"C'È SOLO UNA VIRTUS. E DOBBIAMO AMARLA"
Oggi il raduno dei bianconeri, con un'assenza storica, dopo 14 anni: Roberto Brunamonti
"La mia passione per questa squadra non verrà mai meno. I nuovi giocatori? Validi, e soprattutto orgogliosi di essere dei nostri"
La Rivoluzione: " È falso che lo spogliatoio si fosse rotto. Io sono qui e gli altri ex compagni pure"
Gli eredi: "Consigli per Galilea e Patavoukas? Nessuno. Non mi sembra che ne abbiano bisogno"
La Festa: "La partita del 14 settembre per me sarà un grande regalo. Ne sono grato a Cazzola e alla Fip"
di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 29/07/1996
Dopo quattordici raduni in bianconero - ventuno in totale considerando l'esperienza con Rieti - partirà con la squadra senza mettere in valigia canotta e calzoncini. Che cosa proverà questa sera Roberto Brunamonti?
" È difficile immaginare cosa mi passerà per la mente: per il momento mi sento ancora un giocatore. Ho cominciato a lavorare in ufficio, però non ho ancora visto i miei compagni allenarsi e giocare; oggi me ne renderò conto. È giusto così perché mi devo calare velocemente nella nuova relatà".
Oggi in sede. Tra qualche giorno in partenza per Norcia, a due passi dalla sua Spoleto: è solo un caso?
"Certo. La proposta di Norcia era la migliore tra quelle che ci avevano dato. A me hanno chiesto un giudizio sulla palestra, e devo dire sinceramente che mi sembra un bell'impianto".
Lei che ha smesso, Coldebella e Moretti che hanno scelto la Grecia, Orsini a Siena, Woolridge rispedito al mittente: che Virtus sarà?
"I giocatori che sono arrivati sono validi. Sono fondamentali le dichiarazioni che hanno rilasciato, sanno di aver raggiunto una società prestigiosa e sono orgogliosi di essere bianconeri".
Che consigli darà al suo successore, Galilea, e al neo acquisto Patavoukas?
"Nessuno. Mi metterò a loro disposizione per aiutarli, ma non mi sembra il caso di dispensare suggerimenti né a loro, né tantomeno agli altri".
Qualche "dritta" su Bologna però...
"In quel caso sì, ma credo che sappiano già molte cose. Questa è una città che vive di basket. I nostri tifosi amano il talento dei singoli, ma anche la capacità di mettersi al servizio della squadra, di stringere i denti, di lottare".
Nuovi arrivi, ma pure tante partenze. In giro si sussurra che presidente e allenatore abbiano voluto far piazza pulita perché si era rotto qualcosa nello spogliatoio.
"Si tratta di una vera e propria malignità. Il cambiamento c'è stato, indubbiamente, ma sono rimasti dei giocatori importanti e pure il sottoscritto è rimasto all'interno della società".
Veniamo agli obiettivi di questa stagione: in testa c'è sempre l'Euroclub?
"Sì, è un trofeo che vogliamo. Quest'anno poi le finali si disputano a Roma, dobbiamo approfittarne. Non mi interessa avere smesso, anzi, visto che compio gli anni in aprile, nello stesso periodo in cui si celebrano le "final four", vorrei ricevere un bel regalo".
Non corra troppo: pensiamo al 14 settembre, piuttosto e al Brunamonti-day. Come lo immagina? "Sono curioso di scoprirlo anch'io. Per ora so di aver ricevuto un grande regalo dalla Virtus e dalla federazione".
Un tempo con la nazionale, un tempo con la Virtus. Poi quella maglietta numero 4 che scompare, e che non potrà più essere indossata da nessuno. È pronto a commuoversi?
"Fatemi vivere quel momento e poi saprò dare una risposta: sono contento di essere arrivato a questo punto. Vorrei ringraziare soprattutto il presidente Cazzola, per quello che ha fatto per me".
Il numero uno della Virtus le ha anche assegnato un ruolo nello staff dirigenziale: sta già studiando da general manager?
"No, sono appena entrato e ne ho abbastanza dei miei compiti attuali. Sto seguendo il settore giovanile e voglio farlo bene. I primi giorni sono stati duri. Mi sedevo davanti alla scrivania, e non mi sembrava vero, mi veniva da fissare le finestre e guardare fuori. Adesso ho preso il ritmo giusto, sto imparando".
