MARQUINHO

(Marcos Antônio Abdalla Leite)

Marquinho taglia fuori Bruce Flowers (foto Giganti del Basket)

nato a: Rio De Janeiro (BRA)

il: 23/03/1952

altezza: 210

ruolo: centro

numero di maglia: 11

Stagioni alla Virtus: 1980/81

statistiche individuali del sito di Legabasket

 

SAMBA TRISTE PER MARCUS

di Luca Argentieri – Giganti del Basket - aprile 1981

 

Poche parole per capire qualcosa di Marcos Abdal Leite che per il mondo del basket è solo Marquinho, pivot brasiliano dei campioni d'Italia, terzo a Manila, quinto a Mosca. Marquinho ha due occhi tristi che guardano lontano. In trasferta, nelle ore di attesa in alberghi tutti uguali per incontri tutti diversi, Marquinho passeggia da solo, la testa bassa, la mente altrove. “Mai visto un brasiliano così tetro, sarà nostalgia, sarà 'saudade'”? scherzavamo con un collega a Sarajevo. Marcos Leite ha sorriso, si è divertito, all'aeroporto di Zagabria un'ora e mezza passata a tavolino, di fronte carta e penna e mille domande: “Macché‚ triste, prima della partita penso ai fatti miei, mi devo concentrare”. Dopo novanta minuti a tavolino si è alzato, ha bevuto un caffè, ha raccontato che in quei giorni a Rio c'era il carnevale e che si sentiva strano, lui a Zagabria ad attendere aerei che non arrivano mai, e la sua gente impazzita per le strade. “Ma in fondo sono giovane, farò altri carnevali” si consolava poi.

Sui sedili dell'aereo, mentre Creso Cosic, il suo incubo di tante sconfitte bolognesi, passeggiava avanti e dietro a salutare gli ex-compagni, Marquinho ha salutato cordialmente il collega. Poi ha richiuso gli occhi, e sorrideva, e sembrava proprio adagiato in sogni felici. Come si può pensare a Cosic mentre a Rio c'è il Carnevale?

Marquinho ama l'Italia del basket e l'Italia del basket ama Marquinho:due anni trascorsi a Genova, poi società e squadra si sfasciarono, trasferendosi a Novara. Marquinho, volato in Brasile, tornava alla sua vita di sempre. Ci volle un anno, e giunsero le prime telefonate: da Pesaro, poi da Varese. “Io non potevo mica partire, dovevo vincere la coppa Intercontinentale, non mi avrebbero lasciato possibilità di andarmene”. In Brasile Marquinho è qualcuno. Si sporge sul tavolo, con i suoi occhi vivaci, attenti: “Quando sono andato alla Sinudyne è successo di tutto, a Rio. La società, i tifosi scatenati: ma io volevo tornare qui”. Marquinho e il Brasile; certo, Marcos Leite ama il suo paese, certo che rimpiange il sole, gli amici, gli affetti complicati e caldissimi della sua famiglia. Ma è soprattutto un professionista della pallacanestro: “Volevo tornare in una grande squadra. Sono abituato in una certa maniera, nella università in America, poi a Genova. Con un certo ritmo, con regolarità, con grandi avversari. Questo in Brasile non accade: fai il campionato di martedì e non sai quando si gioca la volta successiva. Io ho bisogno di programmazione, di un lavoro adatto alla mia mentalità”.

“Per questo” continua “quando ho sentito che la Sinudyne mi voleva, non ci ho pensato molto sopra. Mi piace fare il mio lavoro nella migliore maniera possibile. A Bologna me lo permettono e mi va bene”. Marquinho e lo spettro di Cosic; non vuole pensarci, ma ne ha spesso accusato il peso: il suo rapporto con Bologna non era partito come si aspettava. Le voci già corrono, cattive, preoccupanti: il brasiliano della Sinudyne potrebbe essere prossimo all'addio. Lui sorride, tranquillo: “Io non so quanto tempo esattamente vorrei restare in Italia; so però che questa potrebbe essere l'ultima mia stagione a Bologna. Se capiterà, pazienza”.

