento con una prima stagione sottotono, ma la Sinudyne non può aspettare. Ma perché andare a cercare oltre Oceano quando in Europa, anzi a due passi da casa nostra, c'è il pivot che ha fatto maggiormente soffrire Meneghin nella sua carriera? Ed ecco che l'avvocato Porelli con il suo eloquio ben accompagnato dai fatti (leggi dollari, tanti dollari) ha convinto Kresimir Cosic ad approdare a Bologna, battendo un'antica concorrenza udinese.
Chi sia Kresimir Cosic lo sanno anche i bambini: 29 anni, due volte campione del mondo, tre volte campione d'Europa, argento a Montreal, campione jugoslavo e oggetto di richieste dai "pro" NBA.
La fama, oltre che giocando, Cosic se l'è costruita andando in America. Nel '71 abbandonò Zara (dove aveva vissuto dall'età di due anni e dove probabilmente tornerà a vivere il giorno in cui lascerà il basket) e varcò l'Oceano. Approdò alla Brigham Young University, l'università dei mormoni. Mangiò basket e bibbia. Era un "ateista", come dice nel suo più che accettabile italiano, e dopo un paio di anni sentì il bisogno della religione:logico che si convertisse alla fede dei mormoni, anzi, per usare le sue parole, alla fede dei Santi degli Ultimi Giorni. Una moda? Macché! Se ne tornò in Jugoslavia, per esigenze della Nazionale plava, indottrinato fino agli occhi, addirittura vescovo: fece (pochi) proseliti, ma soprattutto continuò a lungo a mandare dinari in America, per la Chiesa mormone.
Chi avrebbe potuto guadagnare da questo contatto di Cosic con gli Stati Uniti era lo Zadar: per la prima volta una squadra jugoslava si schierò in Coppa dei Campioni con un americano, Doug Richards. Ma Cosic era molto mormone e moltissimo cestista, questo Richards molto mormone ma poco cestista, e lo Zadar non fece molta strada nella Coppa dei Campioni '75. Qualche grana invece la diede in buon Cosic per il suo iniziale rifiuto di giocare la domenica, giorno consacrato al Signore: grossi problemi per la Nazionale durante le manifestazioni internazionali, ma alla fine "Cioco" fu convinto: "è mio dovere non danneggiare il mio prossimo - sentenziò alla fine Kresimir - e siccome ho dei doveri verso i miei compagni, giocherò, pur santificando con le preghiere il giorno del Signore". I meno contenti, ovviamente, furono gli avversari: loro sì che si sentivano danneggiati... E Cosic continuò ad essere uno dei pilastri della Nazionale slava: gran mostro difensivo, eccezionale sui rimbalzi e nell'aprire il contropiede e,quando occorre, capace di dare i due punti che contano, anche se, ogni tanto, si lascia trasportare dalla sua indole di gigione e cerca il numero ad effetto, il palleggio strano o l'acrobazia da piccoletto, forse proprio per far vedere che anche se è 2,11 è bravo, agile e sciolto come una persona di statura normale. I "pro" avevano(e forse a ragione) il dubbio che fosse un po' incostante (e magari anche un po' fragile): lui ammette: "In effetti non riesco a concentrarmi contro avversari deboli: mi distraggo, mi vien voglia di scherzare". Ma la Sinudyne, contro gli avversari deboli, può anche fare a meno di lui: essenziale è che sia all'altezza della sua fama nelle partite che contano. E contro Meneghin non ha mai sgarrato, neppure a Manila.
Di una cosa comunque si può star certi: si può mettere la mano sul fuoco sulla sua serietà. Persino nella Nazionale slava, dove quel pazzerellone di Slavnic impera a mò di capomafia e dove Dalipagic e Kicanovic continuano a farsi la guerra fredda, lui rappresenta un'isola di serietà, quasi di ascetismo. è buono e gentile con tutti, ma sembra vivere in un mondo a parte, con quell'aria quasi da missionario. Ama la lettura e, dopo aver studiato l'italiano all'università, dice di aver gustato moltissimo Moravia. E le donne? A Bologna le tentazioni non mancano... lui si schermisce, non fa vita mondana. Ma in fin dei conti, non erano proprio i mormoni quelli che ammettevano la poligamia? Chissà che a Bologna non diventi mormone anche su questo punto...
ARGENTO PER COSIC AL VALOR CIVILE
Cosic, circa due mesi fa, nei pressi di Zagabria, sopraggiungeva con la sua vettura quando sulla strada vedeva un'auto in fiamme, Buttatosi nel fuoco con massimo sprezzo del pericolo, il pivot della Nazionale jugoslava ed ora della Sinudyne Bologna riusciva attrarre in salvo tutti coloro che, tramortiti dall'urto, occupavano la vettura. Cosic non aveva mai dato risalto a questo suo eroico gesto. Adesso la Jugoslavia assegna a lui una delle (pochissime) medaglie al valore civile che vengono attribuite nella vicina Nazione per atti di particolare significato. Non è senza orgoglio che il basket sottolinea come un campione del mondo non sia soltanto un asso sul campo, ma anche un campionissimo fuori.
LA BETULLA
di Gianfranco Civolani - da "I Cavalieri della Vu Nera. I 125 anni della SEF Virtus attraverso i suoi campioni"
Rubo l'immagine a un collega, una betulla malata. Il mormone ha già trent'anni, gioca da una vita e adesso è anche vescovo mormone da quando officiava i suoi riti in campo, là sul gran lago Salato. Kresimir Cosic detto Creso. Arriva a Bologna tutto curvo e ramingo, arriva per pilotare la V nera laddove l'anno prima non c'erano riusciti né Terry Driscoll e nemmeno quel bizzarro puledro che era John Roche. Ma il vescovo non ha voglia di allenarsi e di soffrire, inventa sempre una scusa di troppo per disertare la palestra e le sue prime esibizioni sono roba un po' troppo virtuale, quel che potrebbe essere e purtroppo non è. Però che fosforo, che classe purissima, che universalità, ecco. Pivot? Ma no, di tutto un gran bel po'. Orchestra, detta il verbo, ispira e finalizza. In panca c'è un debuttante di lusso, quel Terry Driscoll. E l'altro straniero è un buon cristianone - tale Owen Wells - funzionale al cosiddetto disegno di squadra. Driscoll si muove sulla stessa lunghezza d'onda di Creso, la lunghezza d'onda dell'intelligenza vivida e viva.
Creso è sempre così acciaccato e indolente, in apparenza accusa gravemente il peso degli anni e duemila malanni alla schiena. Sotto il gomitone, sussurrano i compagnucci che vorrebbero venerare il venerando e che però si scocciano a vedere che fra loro ce n'è uno solo che durante la settimana fa delle flanelle giganti. Ma occhio al prodotto. La betulla malata ti porta due scudetti in serie, la zonona (3-2) montata da Driscoll paga puntualmente e così Driscoll e Creso fanno tombola entrambi, due su due e mai più una roba così. Fuori dal campo non sai dire se Creso sia più godibile e accattivante ancora. Un genio, ma sì. Ti basta stargli un attimo accanto e capisci di basket più di quanto ne sapessi un po' prima. E hanno un bel da prenderlo in mezzo i compagnucci simpaticamente malevoli, lo prendono in mezzo perché si narra che ai mormoni quella cosa lì non piaccia per niente e così gli dicono in coro: Cioso, ma tu non ciosi mai? E lui, serafico: "Ce l'avete sorella o fidanzata? Portate a me, portate". Se ne va onusto di allori e trofei e lascia in tutti noi il rimpianto di non poter più godere la sua arte inimitabile.
Ma Creso è proprio una betulla che non si rizza più, la schiena è a pezzi, la voglia di soffrire zero e la voglia di giocare idem. E allora leggiamo ogni tanto che Creso fa l'allenatore qua e là e che svezza i giovani talenti come pochi e un giorno Porellone ha la pensata di far tornare proprio qui il vescovo per officiare ancora un qualche rito, ma questa volta posando i magri glutei sulla panca. Chiaramente noi della stampa lo accostiamo in modo più diverso e variegato rispetto a quando evoluiva sul parquet. La Virtus da lui diretta va e non va e qualche robustissima paga nel derby accorcia qui la sua vita da coach. Io un giorno lo invito a una trasmissione radiofonica e resto colpito dal suo sapere. E a tutto porto con grande semplicità di accenti e poi finiamo a parlare dell'esistenza e di certi valori inestimabili e su quel piano non mi convince solamente perché lui crede e io no, ma l'uomo è sicuramente molto affascinante e il coach è anche tanto sfigato perché la Virtus che gli affidano non è di primissima qualità e i risultati sono - come dire - conformi.
Oggi il ricordo di quel che ci diede Creso resta indelebile. Chi il miglior straniero Virtus di sempre? Ce lo domandiamo, me lo domandano. Cosic o Mc Millian o Danilovic, continuo a rispondere, e penso a quella betulla che puntava sempre verso il cielo e anche verso la nuda terra. Due anni fa andai a Charlotte, in North Carolina. Creso era diventato vice-ambasciatore di Croazia a Washington. Si era messo in politica, gli piaceva tanto far qualcosa per il suo popolo. Lo vidi un giorno al supermercato, girava portandosi tutta la sua figliolanza. Una ragazza gli chiese di mettersi in posa per una foto, una ragazza bolognese che tifava e tifa Virtus. Grazie a te che mi fai quest'onore disse Creso spianando anche a me vecchio amico il suo sorriso solare. Mi sembrò un uomo molto felice e ci restai di gesso qualche tempo dopo quanto mi raccontarono che quell'anima lunga era stata assalita da un terribile male che non dava speranze. Ma io lotto duramente, confidò Creso da là e dal suo letto di dolore.
Poi l'inevitabile fine, la betulla che aveva toccato il cielo si era inabissata così. E chi oggi è stato al cimitero di Zagabria mi dice che là è sepolto il grandissimo Drazen Petrovic e che nei paraggi c'è anche la tomba - che ha sempre fiori freschi - dell'incommensurabile Creso. O natura o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? cantava il poeta.
CRESO, IL PIU' GRANDE
di Maurizio Roveri - Corriere dello Sport/Stadio - 26/05/1995
"Il più grande giocatore che io abbia avuto. Un talento straordinario. E soprattutto un grande uomo. Un personaggio fuori dal normale, nel senso buono". Così l'avvocato Gianluigi Porelli ricorda Kresimir Cosic, morto ieri a 46 anni in una clinica americana, stroncato da un male incurabile.
Porelli ha avuto diverse felici intuizioni nel ventennio di uomo-guida della Virtus Pallacanestro: è lui che portò in Italia Dan Peterson nel settembre del '73, è lui che regalò per una stagione al popolo virtussino il talento giovane di Tom McMillen studente a Oxford destinato alle glorie della Nba, è lui che riportò da noi Terry Driscoll, e poi ci fece conoscere la scienza di Jim McMillian il "duca nero". E fra queste intuizioni geniali trova un posto speciale la scelta di ingaggiare Kresimir Cosic, gigante slavo di 2,11, già veterano quando arrivò a Bologna nel '78 con un fisico che pareva cadente e che certo non eccitava la folla del palasport di Piazza Azzarita I settemila accolsero Kresimir con freddezza, quasi con diffidenza. Ma lui sorrideva, con quell'aria pacifica. Nei suoi grandi occhi da gigante buono c'era la luce, la luce di un messaggio.
Il messaggio della sua fede: canestri e Bibbia, Bibbia e canestri. Una spiritualità più forte di ogni malizia, di ogni intrigo di questo mondo. Il messaggio della sua pallacanestro: così limpida, così geniale, così raffinata. Un playmaker di 2,10. Un pivot con il fosforo di un regista. Sì, pivot e playmaker al tempo stesso. L'arte della creazione del gioco. Luce e voce di una Virtus vincente. La Virtus di Cosic e Wells e della famosa zona 3-2 ideata da Driscoll al suo primo anno da coach in collaborazione con Ettore Zuccheri. Ma soprattutto la Virtus di Cosic e di Jimmone McMillian nella stagione successiva: al loro fianco Caglieris, Villalta e Bertolotti. Un quintetto da favola, a nostro avviso il più bel quintetto virtussino di tutti i tempi.
Vi proponiamo un'immagine storica. Finale-scudetto del '79, la Virtus che trionfa al Palalido contro il Billy di Dan Peterson, la cosiddetta "banda bassotti". Cosic all'altezza della lunetta col suo lungo e magro braccio destro in alto, a tenere lassù il pallone: ad altezze dove gli avversari non potevano arrivare e guardavano impotenti. E intanto, dentro l'area, i vari Generali, Villalta, Bertolotti "tagliavano" sottocanestro per ricevere l'assist di Cresimiro. E quei passaggi erano deliziosi, pennellate d'autore, piccoli capolavori. Non abbiamo mai più visto qualcosa di simile.
"Prima di quella finale - è un aneddoto che ci racconta Porelli - dico a Cosic: fai attenzione, Kresimir, che quelli del Billy picchiano, giocano duro. Sono preoccupato. Lui mi guarda e con un'aria serafica mi fa vedere il muscolo del braccio destro, dove... il muscolo non c'era. Vedi, avvocato, che forza? E allora tu devi stare tranquillo". Porelli sul momento rimase perplesso. Ma capì tutto ad inizio partita. La forza era nella testa dei giocatori della Virtus, nella loro mentalità, la forza era la serenità di Cosic. La sua grande luce.
Talvolta scherzavamo con Kreso sulla scelta della sua religione. E sul fatto che nessuno lo vedeva andare con delle donne. E i compagni di squadra di quella Sinudyne lo stuzzicavano: Kreso, si dice in giro che i mormoni possono avere tante donne, è vero? Cosic sorrideva divertito. "Non è più così oggi. Una volta avevamo la poligamia. Adesso possiamo sposare una sola donna. Anche i nostri preti sono sposati".
- Ma l'avventura è peccato, si o no?
"Certo, è peccato, come nella religione cristiana".
- Ma non dirmi che tu non hai delle avventure...
"Mica siamo tutti perfetti...".
Ecco, Kresimir Cosic vogliamo ricordano così, con una battuta, lui che la vita l'ha sempre vissuta con il sorriso sulle labbra.
Il trio delle torri bolognesi Villalta, Cosic e Generali taglia fuori Bariviera e Flowers mentre Jim McMillian scatta in contropiede
ADDIO CRESO, GENIO DEL BASKET
di Walter Fuochi - La Repubblica - 26/05/1995
Creso ha abbassato il pallone. Lo teneva lassù, in cima a un braccio sottile come una liana: nessuno degli avversari poteva arrivarci, lui intanto guardava, quasi irridente, dove potesse lanciarlo. Era alto 2.10, giocava pivot. Il ruolo è un limite: in realtà era una testa pensante, su un fisico fragile, su ogni punto del campo.