In campo erano proverbiali i suoi salti oltre le transenne, farà lo stesso con la scrivania?
"No, si è parlato fin troppo di queste mie azioni. Lo facevo io, senza alcun calcolo particolare, ma lo facevano e lo fanno tuttora tanti miei compagni. È questione di temperamento".
Adesso che ha smesso se la sentirebbe di dare il suo contributo a Bologna, magari come assessore allo sport?
"Mi piacerebbe, certo, ma vorrei farlo da indipendente, senza far parte di alcuno schieramento politico. Non credo che sia possibile".
Guardiamo indietro, Brunamonti. Ha qualche rimpianto? Magari quella Coppa dei campioni?
"Me lo sono sentito ripetere tante volte, ma non ne ho mai fatto un cruccio, anche se mi rendo conto che si tratta di un trofeo che alla Virtus manca. Per quel che mi riguarda posso solo dire che mi reputo un uomo fortunato".
Già: quattro scudetti, una Coppa Korac, una Coppa delle coppe, l'oro agli europei di Nantes, l'argento alle Olimpiadi di Mosca, qualche Coppa Italia...
"Mi sento fortunato indipendentemente da tutto questo. Vincere è importante, certo, ma è fondamentale quello che fai. E io, lo ribadisco, ho la fortuna di svolgere un'attività, che ha riempito nel migliore dei modi la mia esistenza. Sono ancora convinto che la passione sia una componente fondamentale".
E quella passione chiamata Virtus?
"Non è mai venuta meno".
"DOPO DI ME C‘È ANCORA LA VIRTUS"
Roberto Brunamonti: prima partita (e prima vittoria) dietro la panchina. "C'è chi ha parlato di mercenari: Cantù ha dimostrato che questo gruppo è formato da uomini veri. Devo confessare che con la Polti ho pensato: Bucci ora mi chiama. Poi ho scoperto di avere i calzoni da borghese. Sì, sono in pensione".
tratto da Il Resto del Carlimo - 24/09/1996
Brunamonti, domenica è accaduto.
"Cosa, scusi?".
Che lei sia diventato un pensionato a pieno titolo: oltre che per l'Europa, anche per il campionato"
"Vabbè, mettiamola così, anche se non è bello. Certo, per il basket sono un pensionato, ma non mi considero tale. Dici mo che sono uno nuovo per l'ambiente".
Beh, proprio nuovo non si può dire.
"Diciamo allora che è cambiata la mia posizione".
Infatti a Cantù lei era dietro la panchina.
"Dove si soffre tanto, non crediate: hai la partita che scorre davanti al tuo naso, ne vivi le tensioni, ma non puoi farci niente".
Le è mai capitato di pensare: adesso il coach mi chiama e vado in campo?
"Un paio di volte sì. Poi mi sono guardato le gambe, ho visto i pantaloni da borghese e tutto è passato. Adesso ho un altro ruolo, l'addio al basket è una cosa ancora fresca, ma presto mi abituerò del tutto".
Una sconfitta in Europa e la gente a dire: questa Virtus è meno forte delle ultime. È così vero che alla prima di campionato la sua ex squadra va. A sbancare Cantù, dove non vinceranno in tanti...
"È un destino di chi gioca con la V nera sul petto: solo le sconfitte fanno notizie. Non è bello, se è per quello neanche giusto, perché nello sport ci sta anche di perdere. Sottoquesto aspetto, i giocatori della Virtus fanno corsi accelerati: devono convivere con questo clima in un una città che da questa squadra si aspetta soltanto successi".
Vero. Ma è vero anche che questa nuova Virtus, così come è stata messa insieme, ha bisogno di più tempo di quelle che l'hanno preceduta. Cosa le è piaciuto della squadra che ha visto a Cantù?
"La reazione all'infortunio di Galilea. Non era facile dopo la sconfitta in coppa, oltretutto su un campo difficile come Cantù. Sono stati bravissimi: anche a smentire ciò che si era detto di questo gruppo".
Cosa, per la precisione?
"Quando la nuova Virtus è nata, ho sentito parlare di mercenari, di gente che qui era venuta solo per i soldi. Il denaro è importante, fa parte della vita, certo, ma dopo c'è sempre l'uomo: sotto questo aspetto è un altro esame superato".
A proposito di uomini, le buttiamo lì un nome: Bane Prelevic.