C'è qualcosa che lo tormenta, un tarlo che rode, improvviso, impossibile da combattere. È sereno di fronte al basket, non lo è di fronte a sua figlia, che vive con la madre, a San Paolo, ma che resta sotto la sua tutela: “È brutto stare lontani, devo tornare a casa. In sette giorni, dopo le Olimpiadi, ho messo a posto tutti i miei affari e sono partito per l'Italia. Sette giorni sono pochi, devo sapere qualcosa di più di mia figlia. Quando sei lontano, è strano: anche se telefoni, e ti dicono che va tutto bene, tu non puoi saperlo. Magari lo fanno per tranquillizzarti. Ho portato mia figlia qui, per cinque settimane: si è ammalata di bronchite, lei è abituata al caldo”. Ma se anche tornasse qualche giorno in Brasile, Marquinho non ci resterà: è un giramondo, e sicuramente ha mercato in tutta Europa. Se dovesse partire da Bologna, non ne farebbe certo un dramma. Ha sete d'esperienza, ha voglia di giocare, sa di poter guadagnare, sa di essere stimato e richiesto dovunque. “Poi mi piace girare, conoscere la gente, imparare le lingue, incontrare altri giocatori bravi. Insomma, sono uno che ha sempre la valigia pronta”.

Marquinho e l'Italia, Genova e Bologna. Due città diverse in due periodi diversi della vita di un uomo. Lui le racconta così: “A Genova ero sposato, vita tranquilla, molto tempo dentro casa. Certo, avevamo amici, ma era un giro molto chiuso. Ora è diverso, anche perché Bologna è più divertente, più piacevole, per certi versi”.

Ci sono tante ore da riempire, nella vita di un professionista dello sport. All'estero, da solo, con pochi punti di appoggio: “Ma si legge molto, sempre in portoghese, e si legge di tutto. Poi passiamo tanti giorni in viaggio, in aereo, in trasferta. A Bologna ci si allena, si mettono a posto tute, magliette e scarpe, si sta per conto proprio. Senza problemi, con tanta musica: jazz, rock and roll, ovviamente il samba”.

È un brasiliano, un brasiliano vero: come tutti i suoi connazionali, affiliato ad una scuola di samba a Rio de Janeiro: si chiama Portela, quando può sfila con i suoi amici; perché la scuola di samba, in Brasile, è una cosa seria. Marquinho e l'Italia, tanti avversari incrociati sotto i tabelloni di tanti palazzetti. Un ricordo, un nome soprattutto: Dino Meneghin. “Grande giocatore, grandissimo trascinatore. Quando vuole vincere, si tira dietro tutta la squadra. Giocherei volentieri con uno come lui; ne sarei felice. Riesce a fare semplici le cose più difficili, giochi tranquillo con lui. E poi mi piace come uomo: fra me e Meneghin c'è sempre stato rispetto reciproco, e sono anni che c'incontriamo. è il più grande”.

Ripassa a mente i nomi degli stranieri, non vuole sembrare parziale: cita Morse con stima, poi scuote la testa, rinuncia a frugare nei suoi archivi: “C'è un giocatore straniero che è troppo più bravo degli altri. Si chiama Jim McMillian, è divertente, è un campione, con lui non ti annoi negli allenamenti, insegna sempre qualcosa a tutti. è una cosa diversa, McMillian, dagli altri”.

Marquinho ed i tifosi. Storia di telefonate vigliacche, di insulti, storia di una delusione cocente in certi momenti, a volte reciproca, a volte no.

Marquinho e gli insulti che non merita, perché è stato uomo risolutore in coppa, perché è il giocatore che ha fatto la differenza in tante partite. Perché sua non era certo la colpa se l'idolo Cosic era partito, aveva lasciato la città. Perché il professionista e l'uomo meritano lo stesso rispetto. E Marquinho è uno che merita rispetto. La domanda lo coglie all'improvviso: Marquinho ha dato ai tifosi quanto i suoi tifosi si aspettavano da lui? La testa reclinata su un lato, un sorriso tranquillo, un monosillabo. “No”.