Kresimir Cosic ha perso ieri la sua partita col cancro. E morto all'ospedale John's Hopkins di Baltimora: era stato aggredito da tempo alle ghiandole linfatiche, il male e le cure l'avevano fiaccato. Ad amici che lo chiamavano da Bologna aveva risposto, pochi giorni fa, con toni mesti. Alla Virtus aveva vinto in 2 anni, da giocatore: ’79 e ’80, con Villalta e Caglieris, Bertolotti e Generali, Wells e McMillian. Era tornato da tecnico: l'avvocato Porelli credeva al suo genio un po’ strampalato, unico. Ma il torneo '87-88 andò male e non ci fu conferma. Cosic, che aveva allenato anche la nazionale jugoslava, lanciando ragazzi come Kukoc e Radia, Divac e Paspalj, quando parevano bambini troppo imberbi, finì per poco in Grecia, poi riprese la strada dell'America, dove aveva studiato, all'università mormone. Il suo paese s'era spaccato, a Washington la Croazia apriva l'ambasciata e Cosic ci entrò. In America ha scoperto e lottato col suo male, un paio d'anni, senza fortuna. Resta un ricordo per la Bologna che l'amò. Lui e il suo basket unico e geniale.
DI VINCERE NON CI SI STANCA MAI
di Nando Machiavelli - Superbasket - 23/05/1979
Sul pullman bianconero che, nella notte di domenica 6 maggio (data importante nella storia della Virtus ma anche del basket italiano) riportava la Virtus a Bologna i neo campioni d'Italia, l'euforia era al massimo. Villalta cercava riconoscimenti dai compagni per i 34 punti messi nella retina del palazzone; Caglieris diceva che i suoi palleggi avevano costretto D'Antoni ad essere riaccompagnato a casa tanto era frastornato. Creso Cosic se ne stava in un silenzio preoccupante, ma a un certo punto sbottò:
Non mi ringraziate neanche per la bella figura che vi ho fatto fare? Nel secondo tempo non ho tirato neanche una volta, per farvi sfogare!
Rumori di vario tipo seguirono la frase del campione del mondo, visibilmente soddisfatto di aver vinto uno scudetto alla sua prima apparizione sui parquet italiani e soprattutto per aver trovato compagni ideali e un ambiente ideale in modo da poter esprimere la sua immensa classe.
"Chi discute Cosic è un incompetente - tuona Gigi Porelli - eppure è accaduto che cinque mesi fa mi siano arrivate lettere anonime per il fatto di averlo ingaggiato". Dove si dimostra che anche della "magna" Bologna non mancano i matti.
In otto mesi Cosic ha vinto un mondiale e un titolo nazionale ed ora si prepara a dare una mano ai compagni jugoslavi per l'assalto al titolo continentale. Non lo preoccupa - gli chiediamo - questo nuovo impegno?
Adesso che il fisico è a posto posso continuare in tutta tranquillità. Ho fatto un po' di fatica a sistemarmi, quest'inverno ho avuto problemi al polpaccio, quello che più mi è dispiaciuto sono state le chiacchiere che sentivo in giro. Dicevano che sarei venuto a Bologna per fare quattrini, senza preoccuparmi di dare il meglio possibile: è chiaro che qui qualcuno non mi conosceva bene!
Cosa ti ha dato questa esperienza con la Sinudyne?
Sono rimasto molto impressionato dall'organizzazione della società, direi a livello professionistico americano, eppure c'è un rapporto molto lineare tra tutti noi, l'avvocato è molto chiaro nelle sue richieste, è logico che pretende il più possibile, ma non ha mai fatto drammi, neppure quando siamo stati in difficoltà, all'inizio del campionato. Penso che nella fase finale la squadra abbia dimostrato di meritare il titolo.
Resterai a Bologna?
Il mio contratto non scade ora, penso che sia io che la Sinudyne intendiamo mantenere l'accordo che prevedeva la mia permanenza per due stagioni.
Cosa dici di Terry Driscoll?
È un giovane coach, che ha avuto necessità di fare esperienza. Probabilmente all'inizio avrà commesso anche lui degli errori, ma è un uomo eccellente, con il quale si può anche... contestare. Ci ha pilotato nel finale come un esperto della panchina, del resto anche come giocatore ha sempre impiegato molto poco a capire le necessità della squadra in cui giocava.
A volte in campo ti sei arrabbiato con i compagni perché non ti assecondavano: non è mica sempre facile capire le intenzioni di un campione del mondo, sei d'accordo?
Non esageriamo, io non mi sono arrabbiato con nessuno; certo mi piace quando tutto funziona, quindi se c'è una palla persa male o un tiro fatto al momento sbagliato è chiaro che non sono contento, ma la cosa riguarda anche me, perché di stupidaggini ne commettevo anch'io quante e più degli altri.
Hai voluto sfottere i giocatori del Billy nel secondo tempo di Milano, quando tenevi la palla sulla testa e loro ti saltavano attorno come grilli, senza raggiungerla?
No, ho semplicemente gelato il pallone: i piccoli lo fanno palleggiando, io ho la fortuna di avere le braccia lunghe e il pallone stava bene lassù, io rispetto tutti in campo, non vedo proprio perché si debbano prendere in giro gli avversari.
A parte i tuoi compagni, chi sono i giocatori del campionato che più ti hanno impressionato?
Non molti, una volta Sojourner, un'altra Meely, Kupec è un ottimo tiratore, Morse è un modello di eleganza e correttezza.
Vuoi diventare anche campione d'Europa, non sono troppe tre vittorie in nove mesi?
A vincere non ci si stanca mai: sì, penso proprio che la mia Jugoslavia possa vincere gli europei. Poi mi riposerò, per tornare in maglia Sinudyne dopo le vacanze con una nuova voglia di vincere.
ETTORE ZUCCHERI SU COSIC
Con Dan sono stato fino al suo esonero. Nel 79-80 e 80-81, insieme a Driscoll, vinciamo lo scudetto. Ho avuto l’onore di allenare il grande Kresimir Cosic, il più grande straniero (a mio avviso) mai approdato in Italia. È il fiore all’occhiello della mia vita di allenatore.
Nella pagina su Zuccheri, due interessanti suoi scritti basati sull'esperienza vissuta a fianco di Kresimir Cosic: Ettore Zuccheri allenatore.
COSIC, QUANDO CONTA C'È SEMPRE
di Dino Meneghin - Giganti del Basket - aprile 1979
Non sempre quando sei in attesa di un incontro importante o di uno scontro con un grande avversario, riesci a concentrarti adeguatamente. Può capitarti di rimanere in tensione per l'intera settimana precedente all'incontro e poi presentarti in campo senza concentrazione, distratto magari dalla tensione stessa. È una questione di maturità.
Uno dei pochi giocatori sul quale riesco a concentrarmi come si deve già due o tre giorni prima dell'incontro è Kresimir Cosic. Probabilmente perché mentre io ero in ascesa e già qualcuno cominciava a decantare le mie gesta (si fa per dire) Creso mi ha fatto fare qualche sano bagno di umiltà, mi ha lasciato il segno.
Lo conobbi per la prima volta agli Europei junior del '66 a Porto S. Giorgio; poi lo rividi in un incontro amichevole a Cortina, prima delle Olimpiadi del Messico dove rimase fuori squadra e, finalmente, come diretto avversario ai mondiali di Lubiana, nel '70.
Cosic è stato per diversi anni il miglior giocatore europeo in senso assoluto e a Lubiana era in forma splendida. Appena rientrato dagli Stati Uniti, dove aveva perfezionato il suo gioco e rifinito il suo bagaglio fondamentale, l'asso slavo era assolutamente incontenibile. Allora esisteva un solo giocatore che poteva sostenere il confronto con la classe di Cosic ed era Zidek, il pivot cecoslovacco. I termini di paragone però cadevano immediatamente quando si cercava in Zidek qualcosa che bilanciasse l'estrema versatilità e la varietà di gioco del mormone. Zidek era un grande pivot e sapeva fare egregiamente il pivot: basta. Guardando Cosic invece ti rendevi conto di avere di fronte un fenomeno, un tipo di giocatore fino ad allora assolutamente sconosciuto in Europa.
A parità di ruolo e di centimetri è difficile trovare un giocatore ugualmente estroso e con la sua fantasia. È un giocatore intelligente e grazie alle sue caratteristiche può giocare anche fuori, aumentando così il suo potenziale d'attacco. La sua versatilità, che lo facilita nel cambiare tipo di gioco e posizione nel campo, lo portava facilmente anche a "gasarsi" come si dice, a strafare un pochino; sembrava di trovarsi contro un giocatore brasiliano e non era raro vedere l'allenatore di turno impallidire in panchina e fare scongiuri mentre Cosic portava i suoi due metri e dieci in giro per il campo, palleggiando dietro la schiena e sparando assist da mozzafiato. Se poi le cose giravano bene allora potevi prendere la tuta e tornartene negli spogliatoi: quantomeno risparmiavi una brutta figura.
Ora, con gli anni, il giocatore è chiaramente maturato e di conseguenza ha riposto nel cassetto qualche numero di fanta-acrobazia, impegnandosi invece per mettere al servizio della squadra la sua grande visione di gioco. In questa specialità è veramente un fuoriclasse: è capace di organizzare il gioco d'attacco meglio di un playmaker ed è un ispiratore perfetto per le soluzioni dei compagni.
Individualmente, come attaccante ha molte soluzioni: soluzioni che scegli istintivamente a seconda del tipo di marcamento riservatogli e dalla posizione della difesa del suo avversario. In questo è bravissimo, ti "sente" molto e si regola di conseguenza, cambiando tipo di gioca con estrema facilità. è ugualmente pericoloso sia in gancio che in sospensione e, se è in giornata, non gli fa molta differenza la posizione ravvicinata o la lunga distanza.
Non ama molto i marcamenti "particolari", quelli con la clava in mano per intenderci. Quelli non li può vedere e ci gira abbastanza al largo, anche perché lui è estremamente corretto, non pratica il gioco duro e quindi non vuole che lo si pratichi contro di lui. Come ho detto prima ha un'ottima visione di gioco e passa il pallone molto bene, tant'è che se può preferisce dare un buon assist che concludere di persona.
Come rimbalzista è inutile dilungarsi nel descrivere le sue qualità, perché ormai sono note a tutti. I rimbalzi sono la sua specialità e per questo ha ottime qualità naturali. È alto, ha le braccia lunghe, è tempista, ha buoni garretti e prende bene posizione. Detto questo è detto tutto. Non cura molto il tagliafuori ma bisogna dire che è uno dei pochi a poterselo permettere.
Il suo modo di difendere è caratterizzato da una costante che è quella della stoppata. Nella stoppata Cosic trova la sua massima realizzazione come difensore e la migliore soddisfazione. Questa caratteristica, unita al fatto che la difesa aggressiva non è quella che preferisce, portano inevitabilmente a fare una distinzione ben precisa nella valutazione di Cosic difensore. Se infatti si può affermare che nella difesa individuale il pivot della Sinudyne non è quello che abitualmente si definisce un mastino, non rappresenta uno spauracchio, nella difesa a zona è una sicurezza. Chiunque vuole costruire una difesa a zona coi fiocchi non può non indicare in lui il perno ideale. La sua mobilità, il tempismo, l'esperienza e i suoi lunghi tentacoli sempre pronti a stoppare tutti i palloni sono le armi che fanno di lui un baluardo quasi insuperabile. Ho detto prima che Cosic è un giocatore che si gasa: mi spiego meglio. Come carattere Creso ricorda un po' i giocatori brasiliani, il cui rendimento è particolarmente influenzabile a seconda dell'andamento dell'incontro e della propria prestazione personale. Se infatti riesce a giocare dando spettacolo e sollevando l'entusiasmo del pubblico, Cosic diventa incontenibile. Diversamente, si limita a fare la sua parte, che comunque è sempre ragguardevole, senza dannarsi troppo. Il suo esaltarsi è comunque estremamente produttivo e in quei momenti dare la palla a lui è un po' come metterla in cassaforte: sai quasi con certezza che finirà nella retina o nelle mani di un compagno smarcato sotto canestro.
Come uomo lo conosco attraverso quei pochi momenti che le varie manifestazioni cui abbiamo partecipato ci hanno concesso. Lui è certamente lo jugoslavo con cui si parla di più, il più cordiale e il più gentile. Con gli slavi noi italiani ci siamo sempre limitati al minimo indispensabile nei contatti extra-gioco perché la rivalità è sempre stata sentita molto. Anche coi russi c'è rivalità, ma psicologicamente li abbiamo sempre considerati come una realtà lontana dalla nostra, una cosa a parte.
Con Cosic abbiamo però sempre avuto rapporti estremamente cordiali, grazie soprattutto alla sua gentilezza e l'affabilità del suo carattere. La religione che ha abbracciato lo qualifica di per sé come uomo e possiamo star certi che se è corretto in campo lo è altrettanto nella vita privata. Se lo incontri venti volte al giorno sicuramente venti volte ti saluta. Nella rivalità con gli slavi (ci tengo a non essere frainteso) non è che ci sia qualcosa di personale con questo o con quello, solamente sentiamo molto l'incontro, è una cosa di pelle; e poi c'è da dire che battere gli slavi vuol quasi sempre dire arrivare primi o secondi.
Per concludere il ritratto di Kresimir Cosic, bisogna dire che, nonostante a volte possa dimostrare di non impegnarsi fino alla morte o di prendere sottogamba un incontro, è un giocatore che nelle partite che contano c'è sempre e non si tira mai indietro, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. Anche a Manila sembrava che fosse sotto tono e nelle partite di qualificazione si era cominciato a parlare del suo cattivo stato di forma e della sua parabola discendente. Nel girone finale abbiamo visto poi cosa è stato capace di fare. A Liegi è stata la stessa cosa e nelle partite chiave, contro di noi e contro i Russi, è stato insuperabile.
Con lui non ho mai avuto sconti, né in campo né tantomeno fuori: è un giocatore di classe e con chi gioca di classe non fai a cazzotti.