"Come giocatore no sono io a doverne parlare, come persona lo conosco ancora poco, ma quando sei stato per anni capitano del Paok a Salonicco, non sei uno qualsiasi. È un ragazzo di grande serietà, che si è preso a cuore le sorti della Virtus. In fondo, al di là di quello che è il suo valore tecnico, mettetevi nei suoi panni: cosa lo avrebbe spinto a lasciare la Grecia, dove ora tutti vogliono andare, per andare in un altro campionato se non la voglia, l'ambizione di rimettersi in gioco?".
Brunamonti, a Cantù ad un certo punto, si è vista una Virtus con quattro stranieri e un pesarese: cosa le è venuto in mente?
"Accetto la provocazione, ma la respingo subito. Il pesarese ci ha dato l'anima: l'ho visto giocare come un bolognese. E così ho visto i quattro stranieri: il discorso fatto per Prelevic vale anche per Patavoukas, Savic e Komazec. No, non ho visto quattro stranieri e un pesarese: semmai cinque giocatori della Virtus".
Concludendo, par di capire che questa Virtus la lasci tranquillo?
"In che senso?".
Nel senso che la sua eredità è in buone mani.
"I giocatori, anche quelli che sono stati tanti anni come me, passano, alla fine conta che quelli che ci sono buttino l'anima in campo. Alla gente piace vedere quelli che lottano, il resto sono chiacchiere."
C'È SOLO UN BRUNAMONTI
di Pietro Colnago - Giganti del Basket - Ottobre 1996
I portici di Piazza Maggiore che trasudano emozioni come il parquet di Piazzale Azzarita, da oggi battezzato PalaDozza, la sua nuova scrivania di dirigente che sembra fatta apposta per contenere una montagna di ricordi trasportati direttamente dallo spogliatoio del Madison bolognese, la quiete della sua famiglia che è così diversa dal chiasso contenuto di "Benso", il ristorante che possiede nel centro storico della città. Il mondo di Roberto Brunamonti, per tutti quello che lo conoscono solo "Robby" (con due "b"), o per i suoi tifosi ancor più semplicemente "il capitano", sembra essere rimasto uguale, lui stesso non sembra aver cambiato vita: certo, ora non è più il giocatore più anziano di tutta la serie A, ora non è più il leader in campo della sua Virtus, ma la sua presenza e il suo spessore di uomo, ancor prima che quello di cestista, saranno ancora presenti, saranno ancora utili per la causa comune, per quella pallacanestro che ha respirato a pieni polmoni per ventuno dei suoi trentasette anni, per quel mondo che, qualche giorno fa, gli ha tributato una lunghissima standing ovation quando, dopo aver indossato in una sola partita le due canottiere a lui più care (quella bianconera della Virtus targata Kinder e quella azzurra della nazionale), ha lasciato il campo con le lacrime agli occhi, con un groppo in gola che nemmeno il tempo potrà cancellare. Perché Brunamonti appartiene a quei giocatori che non hanno età, a quei campioni, come Meneghin tanto per fare un esempio, ai quali il dio dello sport, solitamente crudele e impietoso, ha regalato in dono l'immortalità.
Dirigente. Nella realtà nuda e cruda oggi Brunamonti, in giacca e cravatta, è un "dirigente" della sua società, incaricato di tenere i rapporti con i media e con gli sponsor, di guardare con attenzione al settore giovanile. "E spero di essere all'altezza della situazione" esordisce con quella modestia che ne ha sempre contraddistinto le gesta da giocatore "perché nonostante si dica che, con l'avvento del professionismo, quello che conta è il risultato immediato, il nostro futuro è rappresentato dalla bontà dei nostri vivai, dallo spessore dei nostri giovani. La pallacanestro continuerà ad essere lo sport più bello del mondo se accanto all'organizzazione continuerà ad esistere la componente divertimento. Questo è sempre stato il mio segreto: lavorare e faticare con il sorriso sulle labbra, vivere ogni esperienza, anche quelle più negative, come un qualcosa che serviva a farmi crescere e a far crescere la squadra. Avrò molta nostalgia, lo so già, soffrirò come un cane nel vedere i miei ex compagni in campo a lottare per un traguardo importante e mi mancheranno molto quelle emozioni vissute a fior di pelle che sono il pane quotidiano di un atleta. Ma questo era il momento giusto per smettere, quando ancora non sei costretto a rifugiarti nel ridicolo e sei in grado di uscire dal campo di gara, dopo mille sforzi, sulle tue gambe, senza essere portato a spalla come un peso da chi sta con te".