E ancora, con il suo italiano dal sapore portoghese, musicale dunque, come la sua terra. “No, che non ho dato quello che si aspettavano. Forse in Coppa dei Campioni sì, in Coppa dei Campioni ho avuto buone partite, soprattutto in trasferta, come a Mosca, come a Madrid, come a Sarajevo. In campionato era tutto diverso”.

Marquinho e le responsabilità; un peso, un peso a volte spaventoso: “Sì, è vero, è un peso. Perché se la tua squadra vince e tu, nuovo arrivato, giochi male, maluccio, pazienza. È importante avere conquistato un altro risultato positivo, il resto conta di meno. Ma se tu, nuovo arrivato giochi male, e la tua squadra, che è la società campione d'Italia, rimane sconfitta anche perché tu hai giocato male, allora è diverso. Allora provi un'angoscia che è difficile da raccontare, l'angoscia che ti fa rigirare nel letto a chiederti i motivi di quello che succede”.

Marquinho e gli occhi degli altri. Quasi una condanna, sillabata senza parole: “I tifosi non mi dicevano niente, molti mi guardavano. Per me era sufficiente, nei loro occhi leggevo tutto: mille domande, la rabbia di una sconfitta, il dolore; mi sento strano, in quei momenti”.

Marquinho e la notte della sconfitta, anzi, di qualche sconfitta di troppo. “Guardare il soffitto, cercare un perché, da solo, perché da soli si sta bene. In pace con tutti. Allora bisognava fare l'esame di coscienza: dunque, vado a fare gli allenamenti gioco bene, faccio degli allenamenti forti, tranquilli, duri. Sono quello di sempre. La mia. vita privata è la vita privata di un atleta: niente vizi, sane dormite, niente cose che mi possano distrarre. Allora mi sentivo e mi sento tuttora in pace con me stesso, perché il mio dovere era stato perfettamente adempito. Avevo fatto, faccio, tutto quello di cui c'era bisogno. Poi, in campo, partite storte: ma perché, mi chiedevo, dopo un errore. di troppo. Io se sbaglio non dormo, questo è il problema: quest'anno troppe volte non ho dormito, purtroppo. E io non sono abituato a certe Cose, e so che non dovrebbero più ripetersi spesso”.

Marquinho e gli errori degli altri, che forse costituiscono la spiegazione più logica al suo rendimento alterno. Un’impostazione di gioco che con il suo tipo di basket proprio non aveva nulla a che vedere. E lui, spaesato, ad accettarla.

“Il fatto è molto semplice: io non ho mai giocato come pretendevano facessi alla Sinudyne: chiaramente, tutto questo mi ha provocato problemi discreti. Non ero abituato a certe cose, ma nemmeno ero nelle condizioni di dire la mia: ho sbagliato in quel momento, ho sbagliato a lasciar perdere invece di chiedere spiegazioni, di suggerire altri schemi. Io sono un pivot che ha giocato fino a 28 anni in una certa maniera: come facevo a cambiare all'improvviso?”

Marquinho e la solitudine. “È vero, che ho sbagliato a non parlare subito. Ma è anche vero che non avevo nessuno con cui sfogarmi, nessuno a cui chiedere consiglio. Sono i momenti peggiori, questi, per me. Ho trovato veramente affetto solo da parte di Bonamico; lui mi ha sempre spronato, lui mi dà la carica, io lo ricambio. La sua amicizia mi ha aiutato a superare momenti molto difficili. Ma è stato l'unico, e appena ero arrivato lo conoscevo appena. Per questo ero solo”.

Marquinho e le tentazioni. Per esempio, quella di piantare tutto ed andarsene, di rifugiarsi in un aereo e filare via lontano, dagli amici, magari dalla figlia, da un mondo che lo accettasse più di come Bologna lo stava accettando, lo scorso autunno.