Cosic come rimane nella memoria di molti: in lunetta a dispensare assist ai taglianti
KRESIMIR COSIC
di Gianfranco Civolani - da Giganti del Basket - luglio 1979
Cioso non beve, e va bene. Cioso non fuma, e va bene. Cioso non va a donne, e no, non va bene, orrore e disdoro si grida in città, vergogna delle vergogne, proclamano i maschilisti, i gaudenti, diciamo pure i tradizionalisti. Quella pellaccia di Martini prende la palla al balzo. “Ma tu, Cioso, non hai mai quel prurito?”. “Quale prurito, caro, dimmi tu quale”. “Cioso, ma a te le donne fanno schifo?”. “Dipende da tua sorella. Tu me la porti qui, io valuto attentamente e poi semplicemente vai a chiedere a lei, a tua sorella”. Testuale, penso possa dare l'idea del personaggio.
E poi d'accordo, pare che il signor Cioso abbia le sue regole, ma forse è il caso che intorno al personaggio facciamo un viaggio serio, circostanziato, non il solito viaggio da cartolina. La Sinudyne lo va a reclutare d'estate. Ci vanno il duce e il suo vice, il duce truce insieme a Rovati. Quanto vuoi, voglio tanto, va bene per questo tanto, vi informerò presto, ciao e grazie. Cioso è un professionista in ogni sua espressione. Sceglie correttamente il club che lo ha interpellato per primo e ovviamente sarà disponibile dopo Manila. Incontro Nikolic una sera, Manila è appena alle spalle. “Dimmi qualcosa di Cosic”. “Cioso fatto molte porcherie”. “Impossibile”. "Sì, porcherie che atleta non deve fare”. “Ripeto che è impossibile”. “Ma tu pensi sempre a quelle porcherie là. No, lui non preparato campionato come si deve, lui passato estate poco pensando a pallacanestro, lui Sinudyne soffrirà molto”. E infatti soffre al punto di far pensare se è stato giusto prenderlo qui quando ha già trentun'anni e sembra l'immagine spenta del giocatore che fu. Il duce truce ha una fede incrollabile, ma la Sinudyne perde un po' di partite, Cioso ciondola per il campo, qualche volta nemmeno segna un punto. Ha male un po' su e un po' giù, che gentiluomo, che gran signore, che esempio d'uomo, ma che gran montagna di pillole, che farmacia. Figuratevi che al duce truce arrivano telefonate molto sinistre. Minacce, pernacchi, lo sfogo di gente di poca fede. Io stesso scrivo che con le vagonate di milioni che la Sinudyne si ritrova in cassa, beh, Cioso più Wells sono un po' poco, a occhio. Poi facciamola corta: saranno state fatte le profezie di professor Aza, sarà che Cioso è una lenza capace di dare il meglio quando la posta in palio conta doppio, sarà che tutto il congegno ordito da Driscoll-Zuccheri comincia a dar frutti a gioco lungo, sarà che la classe non è acqua, si diceva una volta.
Sì, ma il personaggio? È mormone, militante mormone, ma non vescovo. E non è vero che passa le sue giornate andando a far prediche porta a porta. È impastato di dottrina e non disdegna fare qualche sermone nella sua sacra chiesa, tutto qui. E si accultura quotidianamente, frequenta quelli della sua setta, ha amici-confratelli nel mondo intero. A Bologna frequenta un corso di storia economica, raramente legge Topolino, nel senso che si distende approfondendo temi ponderosi e immergendosi sistematicamente nella materia. E vive religiosamente, nella sostanza dei fatti. Altruista, molto portato a sostenere il prossimo, pieno di soldi che tranquillamente disperde per la santa causa. Ha la famiglia a Zara, spesso fila a casa con la Jaguar, altre volte punta su Zagabria, affari di stato, il suo stato. Ogni estate fa un volo nello Utah, laddove i mormoni hanno tutto e sono tutto, banchieri, latifondisti, straricchi da morire.
Volete saperne ancora? Cioso ovviamente è amico di Steve Hawes (mormone), ma pure di Wells e immaginatevi il perché. Ma perché un nero può essere pure sbordellone come lo strampalatissimo Owen, ma dite quando mai un nero non incontra i soliti problemi esistenziali e Cioso è vescovo nell'anima, pardon, sacerdote pastore, per dirla meglio. Cioso è uomo amabile, ha la parola giusta per tutti, in politica non si sbilancia (ma non è comunista, diciamo che è socialista utopista), nei rapporti interpersonali con i suoi datori di lavoro ci mette professionalità e sempre personalità vincente. Narrano i virtussologi che il duce truce sia stato affascinato e soggiogato dal carisma del sacerdote, non aggiungo altro. Guadagna sui cinquantotto milioni l'anno, paga regolarmente le tasse, fate voi il conto, una ritenuta secca del venti per cento. Gli piace vestire con proprietà, il casual non lo affascina, è laureato in sociologia, resterà a Bologna un altro anno, poi si vedrà. O coach oppure ciò che suggerirà la mormoneria, dipende.
Il giocatore non credo di dovervelo raccontare. Mi dice Rovati che stiamo rivedendo il Cioso dei tempi andati, quello che tirava quindici volte a match, quello che faceva il boia e l'impiccato, quello che calamitava il pallone per l'intera comunità, ma anche spesso per sé. E mi rendo conto che questo ritratto vien fuori un po' scompensato e oratoriale, sembra l'immagine della Madonna, sembra una struggente cosa deamicisiana e dunque chiedo a Rovati se questa specie di Madonna ha putacaso un qualche mezzo difettino. “Ti giuro, più ci penso e non mi viene in mente niente di limitativo. È molto furbo, ma non è un difetto. Gli piace astrarsi spesso dal basket, ma non è un difetto. Non va a donne, ma siamo noi che diciamo che sarebbe un difetto". Cioso mi scusi, ma approfondisco solo un attimo questa faccenda. Pare che i mormoni non possano frequentare donne prima e al di fuori del matrimonio. Semplice: Cioso non è sposato, semplice per chi ci riesce. E lui come ci riesce? Gliel'hanno chiesto, qualche curioso gli ha domandato come respinge le tentazioni e lui, serissimo: “Quando ho certi pensieri, spingo un bottone nella mia testa, mi concentro al massimo e cambio pensieri, tutto qui".
Krezimir Cosic alias Cioso oppure Kreso oppure Barbazza. Come mai Barbazza? Ecco perché. Cioso stava penando in Sinudyne, una sera giocano Harris e Canon, all'ultimissimo istante vince la Canon con un rocambolesco tiraccio di Barbazza da metà campo. Rovati sta con Cioso e gli fa: “Impara da Barbazza, vedi se ti riesce di stargli all'altezza”. Qualche mese dopo Cioso entra in argomento, fa delirare i fans, un pomeriggio infila cinque centri consecutivi da lontano, Rovati lo soffoca nell'abbraccio e lui con il ghigno del figlio di buona donna: “Angelo, ti prego, dimmi che valgo almeno quel Barbazza là”.
CRESO
di Enrico Campana - tratto da "Il cammino verso la stella"
Il fisico pericolante, da betulla malata. La magrezza impressionante, l'incarnato cenerino, la miopia che rasentava la cecità. Quando Cresimir Cosic mise piede a Bologna sembrava abbastanza consumato per far sognare lo scudetto. Dimostrava almeno 10 anni di più della sua età e il peso di 15 anni di fatiche gli avevano imbiancato già molti capelli e disegnato sulla schiena una vaga gobba. Non ricordava proprio il Creso, l'Apoxyomenos di Lisippo, la famosa cultura del superbo atleta che si deterge dall'unguento. Sembravano non bastare le referenze, i suoi trascorsi alla Brigham Young University, la gran messe di titoli conquistati con la maglia "blu" della Jugoslavia e le storie sulla sua conversione, quando l'hippie sregolato sulla via Damasco ebbe la visione della fede e, abbracciata la religione mormone, ne divenne ministro di culto col grado di vescovo.
Bastarono le prime partite perché mezza Bologna gli gridasse di tornarsene a casa, o lo schermisse chiamandolo "gatto mormone". Qualche giocatore geloso aveva già preso a fargli la guerra.
Quell'estate del 1979 Dan Peterson e la società si erano accorti di essere diventati due amanti freddi. Si lasciarono consensualmente. Terry Driscoll, guerriero bostoniano, cantò l'ultima volta come un vecchio cigno ma venne deciso di riciclarlo come allenatore, per via della sua leadership, l'ascendente sui giovani compagni. Giovane la squadra, tutto da scoprire l'allenatore, serviva un nome prestigiosa, una fulgida star in grado di suscitare i giocatori e terrorizzare i nemici.
Cosic era un mito mondiale, ma quando si presentò in pelle e ossa, Bologna, abituata a smitizzare, non mancò di ironia e perplessità. Eppure la sera che si recò fino a Nys, sperduta città della Jugoslavia, sulle tracce di Kresimir Cosic, Porelli stentò a credere ai propri occhi penetranti, da incallito pokerista. Dovette per ben due volte, l'avvocato, passare le mani sulle palpebre per rendersi conto che non si trattava di un sogno. Quando lo speaker si soffermò sul nome di "Cioso", il pubblico cominciò a battere le mani con insistenza. Il frastuono durò per parecchi minuti. Fosse comparso il maresciallo Tito, amatissimo dal suo popolo, l'entusiasmo, l'eccitazione non sarebbero stati superiori. Porelli deglutì soddisfatto, cercò di non sottilizzare troppo sul rachitismo di quel giocatore che, peraltro, quando entrava in possesso della palla assumeva per incanto una bellezza, una luce tutta sua, fra l'angelico e il diabolico.
La piazza bolognese che attende le partite della Virtus come il concerto di un grande pianista o la recita dell'attore consumato, sembrava dunque accontentata. In più Cosic avrebbe tenuto a bada Dino Meneghin, come nemmeno avevano saputo fare i grandi pivot statunitensi. Rimaneva da verificare il rapporto fra Cosic ed i compagni dentro e fuori dal campo. Il Vescovo avrebbe tenuto le sue prediche, mostrato lo stesso carattere bisbetico di quando cercava d'imporsi dialetticamente agli altri fuoriclasse jugoslavi, a Kicanovic, Dalipagic, Delibasic, Slavnic e, per la mania del funambolismo, faceva impazzire il povero professor Nikolic?
Dopo i mondiali di Manila, vinti dallo squadrone jugoslavo, Cosic arrivò direttamente a Bologna segnato dai duri scontri sotto canestro contro i panzer russi come Tkachenko. Comparvero, allarmanti, le prime enormi fasciature elastiche ed i tifosi bolognesi che si aspettavano lo showman, schiavi di un certo stereotipo, rimasero sconcertati. Cosic non faceva i numeri, non segnava, preferiva lasciare ai più giovani compagni le responsabilità del tiro. Un giocatore come un altro, un tipo assolutamente normale. Dopo diverse partite andate male o stentate, dopo alcune partite disertate per acciacchi vari, la gente pensò davvero di essere stata presa in giro. Cominciò il crucifige. Il partito di coloro che avrebbero voluto rispedirlo a casa s'ingrossava di giornata in giornata. Creso faceva finta di non sentire. Continuava ad allenarsi quel tanto che bastava per giustificare la doccia e vedere di non pregiudicare ulteriormente le sue ossa ormai porose, ostentava ugualmente allegria e serenità sfogandosi nelle letture più disparate, in italiano, inglese e jugoslavo e appoggiandosi alla fede nella sua chiesa, proprio due passi oltre piazza Azzarita. Intanto Villalta, Caglieris, Bertolotti prendevano dimensione della loro forza; lo scomposto, elettrico Generali, veniva etichettato dai cronisti come il Myshkin italiano. E il nero Wells, ingaggiato da Driscoll per l'unico merito di essere stato suo vicino di casa a Boston, riusciva a mascherare accettabilmente i suoi colossali limiti.
Una domenica mattina Cosic, col suo paletot di cammello ripiegato sul braccio, venne preso di mira da Caglieris mentre assisteva agli allenamenti della squadra. Caglieris si fece portavoce dei compagni che non trovavano giusto che loro faticassero elo jugoslavo no. Senza scomporsi, con quella sua candida e tagliente ironia, Cosic gli rispose così: "Caro Charly, per costruire le case ci vogliono i muratori e gli architetti; tu sei il muratore ed io il tuo architetto". Caglieris e tutta la squadra capirono la lezione, Cosic portò due scudetti. La sua grandezza fu quella di fare grandi i compagni e la società che provava dopo secoli di pugni nei denti l'ebbrezza di un mini-ciclo tricolore.
Cosic fu play e pivot, lampo e tuono insieme. Uomo di pensiero, ma anche di azione. Diresse la squadra, ma seppe prenderla per mano come quando, nella partita scudetto di Milano, plagiò i compagni e l'inerme Billy. Era talmente bravo, il Vescovo, da non aver nemmeno bisogno di dimostrarlo con i due punti. Insegnò anche alla gente a riconoscere la tecnica: il passaggio, la chiusura difensiva, il tiro a sorpresa. Diede luce all'intera squadra. Purtroppo qualcuno, ignorando il calcolato altruismo di Cosic, credette di essere ormai abbastanza adulto, e forte per poter dettare le proprie condizioni. Serpeggiava la gelosia e Cosic raccolse le sue due casse di libri e se ne andò in punta di piedi, senza clamore, come quegli angeli custodi che nei film di Frank Capra assumono sembianze umane e spariscono al momento giusto, quando capiscono di non essere più graditi. Per la cronaca, Bologna ha dovuto aspettare la stella altri quattro anni, fino a quando, un bel giorno è ricomparso un angelo custode del tutto simile all'indimenticabile Vescovo: Jan Van Breda Kolff. Che sia merito, forse, dei buoni uffici di Cosic presso il paradiso? A Bologna, infatti, anche molti di quelli che lo contestavano, lo ricordano e lo venerano ancor oggi come una specie di santo o di predicatore scalzo.
IO, IL GATTO MORMONE
di Kresimir Cosic - VNere - 11/11/1990
Arrivai a Bologna nell'estate 1978, forte di un titolo iridato appena vinto a Manila, con la Nazionale jugoslava. Avevo 31 anni e, alle spalle, una carriera ricca di successi; altri ne sarebbero arrivati in seguito, ma quel giorno non potevo certo immaginarlo. Ero un "nome" della pallacanestro europea, lo posso affermare senza falsa modestia, eppure al mio arrivo sotto le Due Torri molti si dichiararono scettici: credo che due anni con la maglia bianconera abbiano poi dato ragione all'Avvocato Porelli, che mi aveva voluto a tutti i costi. Devo dire che, nei primi tempi, non feci molto per scrollarmi di dosso quella patina di sospetto che ricopriva il mio nome: stanco per il superlavoro estivo giocai diverse partite sotto il mio standard abituale. Nel corso di una gara esterna, mi pare a Varese o a Cantù (nota di Virtuspedia: era Vigevano) - non ricordo bene - non segnai neanche un punto e qualcuno prese a chiamarmi, non sempre scherzosamente, "Mister Virgola", avendo letto il tabellino di quella partita dove, anziché un numero, era quel segno di interpunzione a seguire il mio cognome. Comunque, pian piano, il gioco (anche quello della squadra) andò progressivamente migliorando, al punto che finimmo la stagione regolare al secondo posto, staccati di soli due punti dall'Emerson Varese del solito Meneghin. Molti, e io fra questi, pregustavamo già una riedizione del duello che anni prima aveva incendiato l'Europa, invece il destino volle che io e Dino non ci trovassimo più di fronte, quell'anno. Varese, infatti, fu eliminata dal Billy Milano. Noi, invece, dopo esserci sbarazzati di Siena e Rieti arrivammo all'appuntamento decisivo per il tricolore.