Album dei ricordi. Ed ora che è uscito di scena, ora che la sua maglia con il numero 4 è stata issata sulle volte del PalaDozza, è arrivato il momento di aprire l'album dei ricordi, di rivedere con la saggezza del "grande vecchio" quello che gil è capitato: gli esordi con Rieti con l'indimenticato Pentassuglia in panchina, il primo grande successo europeo ottenuto quasi per caso (la Coppa Korac del 1980), poi il passaggio a Bologna, il contributo fondamentale per la costruzione di un gruppo che sarebbe diventato per molti anni invincibile, almeno in Italia, la maturazione con la maglia azzurra e i successi internazionali, poi ancora il momento del declino, quello della decisione di abbandonare. "Ogni epoca ha i suoi lati positivi e quelli negativi" confessa "ma quando devi tirare le somme ti accorgi che, se hai fatto sempre tutto secondo coscienza, non puoi che avere dei buoni ricordi. Certo, gli scudetti con la Virtus, le medaglie agli Europei e alle Olimpiadi con la nazionale, la coppa con rieti non sono cose comuni a tutti ed è per questo che credo, anzi sono convinto, che tutto ciò compensi in maniera totale la delusione di non aver mai vinto, per esempio, un Euroclub". Da fuori, dal suo osservatorio distante ormai dal rettangolo in parquet, che campionato vede, che tipo di basket dovremo ammirare in futuro? "La pallacanestro è sempre quella, affascinante e completa, se vissuta senza filtri esterni. Quello che cambia è la maniera di interpretarla: con l'introduzione della sentenza Bosman, con l'arrivo del professionismo, con l'introduzione del mercato libero dai vincoli la realtà in cui si deve vivere è oggi diversa, non giudico se migliore o peggiore. Un giocatore deve essere in grado di gestirsi e non lo deve fare solo per il contratto che può spuntare. Certo, oggi sembra che il valore del singolo sia legato ai risultati che può portare ma non è sempre così: i giocatori della mia generazione forse si divertivano di più ed erano meno ricchi di quelli di oggi, ma è anche vero che lo stress che devono sopportare ora i giovani è dieci volte superiore a quello di una volta. Sono tutte cose da considerare ma alla base ci deve essere sempre un alto grado di passione, altrimenti anche un cieco potrebbe capire quando un atleta scende in campo solo per fare il suo dovere senza dare niente di più alla sua squadra e al suo pubblico".
Verità. Parole sacrosante, verità inconfutabili che Brunamonti ha tutto il diritto di esprimere senza paura di essere colto in fallo: lui la passione l'ha sempre messa davanti a tutto ed è per questo che, da semplice cestista, è diventato idolo di tutto il pubblico sportivo, e non solo quello di fede virtussina. "Ringrazio tutti quelli che mi sono stati vicini in questa avventura. Ringrazio prima di tutto la mia famiglia, che sempre posto le mie esigenze e i miei bisogni davanti a tutto, ringrazio tutti quelli che sono stati i miei compagni e i miei allenatori, i miei dirigenti e i miei tifosi. Ora che non sono più giocatore voglio comunque rimanere vicino al mondo del basket perché a questo mondo devo qualcosa. Speriamo solo di essere all'altezza di farlo". Ce la farai, Robby, perché uno come te avrà sempre al suo fianco il dio dello sport. Quello che ti ha già concesso l'immortalità.
BRUNAMONTI - DA CAPITANO A COACH E ADESSO DOVRÀ FARE IL MERCATO DELLA VIRTUS
di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 10/05/1997
V.P.E., ovvero vice presidente esecutivo. È il nuovo ruolo del "capitano", di Roberto Brunamonti che avrà pieni poteri per la costruzione della nuova Kinder. E se Ettore Messina è il primo tassello del quale partire per la ricostruzione del puzzle, Abbio è senz'altro il secondo. Il contratto di "Tiramolla" è in scadenza: Roberto e il giocatore si incontreranno presto per firmare il contratto. Il procuratore di Abbio (che sposerà Valentina tra dieci giorni) ha già parlato con Cazzola: sarà sufficiente limare qualcosina e l'accordo potrà essere sottoscritto. Terzo tassello Chicco Ravaglia (sotto contratto fino al 1999), dopodiché toccherà a Brunamonti trovare gli altri uomini per far grande la Virtus.