“Mai pensato una cosa del genere. Mai stato sfiorato da questa idea. Chi mi conosce si metterebbe a ridere sentendo una cosa del genere. Non sono un vigliacco, non lo sono mai stato e mai lo sarò. Partendo avrei avuto un atto di vigliaccheria contro me stesso, più che contro gli altri”.

Un'altra precisazione: “Dovunque sono stato ho lasciato un buon ricordo, molta stima di me e tanti amici. Dovunque sono andato tutti mi hanno rimpianto. Può passare per la testa di Marcos Leite l'idea di abbandonare una battaglia mentre la sta perdendo e sa di poterla vincere? Ho avuto tempo per pensare a tante cose, ma non ho mai considerato l'ipotesi della fuga, perché di fuga si sarebbe trattato”.

Marquinho e la sua trasformazione. Aria di primavera?

“Anche. Cambiato il gioco, acquistata fiducia. La Sinudyne è una squadra di campioni, aveva toccato il fondo perdendo in casa con la Recoaro. Quando una grande squadra tocca il fondo può solamente risalire. E dunque abbiamo cominciato. a risalire, a giocare un basket più adatto alle nostre caratteristiche. E mi sono trovato meglio anch'io, com'era normale che dovesse accadere”.

Marquinho e gli amici. in Italia, ce ne sono? A Bologna, in effetti la sua strada può incrociarsi con quella di un suo solo connazionale, Eneas De Camargho, l'idolo nero del calcio petroniano.

“L'ho visto appena un paio di volte. Non ho necessità di incontrare gente del mio stesso paese, assolutamente no. L'ho visto una volta allo stadio: il calcio mi piace, ma solo nelle grandi occasioni. Per questo sono poco brasiliano, a dire la verità”.

Confessa un’ammirazione cieca: “Per Falcao, certo. Lo conosco da quando eravamo ragazzini, vent'anni per uno, a Monaco, alle Olimpiadi. Siamo rimasti amici perché è un ragazzo delizioso, ed è il più grande calciatore che giochi oggi, in Italia. è un grande professionista, è uno che lavora scientificamente. Un esempio per tutti”.

Marquinho e il futuro: “Fra un anno, divento professore di educazione fisica”.

Per fare cosa? “Per allenare, per restare nel basket; un anno di studi ancora, per averne la certezza”.

E chiudere con l'attività di giocatore quando? “Quando mi va, quando sarà tempo. Finché mi sento così, non ho problemi”

Ma giocare dove? “L'Europa è grande” sorride il brasiliano.

Marquinho, un centro capace di metter palla per terra

 

LA PRIMA VOLTA DI MARQUINHO, IL 31 AGOSTO 1980

di Ezio Liporesi - 1000cuorirossoblu - 31/08/2020

 