Del primo incontro, a Bologna, ricordo poco, forse perché il risultato non fu quasi mai in discussione. Più nitida nella mente ho invece la seconda partita, quella la palazzone di Milano, che oggi non c'è più. Credo di non aver mai assistito ad una dimostrazione di potenza cestistica come quella evidenziata dalla Sinudyne in quella gara, specialmente all’inizio del secondo tempo. Il Billy fu travolto, annientato da una Virtus che non sbagliava niente, che azione dopo azione incrementava il vantaggio dando l’impressione di giocare in scioltezza, quasi con facilità. Veramente incredibile. Qualcosa del genere capitò anche l’anno successivo, quando la Sinudyne, rinforzata da Jim McMillian andò a vincere a Cantù il suo nono scudetto. Il secondo consecutivo. Ancora oggi mi domandano quale fosse il segreto di quella squadra, vittoriosa per due anni di fila. Nonostante certe voci quando ci ritrovavamo al riparo da occhi indiscreti, prima di una gara, sapevamo guardarci negli occhi. In campo, poi, io, Villalta, Caglieris, Bertolotti e gli altri avevamo una gran voglia di giocare sì per noi stessi, ma anche a beneficio della squadra tutta. Comunque, in quella formazione non ci sarebbe stato spazio per i personalismi: c’era l’avvocato Porelli a garantire l’ordine e il bene comune. Conservo un eccellente ricordo di quegli anni e delle battaglie con i vari Kupec, Meneghin, D’Antoni e Sylvester. Quest’ultimo, poi, l’ho ritrovato come giocatore della Virtus nel corso della mia purtroppo breve esperienza di allenatore. Di questa, consentitemi di non parlare, se non per confessarvi che la gente di Bologna mi è rimasta nel cuore: mi ha amato quando ho dato tutto quello che potevo; forse ha compreso che, più tardi, non ero più in grado di fare altrettanto. Se intendo tornare a Bologna? Beh, sto proseguendo nella mia carriera di allenatore e, per il momento, mi trovo molto bene anche ad Atene. In Grecia i tifosi sono speciali, si identificano quasi con la squadra, soffrono a dismisura come forse non accade nemmeno nei college americani o nei palazzetti della NBA. Sono caldi, perfino troppo, per un tranquillo vescovo mormone avanti negli anni come il sottoscritto. Per concludere, permettetemi di mandare un saluto e un augurio al mio amico Ettore Messina: finora la sua squadra è stata molto sfortunata, ma quando tutto tornerà alla normalità riprenderà a vincere. E io sarò ancora orgoglioso di aver indossato la Vu nera.
Il monumento a Cosic nei pressi del porto di Zara
ADDIO MAGICO VESCOVO
Superbasket - 30 maggio 1995
Giovedì 25 maggio, al Johns' Hopkins Hospital di Baltimora, a 47 anni è morto Kresimir Cosic. Circa un anno fa aveva saputo l'esatta diagnosi del male che l'aveva colpito, un linfoma, una forma di cancro che aggredisce le ghiandole linfatiche. E la notizia aveva suscitato clamore e tristezza anche in Italia, dove Creso aveva lasciato ricordi ed amici. Ricoverato in un primo tempo alla clinica universitaria di Georgetown, successivamente era stato trasferito a Baltimora, dove poteva sottoporsi alle terapie più avanzate.
Kresimir "Creso" Cosic, 211 centimetri di altezza, era nato il 26 novembre 1948 a Zagabria, ma fu stella dello Zadar e della famosa "scuola zaratina", dalla quale è uscito anche Arijan Komazec. Lasciò Zara per trasferirsi negli Usa e studiare alla Brigham Young University, l'ateneo dei mormoni, dove abbracciò la nuova religione che gli conferì il ruolo di vescovo-missionario.
Nel '73 venne scelto al 5° giro nei draft dai Los Angeles Lakers, ma preferì tornare in Jugoslavia. Dopo i Mondiali del '78 a Manila e due scudetti vinti in patria, arrivò a Bologna e portò la Sinudyne al titolo tricolore nel '79 e '80 (Wells e McMillian gli stranieri del tempo). Trasferitosi a Zagabria, giocò nel Cibona e lasciò il campo nell'83 per diventare allenatore. Rinnovò la squadra da cima a fondo dopo la disfatta di Nantes, a lui si deve il lancio dei vari Petrovic, Vrankovic, Paspalj. Un'esperienza breve ma importante per la scuola slava, anche se sullo sfondo già s'intravedeva lo spettro del conflitto serbo-croato. Più di una volta Belgrado mise i bastoni fra le ruote al croato (e mormone e cattolico...) Cosic, che tornò a Bologna nell'88 per guidare la Virtus del rinnovamento.
Cosic si scontrò però con l'ambiente per le sue teorie innovative ed il carattere molto determinato, trovò all'interno del sistema resistenze di ogni genere da parte dei collaboratori che portarono ad un inevitabile quanto amaro divorzio.
Ha disputato 5 Olimpiadi (medaglia d'oro a Mosca), vinto 2 Mondiali e 4 Europei, più volte selezionato per il resto d'Europa, è stato allenatore della nazionale di Jugoslavia agli Europei '87 di Atene.
Viveva a Washington, dove ricopriva per meriti particolari la prestigiosa carica di viceambasciatore della Croazia.
CARO KRESIMIR, INDIMENTICABILE
A Zagabria l'omaggio al grande Cosic di Brunamonti e Carera Tanjevic: "A Bologna una partita per ricordarlo"
di Lorenzo Sani - Il Resto del Carlino - 03/11/1995
La pioggia è un flagello lontano sulla collina di Mirogoj vestita con le mille sfumature dell'autunno, una lunga strada che sale, involontaria metafora della vita, approdo tormentato dai tornanti che regala la pace, il silenzio e la carezza del vento freddo, dominando i tetti di Zagabria, forse l'unica città al mondo che riesce ad uscire sorprendentemente più bella e viva dagli anni della guerra.
Due amici sono là sulla collina, a ricordarci che siamo tutti sospesi ad un filo sottile ed è come se le ombre invisibili del loro ricordo ci invitassero a non buttare via i giorni, le ore, a non sprecare le occasioni e il tempo che purtroppo per tutti si ferma una volta soltanto. Due amici sono là, uno in più dell'anno scorso, Kreso Cosic dopo Drazen Petrovic nel giorno che fa di Mirogoj la città del ricordo.
"Perché non andiamo a trovare Kreso", dice Robby Brunamonti. "Posso venire anch'io", chiede Flavione Carera che non ha avuto bisogno di spezzare il pane con Cosic per mettere a nudo la sua anima sensibile e pulita. Partiamo dopo pranzo, quando Zagabria si ferma e nella testa iniziano a frullare i pensieri. Un tappeto di ceri e fiori ci spalanca la strada che porta a Drazen, centinaia di fiammelle che punteggiano la fotografia di Petrovic in azione con la maglia numero 4 della Croazia. Papà e mamma sono là che mettono un poco di ordine al caotico abbraccio di tante facce comuni. "Grazie di essere venuti", sussurrano in italiano stringendoci le mani. "Ieri è stata una cosa incredibile commovente, una processione interminabile di gente, tutti hanno lasciato qualcosa, un fiore, una candela, una preghiera. È affetto sincero, che ce lo fa sentire ancora un po' vivo in fondo al cuore. Avrebbe fatto 31 anni il giorno che siamo tornati da Londra, il 22 ottobre".
Un centinaio di passi nel silenzio, prigioniero dei ricordi che si affastellano disordinatamente, Robby, Flavio, Maurizio Roveri, il papà di Drazen che ci accompagna, il rumore delle foglie secche, in fila indiana, verso la cappella degli eroi nazionali che hanno fatto grande la piccola Croazia. Là è sepolto Kresimir, una croce di legno, lapide provvisoria, tra quelle di poeti, scienziati, scrittori, musicisti. Un altro fiore che si posa, quelle ultime parole che tornano a tormentare l'anima, la sfacciataggine con cui ha sempre preso la vita. "Ora sto bene, mi hanno detto che ho un tumore, ma l'abbiamo preso in tempo. Credimi, stavo peggio prima quando non sapevo cosa avevo; vedrai - diceva agli amici e l'avrà ripetuto cento volte a Boscia Tanjevic che ha lanciato l'idea di una partita amichevole a Bologna in ricordo dell'indimenticabile e disincantato eroe della V nera - torneremo a fare le nostre lunghe chiacchierate, torneremo a ridere come cavalli pensando al tempo che è passato, a questa brutta storia, vedrai come sembreranno leggeri questi giorni quando tutto sarà finito e potremmo finalmente passeggiare per ore fino senza stancarci".
Il profeta di due scudetti bianconeri adesso è lì, tra un tappeto di luce e colori, sotto la croce di legno che rammenta come un'ingiustizia i suoi anni, 46, il giorno in cui è entrato per sempre nel ricordo, 25 maggio 1995. Di fronte ha ora gli occhi di Robby e Flavio che portano un pezzo di sé stessi e della propria Virtus, dopo essere stato accompagnato sulla collina di Mirogoj dai massimi onori di stato, dall'abbraccio di Gigi Porelli, Renato Villalta, Oscar Eleni, da tanti volti noti venuti anche dalla Serbia e dalle altre repubbliche di una Jugoslavia che non esisteva già più, come se per un giorno, per l'ultima incredibile magia scaturita dal cervello infaticabile di Cresimiro, la guerra non fosse mai esistita, rimpicciolita in un incubo assurdo e lontano. Una vita spesa di corsa, le cene con Peppino Cellini che ieri ci guidava la mano da Via Orfeo, cuore di Bologna, posando il fiore, le chiacchiere interminabili: date una lezione a Kreso e lui vi rivolterà il mondo davvero, almeno ci proverà, poi non si sa cosa succede, potete giurarci, le sue vittorie da giocatore, lo scudetto contro la banda bassotti del Billy di Dan Peterson nel 1979 insieme ad un altro amico che ci ha abbandonato un anno prima, Owen Wells, il secondo sigillo contro Cantù l'anno successivo, quella zona tre-due della coppia Driscoll-Zuccheri con Kresimir in mezzo alla ragnatela inestricabile di una prima linea che nessuno riusciva ad attaccare, decine di foto in archivio al Carlino, mai una in cui il gigante croato saltasse, sempre sulla punta dell'area, il pallone lassù, in mano, per aria, dove arrivava solo la neve, il playmaker più alto del mondo, 211 centimetri, puntuale quando bisognava vincere, meno quando bisognava soffrire in allenamento. Meglio un buon libro, avrà pensato. Le sue scommesse da coach della nazionale, Divac, Kukoc, Radja, buttati in prima squadra da bambini che quasi lo lapidarono al ritorno in patria quando perse la semifinale dei mondiali di Spagna nel 1986, ultimo successo americano prima del Dream Team, contro l'Urss di Gomelski con 9 punti di vantaggio a 47 secondi dalla fine. Tre pugnalate dalla lunga, Tikhonenko, Tarakanov, Sabonis, bomba dell'overtime di tabella. Kreso sulla graticola, né più né meno come a Bologna nell'anno del ritorno da coach e delle sue nuove scommesse, Leo Conti, Paolino Cappelli, Emilio Marcheselli contro Corbalan, che forse fu anche il migliore dei suoi, l'Emilio, in quella notte col Real. Una notte come tante, una notte un po' così.
La scultura eseguita da Anto Jurkic e posata davanti alla tomba nel 1996
(foto tratta da www.zagrebbacki.info)
LO RICORDANO COSI'
Boris Stankovic: "È stato il giocatore più determinante di tutti i tempi".
Gianluigi Porelli: "Un genio di tecnica e cervello nato per vincere, farò qualsiasi cosa di cui la famiglia abbia bisogno".
Renato Villalta: "Sembrava un matto, in realtà era un fenomeno in campo e nella vita".
Marco Calamai: "Il più grande pivot mai esistito, un uomo problematico e dunque molto intelligente".
Alberto Bucci: "Quanto era grande, come per tutti i grandi, lo si è capito quando è andato via dalla Virtus".
Roberto Brunamonti: "Mi ha dato sicurezza, insegnandomi ad esprimermi al meglio".
Dado Lombardi: "Sono d'accordo con Tanjevic, ha creato la scuola jugoslava anche se il nettare l'hanno bevuto gli altri...".
Kresimir Cosic Hall a Zara
(foto fornita da Paolo Grazioso)
UN RICORDO DI CRESO DA PARTE DELLA MOGLIE LIERKA E DI CHARLY CAGLIERIS
tratto dal libro "Slavi d’Italia" di Marco Valenza - Cantelli editore
Lierka attacca a parlare dell'ultimo periodo italiano di suo marito: «Quando allenava a Bologna fu una fase molto difficile della sua carriera. Lavorava tantissimo, ma non aveva fortuna, che è una cosa sempre necessaria nello sport. Penso che non sia stato capito come allenatore. Sapeva più di quello che gli altri potevano capire, era un genio incompreso e per questo soffriva. Bologna era una città bellissima, abbiamo tanti amici là. Ma Kreso non si è divertito tanto come quando giocava».
Quando arrivò a Bologna come giocatore suscitò immediatamente delle perplessità. Aveva 31 anni, ma fisicamente ne dimostrava di più ed il suo fisico iniziava ad essere provato dalle fatiche di una carriera che chiamava già 15 anni di professionismo. Col suo carisma e la sua personalità, si inseriva in uno spogliatoio di caratteri duri, che inizialmente non accettarono facilmente il suo estro. Apro una parentesi per un ricordo di Charly Caglieris: «Mi vengono le lacrime a parlare di Kreso. Credo di essere stato l'ultimo a sentirlo. Mi avevano detto che stava molto male e lo chiamai quando negli Stati Uniti erano le 11 del mattino. Mi risposero che stava dormendo e questo particolare mi insospettì. Riprovai due ore dopo, riuscii a parlargli. Aveva una voce che ricorderò per sempre. Provata, sofferta. Provò a tranquillizzarmi: era un grande d'animo, era lui a rincuorare i suoi amici. Ci eravamo dati un mezzo appuntamento per il futuro, appena si sarebbe rimesso: ma da lì a tre giorni sarebbe morto».