E se Messina è un cavallo di ritorno, potremmo incrociare degli altri. Moretti, per esempio, alle prese con le finali per il terzo posto in Grecia, e pure Danilovic che, dimentichiamolo, quando fu presentato nella palestra dell'Arcoveggio nell'ormai lontano 1992, disse di aver scelto la Virtus perchè era onorato di giocare al fianco di Brunamonti. Roby ha smesso canotta e calzoncini da nove mesi ma il suo carisma è intatto. Sasha potrebbe ascoltarlo con interesse qualora decidesse di rientrare dalla Nba.
La Kinder che sta prendendo forma (per trovare anche la consistenza giusta dovremo aspettare almeno un mese) e Brunamonti, che ha accettato con entusiasmo il nuovo incarico, non ha dubbi. "Partiamo da un presupposto - sottolinea Roberto - che la Virtus sarà sempre e comunque competitiva". Un bell'impegno, per l'ex numero 4 bianconero, che ha ricostruito così l'ultima stagione: "Un anno vissuto intensamente - racconta - durante il quale ho potuto toccare con mano tutti gli aspetti della pallacanestro. Se anche me lo avessero preannunciato non avrei prestato attenzione a quelle parole. Invece ho vissuto un'esperienza importante, che mi servirà. Ringrazio Lino Frattin e Roberto Nadalini che mi hanno aiutato tantissimo".
Fin qui il passato: ora incombe il presente, in chiave futura, perché c'è una piazza che smania per tornare in vetta, al più presto. "Ho letto talmente tanti nomi - scherza Brunamonti - che la Virtus pare in grado di mettere su tre o forse quattro squadre, spero che Ettore mi faccia allenare almeno l'ultima. Battute a parte: la Virtus parte ogni anno per vincere, per essere impegnata su tre fronti. Solo uno alla fine ce la fa, per questo dico che bisogna godere delle proprie vittorie".
I primi successi - in attesa di quelli veri, che si chiamano scudetto, Eurolega, e perché no, Coppa Italia - per Brunamonti coincideranno con i colpi mercato. "Sembra che ci sia solo la Virtus in lizza", prova a scherzare il vice presidente esecutivo, che però ha le orecchie puntate in direzione Milano. Se Stefanel smobilitasse ci sono almeno tre giocatori che potrebbero piacere anche al nuovo coach: Fucka, De Pol e Portaluppi.
BRUNAMONTI: "L'HO INSEGUITA PER TANTI ANNI MA È BELLO GIOCARLA ANCHE IN GIACCA E CRAVATTA"
di Gianni Cristofori - Il Resto del Carlino - 21/04/1998
Quattordici anni all'inseguimento con la canottiera bianconera appiccicata alla pelle. Poi due stagioni in giacca e cravatta, soffrendo tra una panchina scomoda e una scrivania zeppa di carte e di responsabilità. Ma la final four d'Europa, quella, è sempre scappata via, magari di un soffio, magari con un pizzico di sfortuna, ma, impietoso, il vento del continente non ha quasi mai portato soddisfazioni. E quando lo ha fatto, nella primavera del '90, dentro la Coppa delle Coppe, la prima della lunghissima storia bianconera, Roberto Brunamonti ha trovato il dolore di un infortunio che l'ha stoppato proprio negli ultimi e decisivi 40'.
"Sono contento così - dice l'ex capitano -, la mia è stata una carriera comunque piena di soddisfazioni e di cui non mi posso certo lamentare. Arrivare alla final four in giacca e cravatta è diverso, questo sì, ma credo che tutti i protagonisti di una bella avventura abbiano fatto la loro parte. I giocatori, l'allenatore e la società di cui faccio parte. Un traguardo che ci premia, che premia la Virtus soprattutto perché, nonostante qualche epilogo infelice, è sempre stata tra le prime del continente e sempre ci ha creduto. Anche quando, come quest'anno, qualche infortunio ha reso più complicato il cammino. La final four, certo, poteva arrivare prima, quando anch'io stavo sul parquet, ma sinceramente penso che la Kinder di quest'anno abbia qualcosa in più rispetto alle squadre che l'hanno preceduta".