Quando arrivò a Bologna era già molto noto: un paio di stagioni nella squadra di Genova una promozione dalla serie A2 e la retrocessione nell'annata successiva, ma soprattutto era la punta di diamante della nazionale brasiliana, con cui era stato bronzo ai mondiali di Manila del 1978 e quinto alle Olimpiadi di Mosca del 1980, anche un argento ai mondiali jugoslavi del 1970, ma allora aveva solo diciotto anni. Dopo l'esperienza in Liguria Marcos Antonio Abdalla Leite, questo il suo nome completo, tornò in Brasile, al Sirio, dove era già stato prima di venire in Italia e dove tornerà a più riprese, fino a finirvi la carriera nel 1989. Nel 1979 con il Sirio vince anche la Coppa Intercontinentale, poi nel 1980 approda sotto le Due Torri. Giunge a Bologna per sostituire Kresimir Cosic, formidabile campione che con la Sinudyne vinse due scudetti in due anni: era la Virtus di Caglieris, Bertolotti, Villalta, Generali, Valenti; nel primo anno lo straniero che affiancava Creso era stato Wells, nel secondo il grande Jim McMillian, confermato anche per la stagione successiva. Marquinho arriva, quindi, in un ingranaggio perfettamente oliato, ma se Cosic era un giocatore completo, prima costruttore di gioco che finalizzatore, Marcos Leite era un grande realizzatore. Kresimir aveva fatto innamorare la Bologna bianconera, per chiunque sarebbe stato difficile da rimpiazzare e, infatti, il pubblico spesso mugugnava di fronte alle prestazioni del brasiliano. Non è un caso che, anche grazie alla sua esperienza internazionale, giocò ottime partite in Coppa dei Campioni lontano da Bologna, come nelle vittorie di Mosca, Madrid e Sarajevo (25 punti e una prestazione da vero leone in una gara vinta al supplementare) e nella sconfitta di Tel Aviv (26 punti e una grande difesa su Williams); risultò, però, anche il migliore realizzatore a Bologna contro il Real Madrid, nella partita che sancì l'accesso delle V nere in finale, ma in generale fu tra i grandi protagonisti della cavalcata delle V nere in Europa, un tragitto entusiasmante che si arrestò veramente a un passo dalla conquista continentale, quando a Strasburgo le V nere, prive di McMillian e penalizzate da un arbitraggio avverso, persero per un solo punto. Più altalenante fu il rendimento di Marquinho in campionato, dove tuttavia esibì qualche perla, come i quaranta punti segnati contro la Pintinox Brescia, con 17 su 24 al tiro o come a Varese, in gara uno di semifinale, quando giocò con la febbre e mise a segno ventidue punti, tra cui i quattro che permisero alla Virtus di agganciare la Turisanda e raggiungere così il supplementare, che vide prevalere la Virtus, pur priva degli infortunati  Bonamico e McMillian e che aveva perso Caglieris nel finale dei quaranta minuti, sempre per problemi fisici. Nei playoff, infatti, la squadra riscattò una stagione regolare non esaltante arrivando alla bella della finale scudetto, ma Marcos non c'era più, perché la rottura del quinto metacarpo della mano destra in gara uno costrinse lui a saltare le ultime due gare e i bolognesi a giocare in formazione interamente italiana le restanti partite. Chiuse la stagione con esattamente 1000 punti segnati in 56 gare alla media di 17,86 punti a partita. È uno dei 61 virtussini ad avere toccato quota mille, ma è tra i pochi ad averli fatti in una sola stagione. Segnò 648 punti in 39 gare di campionato (secondo della squadra, dietro a Villalta) e 352 in Coppa, migliore dei suoi. Quest'annata controversa del campione brasiliano era cominciata il 31 agosto del 1980 a Pesaro, in amichevole, esattamente quarant'anni fa. In quella gara in terra marchigiana, le V nere, al debutto stagionale, uscirono sconfitte 115-101 e Marquinho realizzò 28 punti. Alla fine della stagione le due finali conquistate non bastarono per garantirgli la conferma e riprese la strada del Brasile dopo aver ballato un solo anno, come il suo connazionale Eneas, eclettico giocatore di un Bologna calcio che passò dal meno cinque al settimo posto. I bolognesi non provarono mai "saudade" per quel duo brasiliano, che fu comunque protagonista di una stagione di grandi emozioni sportive, sicuramente superiori alle due annate successive.

I CANESTRI DECISIVI DEI GIOCATORI DELLA VIRTUS - VENTUNESIMA PUNTATA: MARQUINHO

di Ezio Liporesi-1000cuorirossoblu - 19/05/2023

 

Una sola stagione alla Virtus, pagando anche il fatto di arrivare dopo un grandissimo come Cosic, ma Marquinho fu il pivot che portò la Virtus in finale di Coppa dei Campioni e in finale scudetto (nella quale dovette saltare gara due e gara tre per infortunio). Proprio nella semifinale playoff fu decisivo:

  • in gara uno di semifinale a Varese, con la Virtus priva di McMillian e Bonamico, nel 1981 segnò a 4 secondi dalla fine, a rimbalzo su errore di Martini, il canestro che portò le V nere al supplementari, dove i bianconeri trionfarono. Il brasiliano, autore quella sera di 22 punti, poco prima aveva segnato anche il canestro del meno due.