«Aveva una grossa personalità e, a Bologna, si inseriva in un gruppo di forti personalità. Un gruppo già formato e che aveva già vinto. Ci volle del tempo per trovare un'intesa, soprattutto col suo modo di fare. Noi eravamo grandi amici - prosegue Caglieris, campione d'Europa con la nazionale italiana, che oggi si è ritirato e vive a Torino - quando nacque mio figlio ed arrivarono i miei suoceri mi ospitò a dormire a casa sua e vi rimasi per una settimana. Lo rispettavamo, ma voleva primeggiare appena arrivato ed il gruppo non lo accettò subito benissimo. Per motivi religiosi la domenica mattina non voleva allenarsi. Coach Terry Driscoll impazziva, per nulla al mondo avrebbe cancellato la seduta di tiro e l'ultima riunione. Non è che Kreso non si presentasse in palestra, lui veniva, ma col vestito buono, perché magari era appena reduce dalla Messa, in giacca e cravatta, scarpe da passeggio: Stava lì, passeggiava a bordo campo, rideva. Andammo incontro ad un paio di sconfitte consecutive ed il coach gli intimò di presentarsi a tirare la domenica seguente. Kreso, da buon professionista, si presentò: in giacca, cravatta, ma scarpe da ginnastica ai piedi. Era il suo modo di dire: sono pronto, tiriamo. Un'altra volta gli dissi qualcosa io e l'episodio divenne famoso. Ogni tanto aveva la mania di prendere il rimbalzo e partire in contropiede palleggiando. Si vede che quella volta lo fece un po' troppo. Eravamo in allenamento, lo avvicinai e gli dissi: Kreso, sei bravo, ma sei 2,10; dai la palla a me, che sono 1,80, faccio il play e so palleggiare. Lui mi rispose con una frase rimasta celebre: "Caro Charly, per costruire le case ci vogliono i muratori e gli architetti; tu sei il muratore ed io il tuo architetto"».
Come sempre accade per i grandi miti, non si capisce fino a che punto tutto ciò è realtà e quanto sconfina nella leggenda. Ad esempio, Lierka sostiene che sia una favola quella degli allenamenti saltati alla domenica mattina. «Non era nello stile dei mormoni sottrarsi a degli impegni professionali. La religione gli imponeva di fare tutto ciò di cui la squadra aveva bisogno, sempre che fosse nelle sue possibilità fisiche. Se ha saltato qualche allenamento fu solo perché riteneva che non fosse utile al suo fisico ormai ultratrentenne e che il riposo prima della partita gli giovasse di più», spiega Lierka. Vent'anni dopo, una cosa del genere la fa anche Michael Jordan e si parla del mito capace di autogestirsi per mantenersi a livello d'eccellenza, non certo di pigrizia. Smise di giocare quando aveva vinto tutto ed aveva perso un po' di motivazioni: era stanco, ad essere il numero uno si prendono tante botte; era sempre al centro dell'attenzione. «Voleva fare un'altra cosa, era allegro, motivato, iniziò a scrivere la sua autobiografia. La decisione di lasciare il parquet non fu sofferta», ricorda Lierka.
COSIC NELLA HALL OF FAME
tratto da Il Resto del Carlino - 22/02/1997
Non sono tanti i campioni, pensando alle stelle sfilate sui parquet italiani, che hanno avuto l'onore di essere eletti nella "Hall of Fame" di Springfield. Tra questi c'è anche Kresimir Cosic, che tra l'altro figura pure sulla copertina dello yearbook 1996 della stessa Hall of Fame con Nancy Lieberman-Cline, Gorge Gervin, Gail Goodrich, David Thompson e George Yardley. Per capirci, nel tempio museo degli immortali allestito nella città del Massachusetts, dove il basket fu inventato da mister Naismith ormai più di un secolo fa, è custodito il nome di un solo italiano, Cesare Rubini.
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Solo figure eccezionali ricevono tale riconoscimento. Ma è un grande onore anche per un club poter annoverare, tra gli atleti che hanno indossato la propria maglia, anche un campione assunto a tale importanza.
Kreso ha portato nella Casa della Gloria anche un pezzetto di storia bolognese.
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Cosic sullo yearbook 1996 della Hall of Fame
Cosic e Pozzati, quando l'arte, il basket, la Virtus s'incontrano
di Ezio Liporesi per Virtuspedia
Concetto Pozzati giocava nelle giovanili Virtus agli inizi degli anni '50, disputando anche qualche amichevole con la prima squadra, a quei tempi Cosic aveva pochissimi anni. Poi Pozzati divenne un artista di fama internazionale, in particolar modo come pittore. Nel frattempo Cosic cresceva e faceva ben presto balenare il suo talento, la sua classe, divenendo uno dei più forti giocatori europei di tutti i tempi, con il suo basket fatto di tecnica, di creatività, di fantasia. Porelli lo portò a Bologna e furono due scudetti in due anni, ma soprattutto furono due stagioni di bellissimo basket. Tornò a Bologna da allenatore, per un'altra stagione, ma purtroppo la sua vita s'interruppe troppo presto e dal 1995 riposa nel cimitero sopra Zagabria, mentre quella di Pozzati ha seguito il suo corso tra riconoscimenti sempre più unanimi, lasciando spazio negli ultimi anni anche a qualche rimpatriata con i vecchi amici del basket e con la sua Virtus. Il 20 febbraio 1997, in occasione della gara Virtus - Croatia Spalato, i giornalisti bolognesi consegnarono alla moglie di Cosic, Ljerka, un'opera d'arte, come omaggio al grande campione scomparso. L'applauso del pubblico fu lunghissimo e commosso. L'autore di quell'opera era un artista che aveva generosamente raccolto l'invito dei giornalisti: Concetto Pozzati. Due giocatori della Virtus, due grandi artisti, vedevano le proprie storie unirsi simbolicamente sul campo di Piazza Azzarita.
Ljerka Cosic con la statua di Concetto Pozzati donatale dai giornalisti bolognesi
(foto tratta dai microfilm de "Il Resto del Carlino")
RICORDANDO CRESO COSIC, GENIO D'EUROPA
Vicino Zagabria oggi viene celebrata una messa per lo straordinario fuoriclasse della Virtus morto cinque anni fa
Di Lorenzo Sani - Il Resto del Carlino - 25/05/2000
Cinque anni fa moriva Creso Cosic. Oggi pomeriggio, in una chiesa non lontana dalla collina di Mirogoj che domina Zagabria, dove riposa tra i grandi di Croazia, tra musicisti e scrittori, a poche decine di metri da Drazen Petrovic, lo ricorderà una messa. Lo ricorderanno la moglie, gli amici, le figlie Ane, già in nazionale juniores, Eva e il figlioletto Creso junior, 7 anni, che col papà non è mai riuscito a parlare, ma che anche in particolari movenze, non solo nell'aspetto fisico, sembra un incredibile clone.
Creso Cosic moriva a 46 anni dopo averci illuso, anzi convinto, per quasi tutto il breve corso della malattia, che il peggio fosse davvero passato. "Ora sto meglio", disse un giorno al telefono, dalla clinica universitaria di Baltimora. "So che ho il cancro e posso riuscire a curarlo. Qui sono bravissimi, è il miglior posto al mondo per curare il linfoma. Stavo molto peggio prima quando ancora non sapevo cosa avevo".
Creso era anche così. Disarmante. Rubando una metafora alla carovana del Giro, Creso era perennemente in fuga. Spesso da solo. Due metri e undici portati meravigliosamente anche in una decapottabile, nella vita è stato di tutto, vescovo mormone, funzionario dell'ambasciata croata a Washington, allenatore visionario e incompreso, ma sicuramente anche il giocatore europeo più speciale di sempre, patrimonio indelebile dell'umanità cestistica, non solo di una Jugoslavia che non esiste più, quello che per primo ha rivoluzionato il suo ruolo dimostrando che un pivot può essere al tempo stesso un ottimo playmaker.
Un oro olimpico, due mondiali, tre europei, solo per citare il metallo più prezioso vinto sul campo, arriva in Italia a 30 anni, nel 1978.
Due stagioni alla Virtus di Porelli, due scudetti. Poi chiude la carriera al Cibona con la Coppa delle Coppe 1982. Nel 1973, uscito dall'esperienza della Brigham Young University nel mormonissimo Utah rifiuta l'offerta miliardaria dei pro e firma un triennale con Zara per un appartamento di tre stanze e l'equivalente di 150 mila lire al mese.
Se la mettiamo sul piano dei soldi, che non sono mai stati il suo terreno di battaglia preferito, da allenatore gli andò peggio ad Atene: all'Aek vide solo le tre stanze. A cinque anni da quel 25 maggio 1995, guardando ad est verso i faggi e le betulle di Mirogoj, ripensando alle interminabili serate con Peppino Cellini - che coppia - all'ostinazione profetica con cui rivoluzionò le prospettive offensive di Robby Brunamonti, ma anche all'ardente coraggio col quale andò serenamente incontro al martirio in patria per aver lanciato in un mondiale '86, fermatosi alla semifinale con l'Urss di Sabonis, il 18enne Divac ed una nazionale baby con dentro i due Petrovic, Vrankovic, Cvjeticanin, troviamo tutto il senso della sfida con cui ha affrontato sempre la vita. Su ogni terreno. Col suo sorriso.
Bologna e Cosic, legate da un ricordo indissolubile, che nemmeno il difficile anno da alenatore, culminato con l'eliminazione nel playoff da parte della Fortitudo, è riuscito a scalfire. A differenza forse della lezione che ci ha lasciato. Oggi usa che i campioni dicano di sé stessi di essere il numero uno. Creso non ne ha mai avuto bisogno. Era un numero unico.
LA PARTITA IN RICORDO DI COSIC
di Ezio Liporesi per Virtuspedia
Il 24 giugno 2000, l'Italia affrontò una formazione denominata Cosic Friends. Molti i giocatori della Virtus o ex in campo: Abbio nelle file della nazionale, Danilovic, Binelli, Patavoukas, Nesterovic tra gli amici di Creso. La gara fu organizzata in memoria del campione croato, scomparso nel 1995. Alla partita presenziarono la moglie e i tre figli di Kresimir.
25 ANNI SENZA COSIC
Con la nazionale un oro e due argenti olimpici, due ori e due argenti ai mondiali, tre ori, tre argenti e un bronzo agli europei. Con le squadre di club sei titoli in Jugoslavia, cinque con lo Zadar e uno con il Cibona, con cui vinse anche tre coppe nazionali e una Coppa delle Coppe; fuori dalla ex Jugoslavia conquistò due scudetti con la Virtus Bologna. Inserito nel 1996 nella Hall of Fame di Springfield (addirittura in copertina nello Year Book di quell'anno), unico giocatore della Virtus ad avere avuto quest'onore, a Kresimir Cosic, nella città dei suoi primi trionfi, Zara, è dedicata una statua in prossimità del porto e la Cosic Hall, il Palazzo dello Sport. Tutto questo non racconta, però, che giocatore straordinario sia stato Kreso: la sua altezza, 210 centimetri, gli permetteva di catturare rimbalzi, schiacciare, stoppare; la sua visione di gioco gli consentiva di dirigere il gioco come un secondo play; le sue gambe lunghissime facevano del suo piede perno un'arma preziosa per materializzarsi a pochi passi dal canestro partendo da distanze impensabili; la sua fantasia gli faceva prendere tiri spesso imprevedibili, in controtempo, in gancio, anche da posizioni inusuali, come il 16 dicembre 1979 in un Virtus - Isolabella Milano 116-83, quando fu capace di segnare quarantadue punti e tentò l'uncino dall'angolo, la palla girò sul ferro e uscì, ma quel tiro non andato a bersaglio gli valse più applausi di quelli ricevuti per i canestri realizzati quella sera; la sua tecnica lo proiettava in contropiede come il più agile dei playmaker; le sue braccia lunghissime ponevano il pallone fuori dalla portata dei suoi avversari. Giocatore allo stesso tempo di classe, spettacolare, ma anche essenziale. In grado di tenere la squadra in partita nel primo tempo della sfida con Milano, che diede alla Virtus l'ottavo scudetto in gara due il 6 maggio 1979, segnando quattordici punti nei primi venti minuti, terminati 50 a 49 per i padroni di casa. Poi nella cavalcata trionfale della Sinudyne nel secondo tempo, 92-113 fu il risultato finale, si limitò a distribuire deliziosi palloni senza più tirare e a congelare il gioco tenendo il pallone ad altezze dove i normali giocatori non potevano arrivare. Dall'alto della sua modestia Kreso la raccontò così: "Ho semplicemente gelato il pallone: i piccoli lo fanno palleggiando, io ho la fortuna di avere le braccia lunghe e il pallone stava bene lassù". Non era più il Cosic all'apice della sua parabola agonistica, cominciava a soffrire di qualche acciacco, ma a Bologna vinse due scudetti in due stagioni lasciando il ricordo di uno dei più grandi transitati da queste parti, non offuscato dalla stagione passata sotto le Due Torri come allenatore dei bianconeri. Non ebbe neppure fortuna in quell'annata, perdendo Brunamonti proprio alla vigilia dei playoff, quando con l'inserimento di Macy, aveva finalmente trovato la quadratura del cerchio. Non ha mai, però accampato scuse: "La gente di Bologna mi è rimasta nel cuore: mi ha amato quando ho dato tutto quello che potevo; forse ha compreso che, più tardi, non ero più in grado di fare altrettanto". Anche in quel terzo anno trascorso a Bologna lasciò, però, il segno; lo si può leggere nelle parole di Brunamonti: "Mi ha dato sicurezza, insegnandomi ad esprimermi al meglio". Arrivò sulla panchina delle V nere dopo avere conquistato, alla guida della nazionale jugoslava, due terzi posti al mondiale (dopo una semifinale persa al supplementare contro l'URSS di Gomelski, una gara che la Jugoslavia aveva in pugno, avanti di nove punti a quarantasette secondi dalla fine) e agli europei, allenando giocatori come Drazen Petrovic, Kukoc, Divac e Radja. Croato di Zagabria, dove nacque il 26 novembre 1948, Kresimir ci ha lasciato il 26 maggio 1995. Riposa nel cimitero della sua città natale, non lontano da Drazen Petrovic.