In questo lungo inseguimento c'è stata, però, una volta in cui il traguardo sembrava vicinissimo. E, guarda caso, dall'altra parte della barricata c'era proprio Danilovic con la maglietta di Belgrado. È quello il ricordo meno felice? "Forse sì, Avevamo fatto un girone di qualificazione praticamente perfetto, guadagnando il primo posto con l'ultima vittoria sul campo del Maccabi. Tra noi e la finale c'era soltanto il Partizan e, per di più avevamo anche l'eventuale bella in casa. Il rimpianto di aver buttato una grande occasione fu reso più amaro proprio dal fatto che, poi, Danilovic e compagni vinsero la Coppa. Ma, sono sincero, altre volte mi sono reso conto che se non ci fossero stati mille contrattempi, qualche infortunio o un pizzico di sfortuna, la Virtus avrebbe potuto fare di più. Come nell'anno della vittoria Limoges che, in stagione regolare, avevamo battuto due volte su altrettante partite".
Ettore Messina dice che era più difficile arrivare fin qui che vincere l'Eurolega. Un'affermazione che, forse, è figlia dell'entusiasmo del dopo derby. "No, io credo che Ettore abbia ragione - continua il vicepresidente bianconero -. Negli anni ho visto che in questo campionato è successo di tutto e il contrario di tutto. Non sempre, anzi quasi mai, ha vinto la squadra che all'inizio tutti davano per favorita;, direi che è quasi impossibile stilare una tabella statistica. E anche la final four segue questa filosofia perché a due partite di distanza dalla coppa non esiste chi ha più da perdere o tutto da guadagnare. Il discorso vale per noi, per il Partizan, per la Benetton e l'Aek. Nessuno parte per Barcellona pensando che, comunque, un traguardo è stato raggiunto. Né la Virtus, che pure a questo appuntamento voleva e doveva arrivare, né il Partizan che si è trovato quasi inaspettatamente proiettato tra le prime quattro".
Lei ha vissuto questi appuntamenti su tre barricate: prima da giocatore, poi da allenatore e infine da dirigente. Oggi, dica la verità, vorrebbe essere sul parquet? "No, penso che debbano essere quelli che sul campo si sono guadagnati questa finale a giocare per la Coppa. Li invidio soltanto un po' perché, correndo dietro un pallone, la tensione vola via, almeno in parte, insieme al sudore. Per noi che stiamo in tribuna o sulla panchina sarà davvero dura".
UNA LUNGA STORIA D’AMORE
di Roberto Cornacchia - V Magazine gennaio 2009
Una lunga storia d’amore, in tutte le posizioni.
Ehi, non pensate male. La storia d’amore è quella tra Roberto Brunamonti e la Virtus. E le posizioni sono quelle rivestite dal Capitano. Tutte: giocatore, allenatore e dirigente. Nella lunga storia della società uno dei soli due ad aver ricoperto tutti e tre questi ruoli; a fargli compagnia in questo primato Galeazzo Dondi Dell’Orologio che completò lo stesso percorso agli albori del gioco, in un periodo in cui il basket era ancora palla al cesto. Tutti ruoli ricoperti con successo: 4 scudetti e 3 Coppe di vario genere sul campo, 2 scudetti e 5 Coppe - alcune veramente pesanti - da vicepresidente, addirittura una Coppa Italia nel breve periodo in cui sostituì Alberto Bucci per concludere la stagione 1996/97 che non trova riscontro negli annali perché la panchina, ufficialmente, era assegnata a Lino Frattin.
Una lunga storia d’amore durante la quale la grande passione non ha mai trasceso i limiti della correttezza, durante la quale la bravura e le vittorie non lo hanno mai portato a mettersi davanti agli altri, durante la quale le diverse situazioni difficili che ha vissuto da atleta e da uomo di sport non gli hanno mai fatto pronunciare parole cattive su qualcuno.
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E così sei tornato dietro alla scrivania, con grande dispiacere di un grande ex-virtussino come Pellanera che dice che uno come te dovrebbe allenare per trasmettere la conoscenza del gioco.
È una questione di passione, cosa che ho cercato di mettere in tutte le cose che ho fatto, al di là del piacere di farla. Ho sempre coltivato l’idea di rimanere nell’ambiente del basket una volta che avessi smesso di giocare ma mi vedevo, e continuo a vedermi, con un ruolo diverso da quello dell’allenatore. Poi non si sa mai, magari domani mi viene voglia di allenare dei ragazzini. Ma ora faccio quello che vorrei fare.
La tua esperienza da dirigente a Bologna.