Il 24 giugno 2000 per ricordarlo, la Nazionale italiana affrontò una formazione denominata Cosic Friends. Molti i giocatori delle V nere di allora o di Virtus precedenti in campo: Abbio nelle file dell'Italia, Danilovic, Binelli, Patavoukas e Nesterovic tra gli amici di Kreso. Alla partita presenziarono i tre figli di Cosic e la moglie Ljerka, a cui fu consegnato un dono dei giornalisti bolognesi, opera di Concetto Pozzati, altro ex giocatore virtussino, nonché artista di fama mondiale, scomparso a sua volta nel 2017. Tutte queste dimostrazioni di affetto sono un segnale di quanto Bologna e la Virtus abbiano amato Cosic; come già scritto Kresimir ricambiava questi sentimenti e lo ribadì in un'intervista che apparve nel 1990 sul periodico della Virtus, "V Nere", che si concluse così: "Sarò sempre orgoglioso di aver indossato la Vu nera".
IL TOCCO DI CRESO
Oggi, Kresimir Cosic compirebbe 72 anni, se il destino non ce lo avesse strappato nel 1995...
di Ezio Liporesi - Corriere dello Sport - Stadio - 26/11/2020
Dal maggio del 1995 riposa nel cimitero di Zagabria, dove nacque il 26 novembre 1948, la sua statua veglia sul porto di Zara, dove conseguì i primi trionfi cestistici e dove gli è dedicato anche il palasport, la Cosic Hall, il suo nome è dal 1996 nella Hall of Fame di Springfield (addirittura in copertina nello Year Book di quell'anno), ma la sua inarrivabile classe soprattutto vive nella memoria di chi lo vide giocare: giocatore unico per caratteristiche fisiche e per fantasia, in grado di padroneggiare i fondamentali con assoluta naturalezza, ispiratore del gioco dall'alto dei suoi 210 centimetri, implacabile esecutore quando andava a concludere con leggerezza le azioni più difficili. La sua struttura fisica lo aveva imposto come pivot e sotto canestro era il re, punti, rimbalzi, stoppate, schiacciate, una torre che danzava sul suo piede perno quando gli avversari provavano a contrastarlo, un cavallo imbizzarrito quando si faceva trasportare dall'ira inveendo contro arbitri, compagni o avversari che non potevano condividere la sua alta concezione del gioco; la sua genialità ha creato anche un'infinità di altre pedine nella scacchiera del parquet: volava in contropiede palleggiando come il più piccolo dei playmaker, innalzava e "nascondeva" il pallone ad altezze che solo le sue lunghissime braccia consentivano, ponendole in stratosfere ignote ai suoi frustrati avversari, tirava in controtempo, veleggiando nell'aria come sentendosi degno di un livello superiore, perché era conscio delle sue grandi doti, anche se non è mai venuto meno alla semplicità della modestia. Bologna ha avuto la fortuna di poterlo ammirare per due stagioni, immancabile numero undici sulla canotta Sinudyne, uno dei più grandi campioni ad aver vestito la V nera. Ha vinto tutto con la sua nazionale, ha vinto tanto a livello di club e vinse anche con la Virtus, due scudetti, l'ottavo e il nono della storia bianconera. Il primo lo conquistò battendo in due gare l'Olimpia Milano, nella sfida per eccellenza del basket italiano, e la serata di gala fu proprio nel capoluogo lombardo il 6 maggio 1979, in una partita che spiegò a tutti chi era Cosic: quattordici punti segnati in un primo tempo di grande equilibrio, poi nella cavalcata trionfale verso il 113 a 92 Kresimir si astiene dal tirare, ma sforna assist per i compagni, finalmente liberati dalla tensione e pronti a raccogliere l'ambito frutto tricolore, poi con naturalezza controllò ogni tentativo di pressing avversario, la stessa naturalezza con cui modestamente descrisse quei momenti: "Ho semplicemente gelato il pallone: i piccoli lo fanno palleggiando, io ho la fortuna di avere le braccia lunghe e il pallone stava bene lassù". L'anno dopo concesse il bis, sempre in trasferta, a Cantù: ad affiancarlo, come straniero, c'era Jim McMillian, una lunga e prestigiosa carriera Nba alle spalle, e i due formarono la coppia di stranieri più forte che la Virtus abbia mai avuto nell'epoca, appunto, dei soli due giocatori non italiani per squadra. Sicuramente il Cosic ammirato dagli sportivi italiani e dai sostenitori della Virtus, non era più il Kreso all'apice della carriera, ma ancora oggi si ricordano le delizie che sfornava in campo. Tuttavia gli inizi non furono facili: il primo campionato cominciò con tre sconfitte nelle prime quattro gare, l'ultima delle quali a Vigevano, dove Cosic fece registrare un'insolita virgola nel tabellino; tanto bastò per etichettarlo come "finito", come un ex campione sulla via del tramonto, ma l'asso slavo non fece una piega, riguadagnò terreno con la calma dei forti e s'impose all'approvazione e all'amore incondizionato dei settemila del palasport. Un amore che non venne mai meno, neppure quando tornò per allenare una Virtus molto meno ricca di talenti, in un campionato non fortunato, che si concluse con l'eliminazione nei playoff ad opera della Fortitudo. Il popolo virtussino naturalmente lo perdonò, non solo perché aveva la grande attenuante di non poter disporre nel momento decisivo di Brunamonti, che anzi gli rese sempre meriti anche per quell'annata da allenatore: "Mi ha dato sicurezza, insegnandomi ad esprimermi al meglio". Bologna amò talmente Cosic che venne naturale il 24 giugno 2000 per ricordarlo, l'organizzazione di una partita tra la Nazionale italiana e una formazione denominata Cosic Friends. Molti i giocatori delle V nere di allora o di Virtus precedenti in campo: Abbio nelle file dell'Italia, Danilovic, Binelli, Patavoukas e Nesterovic tra gli amici di Kreso. Alla partita presenziarono i tre figli e la moglie di Cosic a cui fu consegnato un dono dei giornalisti bolognesi, opera di Concetto Pozzati (ex giocatore virtussino, nonché artista di fama mondiale). Un amore che Cosic ricambiava totalmente come ribadì in un'intervista apparsa nel 1990 sul periodico della Virtus, "V Nere", che si concluse così: "Sarò sempre orgoglioso di aver indossato la Vu nera".
Nota: L'opera di Concetto Pozzati, dono dei giornalisti bolognesi, era stata donata in precedenza, il 20 febbraio 1997 in occasione di Virtus - Croatia Insurance Spalato di Eurolega.
COSIC E DANILOVIC
Gli aneddoti di Tavcar a Possesso Alternato su Basket 108
Cosic non è raccontabile, è un giocatore che è nato troppo presto, era un giocatore di una grandissima tecnica, come quella di un playmaker, bravissimo nel passare e nel tirare, con uno straordinario tiro da fuori, velocissimo, quando ancora era giovane saltava moltissimo, un 2,11 molto filiforme ma solido come una roccia. In preparazione agli europei del 1971, con la Jugoslavia che affrontava la forte selezione americana Gillette di Jim McGregor, giocatori americani che cercavano contratti in Europa, vidi fare a Cosic una cosa strabiliante: prese un rimbalzo in difesa, partì in palleggio con la mano destra dirigendosi verso di me, verso la linea laterale e con la mano sinistra dietro la schiena fece un passaggio che attraversò tutto il campo e raggiunse Simonovic in entrata. Sarebbe anche nel basket di oggi in grado di fare sfracelli.
Danilovic era nato a Sarajevo, di etnia serba, era tifoso del Partizan e allora la sua famiglia si trasferì a Belgrado, ma la Bosnia non diede a Sasha il nullaosta, allora giocò amichevoli sotto falso nome, finché finalmente la situazione non si sbloccò e poté giocare gli europei juniores del 1988. Una volta venne a giocare a Trieste un'amichevole il Partizan, andò a vederla mio fratello ma io non andai perché avevano mandato la squadra B, Quando tornò mi chiese se conoscevo un tal giocatore giovane e fortissimo che non avevo mai sentito nominare: capii subito che avevo perso l'occasione di vedere Danilovic.
KREŠIMIR ĆOSIĆ, LA LEGGENDA DEL FENOMENO CHE DISSE DI NO ALLA NBA
Krešimir Ćosić, la leggenda del Fenomeno che disse di No alla Nba
Il 25 maggio 1995 moriva Kresimir Cosic, il fenomeno croato della palla a spicchi prematuramente scomparso che disse no al prestigio del basket americano NBA, diventando leggendario anche per questa sua scelta. Vi raccontiamo la sua storia.
Spiegarlo ai giovani di oggi forse è quasi impossibile, però c’è stato un tempo in cui l’America non era il tutto del pianeta cestistico, ma solo una parte di esso. Se era vero che loro il gioco lo avevano inventato, dall’altra parte delle pozzanghera gli si aveva dato un senso compiuto ugualmente altissimo. E se è altrettanto esatto che fossero per primi gli Stati Uniti a guardare con sospetto a chi dall’Europa voleva palleggiare oltre Oceano, poteva capitare che qualcuno fossero proprio loro a cercarlo. Ma poteva anche capitare che quel qualcuno rispondesse con un “no, grazie”. Addirittura due volte. Lo face, per esempio, Krešimir Ćosić, che magari oggi lo racconterebbe sorridendo, se solo il destino non lo avesse richiamato in panchina per l’eternità un 25 maggio del 1995, ad appena 47 anni. Maledettamente troppo presto.
Lui, Ćosić, gli americani sarebbero stati ben contenti di buttarlo sui loro parquet più belli, più ricchi e lucenti. Peccato che si fossero visti respinti, perché quei 210 centimetri di rara bellezza cestistica se ne voleva tornare a casa sua, in quella Zara da cui era partito per l’avventura universitaria.
La vita di Cosic
L’aereo l’aveva preso nel 1971 Krešimir Ćosić, ventitreenne che in quella Jugoslavia Stati Uniti d’Europa già faceva gola a mezzo campionato. Era nato nel ’48, a Zagabria. Sangue croato puro, in tempi duri dove tirarsi fuori dalla miseria. Krešimir cresce tanto in altezza, troppo poco nel peso. Tocca i due metri, che su quel fisico scavato fanno quasi impressione. Leggenda narra che tra gli amici venisse anche schermito col nomignolo Auschwitz, perché così lungo e incredibilmente magro faceva tornare alla mente chi nei campi di sterminio vi era stato veramente. Eppure, con le mani ci sapeva fare. Tradizione nazionale, d’altra parte: in Jugo la sensibilità nei polpastrelli è roba all’ordine del giorno, largamente diffusa e specie protetta. Gli strizzano l’occhio a Zara, dove Ćosić si è trasferito ancora bambino, con tutta la famiglia. Entra presto nello Zadar e neanche quindicenne è già nel mondo dei grandi. La canotta gliel’ha lanciata Enzo Sovitti, che del club ne è coach ma soprattutto anima. Perché Saviotti è uno dei pionieri della palla a spicchi: ha iniziato a sbattere a terra il pallone quando ancora i parquet non esistevano e mica tutti sapevano cosa fosse questa cosa di lanciare una sfera in una retina e non dentro una porta.
Il primo successo
Nel ’65 arriva già il primo alloro: una vittoria del campionato che verrà centrata anche due stagioni più tardi e quella successiva ancora, quando ormai il timone del comando è passato da Saviotti a Zdrilić. Tanto basta perché un altro guru del basket jugoslavo, Ranko Žeravica, scelga anche il nome di Ćosić per la Nazionale in partenza per il Messico e i giochi olimpici del 1968, in una parata di stelle che ospita anche Pero Skansi e soprattutto Radivoj Korać, uno talmente tanto forte che dopo la sua prematura scomparsi gli verrà intitolato il secondo trofeo europeo per importanza dietro la Coppa dei Campioni. In Messico, Krešimir fa la sua figura, partendo spesso dalla panca e mettendo i punti che contribuiscono alla cavalcata dal girone alla finale. Di minuti però ne accumula tanti, anche in semifinale, quando ne gioca 21 nel match che vede la Jugoslavia spuntarla di appena una lunghezza su quell’altra superpotenza chiamata URSS. In finale, il minutaggio cala invece a 13. Ćosić ne mette comunque 4, ma contro gli Stati Uniti valgono a poco. La Jugo riesce a rimanere incollata fino all’intervallo lungo e all’ultima sirena sono appena cinque le lunghezze che separano gli slavi da un oro che finisce invece al collo di due future stelle Nba: Jo Jo White e Spencer Haywood, destinati a mettersi al dito l’anello l’uno con Boston e l’altro con Los Angeles. E di lì a poco, anche Ćosić conoscerà quella parte di globo.
L’arrivo negli Stati Uniti
Ci arriva nel 1971, da studente universitario e reclutato dalla Brigham Young University, in quell’Utah così bianco e religioso dove la parola di Dio viene ascoltata molto prima che quella dell’uomo. Ma per quello che ormai per tutti è semplicemente Kreso, l’esperienza varrà molto più che in termini sportivi. Se dalla Croazia parte solo un ragazzo, ne tornerà un uomo cambiato dal profondo. Nella Salt Lake Valley, Kreso scopre qualcosa di più alto di lui, si converte alla Chiesa, diventa Mormone. Ne sposerà talmente tanto la causa che al ritorno nella vecchia patria non si accontenterà di professarne il verbo, ma si spenderà in prima persona per tradurne i testi in croato. Quello che però riceve, Kreso finisce col restituirlo con gli interessi, sotto forma di basket. Perché da quelle parti, un lungo così raramente lo hanno visto. Un 2.10 con quelle mani è merce rara, prodotta in poche parti del mondo. Ed è merito della scuola slava, dove le mani vengono prima di tutto, anche dell’altezza. E in ogni zona del campo un giocatore deve saper fare qualsiasi cosa. Ćosić questo lo ha imparato, diventando un lungo atipico. Probabilmente il primo prototipo di giocatore moderno. Sgomita a rimbalzo sotto le plance, stoppa in difesa e schiaccia in attacco. Però sa anche tirare e passare, tanto da venire fino alla linea del tiro libero per imbucare un assist per il taglio degli esterni.