Innanzitutto ne serbo un ricordo bellissimo, che non può essere scalfito dai fatti che determinarono le mie dimissioni, e non ho nessun rimpianto. Fu un periodo eccezionale dove tutto era perfetto: la squadra, la società, i tifosi. Vincemmo degli scudetti memorabili, salimmo due volte sul tetto d’Europa, molti dei giocatori che facevano parte di quelle squadre ora giocano con successo dall’altra parte dell’oceano. Per quanto stando dietro una scrivania le emozioni siano diverse rispetto a quelle che può provare chi scende in campo, posso assicurare che fare parte di un’organizzazione così valida e vedere il progetto a cui si partecipa prendere forma e realizzarsi al meglio delle previsioni è stata un’esperienza estremamente coinvolgente.
Poi qualcosa si guastò e cominciarono i problemi.
A Madrigali non posso non riconoscere il merito di aver costruito una squadra di altissimo livello. Se facemmo il grande Slam si deve sicuramente all’impegno, finanziario e non solo, che lui profuse. Poi l’anno seguente ci fu il famoso episodio dell’esonero di Ettore, con tutto quello che seguì. Conflitti di questo genere non sono certo rari, figuriamoci quando vi sono persone dalla forte personalità e con la pressione che provoca lo sport ad alto livello. Generalmente si cerca di convivere per il bene comune, anche perché avere qualcuno che la pensa diversamente può aiutare a vedere le cose sotto una luce diversa. Non posso nascondere che certe scelte di Madrigali non le ho capite: peccato che la frattura sia avvenuta a stagione in corso, perché con un clima diverso la squadra avrebbe potuto fare sicuramente di più.
In seguito trovasti un’altra Virtus ad accoglierti, dove i risultati raggiunti furono forse inferiori alle aspettative.
Non direi, se si considera cosa fosse Roma all’epoca del mio approdo: una squadra che aveva avuto le uniche stagioni vincenti 20 anni prima e che riteneva un risultato apprezzabile il raggiungimento dei quarti di finale ai play-offs. Sicuramente in questi ultimi anni Roma si è attestata su un livello più alto: è una presenza fissa nella fase conclusiva dei play-offs; è attualmente seconda in classifica e si sta giocando il secondo posto nel ranking italiano assieme a Bologna; in Eurolega è riuscita a raggiungere con pieno merito le Top16 senza essere l’emerita sconosciuta dei primi anni. Anche nel settore giovanile ha fatto enormi passi in avanti, raggiungendo ottimi risultati peraltro con ragazzi prevalentemente romani. Se è vero che per distruggere una società modello possono bastare pochi mesi, non dimentichiamo che non bastano una stagione o due per creare una società solida. Poi Roma è città particolare, che vive della grande passione per le due squadre di calcio cittadine: essere riusciti a far avvicinare al basket numerosi nuovi tifosi è un fatto positivo per tutto il movimento, non solo per la Virtus Roma.
Ora sei a Rieti, dove la situazione non è molto rosea.
A Rieti sono sempre rimasto molto affezionato e anche riconoscente: se non ci fosse stato Rieti nella mia carriera, non ci sarebbero state nemmeno Bologna e tutto il resto. Quindi mi ha fatto molto piacere tornare qua, quasi a saldare un vecchio debito di riconoscenza verso la società che per prima ha creduto in me, anche se ero perfettamente consapevole delle difficoltà che la società stava attraversando. Adesso la situazione è quella che è e io sto cercando di fare il possibile per aiutare.
Da uomo che ha conosciuto il basket da tutte le angolazioni, cosa suggeriresti per migliorare il basket italiano?
Aldilà di tutto quello che si sente dire nei vari convegni o incontri tra massimi esponenti del movimento che sono tutte cose giuste e sensate, personalmente credo che la cosa più importante sulla quale intervenire sia la ristrutturazione dei campionati. Spero proprio che Meneghin, ovviamente non da solo perché da solo non può nulla ma con l’appoggio di tutte le componenti in gioco, ci riesca. Si fa un gran parlare dei giocatori italiani che costano il doppio degli altri ma se non si fa in modo che questi, appena usciti dai settori giovanili, abbiano la possibilità di giocare, sbagliare, crescere ed essere visti, il problema non si risolve da solo. Non pensiamo solo al campionato di Serie A che è la punta dell’iceberg: è la parte sommersa quella che va migliorata, quella sulla quale intervenire.
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