Il rifiuto alla NBA
Se non tira da 3 è solo perché l’arco ancora deve essere inventato: fosse nato trent’anni dopo, ce lo avremmo sicuramente visto. Ma anche senza bombe, dalle parti di Utah finiscono con amarlo e ricordarlo ancora. Basta aprire un almanacco e leggere. 1512 punti realizzati: record. 919 rimbalzi catturati: record. 381 tiri liberi messi a segno: record. Con cifre del genere è impossibile finire nel dimenticatoio o anche solo passare inosservati. Infatti, dalla Nba iniziano a chiamare. Nel ’72 Portland lo vorrebbe al Draft, un anno più tardi Los Angeles manifesta il medesimo interesse. Kreso ringrazia, ma risponde no. Vuole tornare a casa, a Zara, per rimettere la canotta dello Zadar. Lo fa nel 1973 e immancabili tornano i successi. Altri due titoli consecutivi col club, ancora un argento olimpico e sempre contro quegli Stati Uniti che impongono lo stop alla Jugoslavia a Montreal ’74. Poi Lubiana e due stagioni a dispensare pallacanestro in biancoverde, prima di ricevere una chiamata dall’Italia.
Cosic, l’anti Meneghin
Krešimir Ćosić piace a Bologna, sponda Virtus. A Basket City regna il bianconero e soprattutto l’altro Avvocato, Gianluigi Porelli. Il presidente non solo ha quattrini, ma anche le idee giuste su come investirli. Non a caso, ha contribuito in prima persona a dar vita alla Legabasket e se Dan Peterson è arrivato a cambiare la nostra pallacanestro lo si deve proprio a lui, che quel personaggio così geniale e caratteristico se l’è andato a prendere fin negli Stati Uniti. E nell’estate del 1978, Porelli ha due interrogativi da chiarire. Il primo è proprio legato a coach Dan. I due sono stati insieme per cinque stagioni, hanno vinto una coppa e uno scudetto, ma nella stagione appena passata il tricolore è sfumato proprio in finale. Che sia arrivato il momento di cambiare? Il secondo punto è quello che ormai gira da troppo tempo: serve un anti-Meneghin, altrimenti ciao sogni, almeno finché quel mostro di centro non smetta di giocare. E non sembra averne intenzione. Alla prima domanda, l’Avvocato risponde salutando Peterson e proponendo a Terry Driscoll, che fino a pochi mesi prima la Virtus la stava guidando da giocatore. L’altro quesito trova invece risposta con un nome e cognome: Krešimir Ćosić, è lui l’uomo sul quale investire per tornare grandi. Gli unici dubbi sono età e fisico. Ćosić ha trent’anni, in un epoca dove averne significa essere vicini alla fine della carriera e non all’apice della propria esperienza sportiva. E poi in estate di botte ne ha prese tante, ai Mondiali, ma sono valse un oro nelle Filippine, al fianco di Kićanović e Dalipagić, dove la Jugoslavia del professore, Aza Nikolić, ha battuto l’URSS del colonnello, Aleksandr Gomel’skij.
Le perplessità iniziali e la smentita del campo
I primi mesi di Kreso finiscono con confermare le iniziali perplessità. La vera star sembra essere in realtà Owen Wells e la classe italiana di Renato Villalta. Ćosić va a corrente alternata, finché con coach Driscoll non si assestano le cose. Via qualche allenamento dalla settimana, dentro una zona 3-2 che ne preservi i movimenti in campo. Al resto pensa il ragazzo di Zagabria, che si rivela piatto pregiato anche ai palati fini dei bolognesi sponda bianconera. E a Piazza Azzarita si sfregano le mani. In stagione regolare arriva il secondo posto, ai playoff una cavalcata che offre la finale con quella Billy Milano appena presa da Dan Peterson e destinata a riscrivere la storia. Non in quella finale però, perché Ćosić da solo passa come Mike D’Antoni e annienta C.J. Kupec. Bologna vince in casa gara 1 e trasforma in passerella anche la seconda uscita, in terra meneghina. È scudetto, appena nove mesi dopo aver messo piede sotto le torri. L’anno seguente sarà ancora tricolore, questa volta contro Cantù. Una dopo l’altra, ai playoff cadono Torino e soprattutto la Varese di quel Dino Meneghin alla cui potenza l’Avvocato Porelli aveva voluto opporre Ćosić. Ancora una volta, avrà avuto ragione il boss bianconero.
Kreso lascia la Virtus a secondo tricolore raggiunto. Torna a casa, in Croazia, questa volta sponda Cibona. Chiude in bellezza: tre coppe nazionali, un titolo, soprattutto una Coppa delle Coppe, strappata al Real Madrid del compagno di Nazionale Mirza Delibašić. Nel mezzo anche l’oro olimpico, a Mosca, nell’80, proprio contro quell’Italia del Villalta con cui aveva condiviso spogliatoio e due tricolori. E fa niente che gli Stati Uniti non ci fossero.
La carriera da allenatore
Molla il basket giocato nel 1983, Krešimir Ćosić, per dedicarsi alla panchina. Ma lì avrà meno successi. Tornerà anche a Bologna, ma raccogliendo una stagione anonima e un playoff perso addirittura nel derby contro la Fortitudo, che veniva dall’A2. Il punto più alto lo toccherà nel biennio con la Nazionale: bronzo al Mondiale ’86 e all’Europeo 1987. Insieme alla gioia, la sensazione di non aver sfruttato al meglio quella nidiata di campioni chiamati Petrović, Kukoč, Divac e Dino Radja. Al talento, Ćosić aveva sempre unito un’intelligenza fuori dal comune. Negli Stati Uniti si era laureato e lì sarebbe tornato, distinguendosi anche fuori dai parquet: quando la Croazia aveva iniziato la sua guerra di indipendenza, a Washington si era fatto nominare vice ambasciatore, per fermare quel conflitto che avrebbe cambiato la cartina dell’Est europeo. Voleva però tornare al basket, Kreso. Ci sarebbe riuscito, se la malattia non l’avesse stoppato, il 25 maggio del 1995. Questa volta neanche le sue lunghe leve avevano potuto arginare l’irreparabile. Avrebbe potuto fare ancora tanto, ma forse quanto realizzato fin lì poteva bastare.
Essere il primo giocatore moderno in un’epoca passata e aver detto no al sogno americano, per viverselo a casa propria. Se questo non è tanto, probabilmente è addirittura tutto.
KRESIMIR COSIC, L'ANTI MENEGHIN DELLA VIRTUS BOLOGNA
Non ha i suoi muscoli, né la stessa cattiveria. Eppure in due stagioni (1979, 1980) con la maglia della V nera arrivano altrettanti scudetti
di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 26/05/2021
Il più grande che abbia mai indossato la maglia della Virtus? In questi casi, di solito, si aggiunge “segue dibattito”, perché non è facile indicare chi sia stato effettivamente il più grande, pensando che, con una V nera sul petto, hanno giocato Michael Ray Sugar Richardson, dopo che era stato radiato dalla Nba. O Manu Ginobili, che nella Nba sarebbe diventato talmente grande da essere uno dei celebrati protagonisti dell’epopea San Antonio. Senza dimenticare lo sguardo vincente di Sasha Danilovic.
Nella Hall of Fame bianconera di tutti i tempi, però, Kresimir Cosic, detto Creso, ha un posto di primo piano.
La frase
Una squadra di basket
è come un cantiere
Ci sono i muratori
e ci sono gli ingegneri
Io sono un ingegnere
Creso nasce a Zagabria il 26 novembre 1948 e ci lascia presto, troppo presto, il 25 maggio 1995. Un’intelligenza straordinaria in un corpo, a dispetto dei 210 centimetri, normale.
Da giovane è così magro che i compagni di squadra lo chiamano Auschwitz. Eppure, anche se gli mancano i chili, la Virtus e l’avvocato Porelli lo vogliono a Bologna per fare di lui l’anti-Meneghin, alla fine degli anni Settanta centro di Varese, nonché il miglior giocatore italiano di tutti i tempi. Come chiedere al mite Clark Kent di tenere a bada l’esuberante Superman. Eppure Creso, anche senza rifugiarsi in una cabina telefonica per cambiare la propria identità, ci riesce.
E’ il 1978, Terry Driscoll, il pivot dello scudetto del 1976, ha appena lasciato il basket giocato perché ha la schiena a pezzi e Porelli lo promuove capo allenatore. Da un americano, Driscoll, con la schiena in disordine a un croato - all’epoca la Yugoslavia è ancora unita - leggermente ingobbito. Proprio così, Cosic sbarca a Bologna e, quando comincia l’inverno, gira con un cappottino color cammello che lo rende, paradossalmente, ancora più scheletrico a dispetto dell’altezza.
Non ha i muscoli di Meneghin, non ha la stessa cattiveria. Eppure in due stagioni con la maglia della Virtus arrivano altrettanti scudetti. Anche se, all’inizio, i malumori e i musi lunghi non mancano. Bologna è BasketCity, conosce tutti i segreti della pallacanestro, ma anche l’importanza dei numeri. Cosic non segna molto, non raccoglie valanghe di rimbalzi e, per di più, è tutto fuorché appariscente. Non urla, non schiaccia, non picchia. L’aspetto che lo rende unico, anche se non esiste ancora, almeno in Italia, il tiro da tre punti, è che spesso, anziché a prender botte sotto canestro, si sistema all’altezza della lunetta e, maneggiando il pallone come fosse un’arancia, lo porta a livelli irraggiungibili. Lo porta in alto e poi, quasi per magia, lo recapita al compagno più smarcato, sotto canestro. Ne sa qualcosa Pietro Generali che, non a caso, giocando al fianco di Kresimir, disputa le migliori stagioni in serie A.
Si dice che si alleni poco e che, questo, non vada giù ai compagni. Ma Cosic è un fenomeno anche quando si tratta di parlare. Un giorno, chiama al suo fianco Caglieris, il playmaker. “Vedi Charlie, per costruire una casa ci vuole un architetto e tanti muratori. Succede così anche nei canestri, Io sono l’architetto, voi i muratori”.
Tira da distanze incredibili e spesso, facendolo, muove le gambe come se si trovasse su una cyclette virtuale. Non è appariscente, ma quando conta, c’è. E’ decisivo nella zona 3-2 che Terry Driscoll, con l’appoggio dello stratega Ettore Zuccheri, vara per la Virtus. Creso si mette in punta e alza un muro.
Dietro si porta il nome di vescovo. Che non è un’etichetta né tantomeno un soprannome, ma il ruolo di missionario che gli viene effettivamente conferito. Nel 1971, molto tempo prima di arrivare a Bologna, lascia la Croazia per volare negli States. Frequenta la Brigham Young University, a Provo, nella Salt Lake Valley. La maggioranza della popolazione è mormone. E lui si converte, ricoprendo il ruolo di vescovo. All’inizio, in omaggio alla fede, non vuole giocare la domenica. Poi si piega alle logiche del professionismo e fa coincidere i due aspetti. Anche se la domenica mattina, almeno così narra la vulgata, non prende parte alla rifinitura. Si presenta in palestra solo dopo la funzione, in giacca e cravatta. E quando i compagni fanno le loro rimostranze, invocando la presenza di Cosic anche la domenica mattina, Creso li accontenta. Giacca, cravatta e scarpe da basket. Non si allena, si tiene per il campo. “Kresimir - ricorda Terry Driscoll, facendo chiarezza sull’aneddoto - era una personalità unica. Grande giocatore, campione sul campo e nella vita. Aveva un solo problema: l’orologio. Spesso era in ritardo, ma di pochi minuti, per l’allenamento, per la partenza del pullman, a tavola. Non lo faceva per cattiveria, era semplicemente così. Ne abbiamo parlato e, alla fine, gli episodi di ritardo non sono totalmente spariti, ma comunque si sono ridotti al minimo”.
A Bologna torna come allenatore, nel 1987, non raccoglie risultati secondo la sua grandezza, ma al suo fianco cresce e matura Ettore Messina. Come coach della Yugoslavia ancora unita, non ha paura nel lanciare i giovanissimi. E, dopo le fratture etniche, diventa vice ambasciatore di Croazia negli States. Avrebbe potuto regalarci ancora tanta pallacanestro - lui che rifiuta persino la chiamata dei Los Angeles Lakers -, se non giocata, almeno pensata, se non tumore non ce lo avesse portato via nel 1995.
Un grandissimo al quale, in patria, hanno dedicato statue, musei, riconoscimenti. Un oro e due argenti olimpici, mondiali ed Europei. Sempre con quel sorriso sulle labbra. Il sorriso di un personaggio unico chiamato Cosic.
BASKET ANNI ’80, INDIMENTICABILE KRESO, IL LEADER
“Non importa saltare molto, diceva, perché se fai una finta saltano gli altri”…e ancora “Tutti devono fare il tagliafuori perché al rimbalzo ci penso io”… “Giocatore, allenatore dipendente, tristo che puzza”...
Ogni volta che parliamo delle problematiche di una squadra, prima o poi, il discorso cade sul “leader”, sul suo ruolo, la sua importanza e le caratteristiche che deve avere.
Tutti lo sanno e gli allenatori in particolare, che avere un leader all’interno della squadra può essere fondamentale per una migliore gestione del gruppo e per l’attuazione delle proprie idee tecniche e tattiche, ma anche disciplinari e comportamentali.
È interessante sapere come un personaggio di caratura mondiale possa essere atterrato all’aeroporto di Borgo Panigale per guidare la Virtus Bologna, una squadra giovane con un allenatore principiante, Terry Driscoll. Si fa per dire , naturalmente, perchè Kresimir Cosic viaggiava con la "Jaguar-E Nera", la macchina di Diabolik. Correva l’anno 1979-80.
Ora i giocatori sono tutti schedati e si scelgono a seconda delle caratteristiche della propria squadra fatta coi ruoli, si sceglie per completare il mosaico. Ridicolo pensare che fosse la stessa cosa 40 anni fa. Come è stato scelto? Nativo di Zara, appena di là dal confine, c’erano Varese e Milano più accreditate di Bologna…e più comode.
C’è da dire che Bologna è la città più bella del mondo e la Virtus ha un fascino incredibile, poi per un Vescovo Mormone tagliatelle-tortellini-lasagne è una tentazione irresistibile. Non c’è stata scelta da parte nostra, si è presentata l’occasione e il merito è della “Vita”, che ti fa sempre incontrare le persone di cui hai bisogno.
In questo modo, agli inizi degli anni Ottanta, la Virtus Sinudyne Bologna aveva un grande leader, amatissimo dai suoi compagni di squadra, dai suoi tifosi, soprattutto dai suoi allenatori perché era un vero collaboratore che si assumeva in campo, durante la gara, la responsabilità tecnica ogni qualvolta ce n’era bisogno.
Come aveva fatto Kresimir Cosic ad avere una conoscenza tecnica da renderlo autonomo? Giocatore di Basket, allenatore dipendente, “tristo che puzza”, diceva. Non solo. Un giocatore deve "conoscere" e non solo saper fare tutto.
Era un fantastico giocatore e uno straordinario uomo la cui grandezza non è stata mai oscurata da nessun altro atleta straniero venuto dopo. A mio avviso, naturalmente…ma anche perché non bisogna dimenticare che con lui la Sinudyne Virtus Bologna ha vinto due scudetti consecutivi (1979-80 e 1980-81) grazie al particolare modo d’interpretare il gioco da lui gestito.
La sua luce aveva illuminato tutti, compreso il Presidente e grazie alla sua collaborazione, anche gli allenatori erano diventati improvvisamente “coaches intelligenti”. Non ci crederete, ma era quello che dicevano i giornali sportivi, senza conoscere la realtà delle cose. Una cosa è certa. Se fosse rimasto avremmo ancora vinto ancora, molto di più.
Unico per la sua intelligenza, fisicità e tecnica, tre caratteristiche al top, ma non solo. Aveva una grande conoscenza del basket teorico, una curiosità della tecnica che lo aveva portato, da giocatore nella BYU, ai clinic di Bob Knight.
Era così diventato un vero allenatore in campo e gestiva tecnicamente i compagni con grande sapienza. Come? Giocando come “un Ragno”, andando in mezzo alla “ragnatela dei passaggi” per ricevere sempre il primo e dispensando in modo intelligente il secondo passaggio.
Deliziosamente ironico, curava i rapporti con tutti, dal custode della palestra al tifoso che incontrava per strada, ma soprattutto coi suoi compagni di squadra dei quali parlava sempre in modo positivo, fino a difenderli dalle critiche dei giornalisti.
Non mancava però di prenderli scherzosamente “in giro”, soprattutto durante i 30’ di tiro libero che Dan Peterson pretendeva alla domenica mattina. Ore 11,00 tutti n palestra. Sapete quanti tiri eseguiva in 30’? Nessuno. Rimaneva con la palla in mano, tenendola “a cameriere” e andava a pizzicare Charlie Caglieris, nelle sue parti grasse.
Per una squadra possedere un leader, dal quale farsi guidare soprattutto nei momenti di grande difficoltà, è di vitale importanza per arrivare ad ottenere i risultati che la stessa società sportiva desidera raggiungere.
Il leader è colui che fa risaltare le potenzialità dei singoli, il fulcro intorno al quale si fonde il gioco e lo spirito di un gruppo, molto importante per il raggiungimento dei traguardi sportivi.
Kresimir Cosic aveva in mano tutto l’attacco di squadra, il primo passaggio era sempre per lui e questo lo avevamo stabilito noi allenatori. Era considerato dal coach il vero playmaker della squadra, ma con grandi potenzialità realizzative. La sua caratteristica principale? L’imprevedibilità del passaggio, ma la sua pericolosità derivava dal sapere fare tutto.
Con il possesso di palla era in grado di distribuire passaggi a tutti, perché era pericoloso nel tiro, ma soprattutto era eccezionale nella ricerca del compagno più in forma in quel momento.
Quando lo aveva scelto si concentrava solo su di lui facendolo rendere al massimo. Quanti giocatori sono in grado di fare la stessa cosa? In una partita col Partizan di Belgrado (1980) fece realizzare 24Pt. in un solo tempo a Jim McMillan perché aveva stabilito che era il terminale dell’attacco più sicuro in quella gara.
Il fatto straordinario è che erano stati realizzati di seguito, consecutivamente, perché finché Jim realizzava, nessun altro riceveva la palla per un tiro, anche se fossero stati liberi.
Chi è mai stato in grado di ragionare in questo modo? Il giocatore che maggiormente è migliorato durante il suo periodo a Bologna? Sicuramente Renato Villalta, un esecutore micidiale per realizzare canestri sui suoi passaggi.
A Kresimir Cosic non interessava la classifica dei marcatori, ma risolvere le situazioni “topiche” della gara, che non erano sempre le stesse. A volte bisognava realizzare un canestro per la vittoria, altre quello dell’aggancio, altre ancora quello che distruggeva completamente le speranze avversarie di rimonta.
Solo da lui abbiamo sentito pensieri riferiti alla cattura di rimbalzi in un momento topico per vincere una gara, solo lui era in grado di creare situazioni con continuità e, quando voleva, fare passaggi vincenti per i compagni e per la squadra. E la difesa?
Era un grande “intimidatore”, grazie al suo tempismo nel salto. Per questo, la sua difesa preferita era la “3-2” con lui stesso in punta. I compagni dovevano fare il tagliafuori per lasciare a lui la cattura del rimbalzo nella zona centrale e l’esecuzione del passaggio d’uscita per il contropiede. Come nella seconda foto. Villalta e Generali eseguono il tagliafuori e Jim sta partendo per il CP.
Sapeva poi leggere qualsiasi situazione tattica che l’avversario presentava e, soprattutto, come risolverle. Non aveva bisogno di guardare l’allenatore per avere suggerimenti. In campo, il coach era lui.
I leaders sanno creare buoni rapporti coi compagni e l’allenatore. Il leader “riconosciuto” deve avere una personalità particolare, un ottimo livello di autostima, essere consapevole del proprio lavoro, avere la capacità di guidare in campo la propria squadra, senza essere egoista e mettersi a disposizione del gruppo.
Cosi era "Kreso". L’intelligenza e sensibilità erano le sue doti principali. In altre parole, aveva una grande intelligenza emotiva. Indimenticabile.
KRESIMIR COSIC, IL FUORICLASSE EUROPEO CHE DISSE NO ALL’NBA
di Nicola Pucci
In quella sterminata fucina di talentuosissimi giocatori, di pallacanestro ma non solo, che è l’ex-Yugoslavia, una citazione a parte merita uno dei più grandi di sempre, se non forse il migliore di tutti. Almeno in Europa.
Kresimir Cosic, tanto per chiarire fin dal principio di chi stiamo parlando, nasce a Zagabria il 26 novembre 1948, e se la condizioni di vita da quelle parti, a dispetto dell’idea unitaria proposta dal Maresciallo Tito, sono decisamente difficoltose un po’ per tutti, il giovanotto cresce, tanto, in altezza, e decisamente meno in chilogrammi, acquisendo tuttavia fin da adolescente le caratteristiche del giocatore di pallacanestro. A cui può associare doti non comuni nell’utilizzo delle mani, estremamente sensibili nel mettere la sfera a spicchi nella retina
Nel frattempo, assieme alla famiglia, il “piccolo” Cosic prende cappello e si trasferisce a Zara, sulla costa dalmata, e qui viene ben presto inserito in organico dalla squadra locale, che attendeva proprio un giovane fuoriclasse per spiccare il salto in alto. E fuoriclasse, Cosic, lo è davvero, tanto da venir forgiato da quell’Enzo Sovitti che non è solo un allenatore, ma pure il mentore di quel KK Zadar destinata a segnare la storia della pallacanestro yugoslava. In effetti, con il contributo di Kresimir che dall’alto dei suoi 211 centimetri è difficilmente contenibile, la squadra conquista i suoi primi titoli nazionali, nel 1965, nel 1967 e nel 1968, terminando altresì terza nel 1966 alle spalle di Olimpia Lubjana e Partizan Belgrado.
I successi in campionato del pivottone che gli amici di infanzia chiamavano “Auschwitz” per quanto fosse magro, spalancano a Cosic le porte della Nazionale yugoslava, allenata da un’altra leggenda della pallacanestro di quel paese, Ranko Zeravica, che lo seleziona con la squadra pronta a giocarsi le sue chances sia ai Mondiali in Uruguay del 1967, chiusi in seconda posizione alle spalle dell’Urss, che alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968.
In quella formazione esercitano altri campionissimi, tra tutti Radivoj Korac, e saranno solo gli Stati Uniti di Spencer Haywood a negare alla Yugoslavia, vincitrice in semifinale di una sfida drammatica con l’Urss (63-62 con Cosic che in 21 minuti segna 6 punti), il trionfo ai Giochi, battendola sia nella fase a gironi (73-58 con 13 punti di Cosic) che in finale (65-50 con Cosic tenuto a soli 4 punti).
Kresimir, che delizia nondimeno la platea per i movimenti difficili da contrastare nell’area piccola ed una mano delicata, più da guardia che da pivot, chiude la sua prima esperienza olimpica con 7,7 punti a partita ed un massimo di 16 punti in 18 minuti nella sfida di girone con l’Italia. E dovrà rimandare a data da destinarsi l’appuntamento con la gloria a cinque cerchi.
In effetti Cosic, ormai diventato un fattore dominante, colleziona una serie impressionante di titoli con la sua Nazionale, cogliendo l’oro alle edizioni iridate in casa del 1970 (segnando 15 punti nella decisiva sfida con gli Stati Uniti, risolta 70-63, e venendo inserito nel quintetto ideale del torneo) e nelle Filippine del 1978 (ancora una volta eletto miglior pivot della rassegna, rimanendo imbattuto e segnando 6 punti nell’appassionante finale, vinta 82-81 al tempo supplementare con l’Urss), vincendo per tre volte di seguito agli Europei (1973 in Spagna quando è pure nominato MVP del torneo, come già accaduto nel 1971, 1975 in Yugoslavia e 1977 in Belgio) e poi salire infine sul gradino più alto del podio alle Olimpiadi di Mosca del 1980, proprio in casa della rivale per antonomasia, l’Urss, eliminata in semifinale dall’Italia di Sandro Gamba, poi battuta all’atto decisivo 86-77, a vendicare l’anonimo quinto posto di Monaco 1972 e l’ancor più bruciante secondo posto del 1976 quando Cosic&C. furono sconfitti nettamente dagli Stati Uniti di Adrian Dantley, 95-74 nonostante 27 punti di Praja Dalipagic.
Ma se i destini di Cosic si incrociano con quelli degli Stati Uniti, sovente, a livello di Nazionale, ancor più Kresimir ha modo di conoscere il basket stelle-e-strisce volando, a far data 1970, di là dall’Atlantico per vestire per tre anni la maglia della Brigham Young University, stato dello Utah, nel campionato NCAA, dove non solo conferma di essere un cestista tanto forte come da quelle parti hanno raramente visto facendo segnare a partita, al secondo anno, una media punti di 22,3 e 12,8 rimbalzi, ma abbracciando pure un credo, quello Mormone, che lo accompagnerà nel corso della sua, come vedremo, pur breve esistenza.
L’uomo matura e l’atleta si evolve ancora, diventando il pioniere del pivot moderno, capace di catturare rimbalzi per appoggiare a canestro ma anche di tirare dalla media distanza e smazzare assist al bacio, tanto da meritarsi per due anni di seguito una chiamata al Draft NBA, prima dai Portland Trail Blazers nel 1972 e poi addirittura dai Los Angeles Lakers 1973.
Ma Kreso, come viene affettuosamente ormai appellato, dice “no grazie“, e se ne torna nella sua Zara, dove ha modo di vincere ancora due campionati, nel 1974 e nel 1975, per poi passare all’Olimpia Lubjana ed andare a deliziare il pubblico bolognese di fede Virtus, quella del mitico avvocato Porelli, che cerca l’anti-Meneghin per scalfire il dominio di Varese.
Qui Cosic, dopo qualche iniziale difficoltà di adattamento, forse anche perché poco propenso all’allenamento ed eternamente pigro come tutti gli slavi, trova l’intesa perfetta con coach Terry Driscoll che disegna per lui una zona 3-2 e la giusta alchimia di squadra con Renato Villalta, Carlo Caglieris e Pietro Generali, oltrechè con l’altro straniero, Owen Wells prima, Jim McMillian poi, e per le “V nere” è manna piovuta dal cielo, con due scudetti cuciti sulle maglie superando Milano e Cantù in due finali chiuse sul 2-0.
La carriera di Kreso volge al termine, ma la classe è immensa e immutata, ed una volta nuovamente a casa, stavolta a difendere i colori di quel Cibona Zagabria che qualche anno dopo accoglierà un altro grande di Yugoslavia, Drazen Petrovic, Cosic trova il tempo di far suo il titolo nazionale nel 1982 battendo i nemici giurati del Partizan Belgrado, infilare un tris in Coppa di Yugoslavia ed infine conquistare un trofeo europeo con la squadra di club, unico tassello mancante al suo palmares, ovvero la Coppa delle Coppe del 1982 quando con 22 punti è decisivo nel successo di misura sul Real Madrid, 96-95 nella finale di Bruxelles.
Poi è tempo di saluti, ahimé prematuri rispetto alle previsioni, perché se è vero che una volta dismessi i panni del giocatore-fenomeno Kresimir si ricicla nelle vesti di allenatore per poi laurearsi e venir nominato vice-ambasciatore a Washington di quella Croazia ormai travolta dall’orrore della guerra, è altresì maledettamente vero che un brutto male se lo porta via nel 1995 a soli 47 anni.
Già, come diceva quella frase ad effetto?… ah ecco… “perché Dio gli eroi li vuole presto accanto a sè“. E Kresimir Cosic, eroe del basket, lo è stato davvero, tra i più grandi di sempre.
43 ANNI FA IL MAGGIOR BOTTINO DI COSIC IN TRASFERTA
di Ezio Liporesi - 1000 cuori rossoblu - 18/02/2022
Il 18 febbraio 1979 la Virtus gioca a Milano contro la Pallacanestro Milano targata Xerox. Una netta vittoria, 102 a 84: i milanesi reggono nel primo tempo, chiuso a favore della squadra felsinea 40 a 44, poi i bolognesi prendono il largo. Alla fine 31 punti di Cosic e 29 di Villalta (13 su 22 al tiro), poi 12 di Caglieris, 11 di Wells e Bertolotti, che ne aveva fatti 31 sette giorni prima nel 110 a 91 contro la Mecap Vigevano, poi 8 di Generali. Nella squadra di casa il solito Jura ne segna 22 (molto nervoso, tanto da meritarsi un tecnico), Laurisky 19, l'ex Serafini 12, Farina 11, Rodà e Zanatta 8 (di questi sei solo Rodà e Farina non sono usciti per falli). L'evento è storico, perché è il maggiore bottino in trasferta realizzato in trasferta da Cosic con la Virtus. La squadra milanese giungerà ottava e riuscirà ad agganciare i playoff attraverso lo spareggio con Mestre, prima in A2, ma l'anno dopo, con sponsor Isolabella 18, retrocederà (la Pallacanestro Milano 1958 disputava il massimo campionato dalla metà degli anni sessanta), portando però ancora fortuna a Kreso che a Bologna, il 16 dicembre 1979, nella vittoria della Sinudyne per 116-83, metterà a segno 42 punti, suo record in maglia bianconera.