PAOLO CONTI

Conti in una posa che ricorda il log della Nba (foto tratta da Giganti del Basket)

nato a: Bologna

il: 18/11/1938

altezza: 184

ruolo: playmaker

numero di maglia: 12

Stagioni alla Virtus: 1959/60 - 1960/61 - 1961/62

CONTI ALL'ORANSODA-VIRTUS

Lo ha confermato Neri durante una conferenza stampa

Stadio - 09/09/1959

 

Conti contrastato da Zagatti e Degli Esposti (foto tratta dal libro "Il S. Agostino")

PAOLO CONTI: L'ARTE NEL CESTO

Ragioniere per forza, dirigente d'industria per sbaglio, cestista di rango, artista in evoluzione

di Marino Bartoletti - Giganti del Basket - Marzo 1972

 

Il fatto che l'"homo cestista", appartenga a una delle più emancipate categorie di atleti è risaputo. O perlomeno è uno degli argomenti "in" sui quali con maggior frequenza battono i tamburini della propaganda baskettistica. In effetti il giocatore di pallacanestro, così raziocinante, o meglio, così disciplinatamente istintivo, sfugge facilmente alla nomea di atleta bruto con la quale, abitualmente, vengono gratificati gli adepti delle più varie discipline sportive. Bene, questo premesso, non è rado (ed è giusto salutarlo) vedere uscire dalla pur già selezionata massa qualcuno che voglia andare ancor più a fondo nei meandri dell'intelletto. È il caso di Paolo Conti, ragioniere per forza, dottore in economia e commercio di conseguenza, dirigente industriale per sbaglio, azzurro di basket per predisposizione, artista figurativo per libera scelta. Uomo intelligente per natura.

Una vita fatta di scelte, più o meno spontanee, più o meno condizionate. Ma anche una vita di successo inalveata, ora, nel suo corso più naturale. Almeno a detta dell'interessato. Difficilmente i grandi azzurri del passato (ed è un augurio anche per gli attuali ovviamente) hanno finito con l'arenarsi socialmente al termine della loro attività sportiva. Basta scegliere a caso. Ci sono esempi clamorosi. Da Pieri a Stefanini, da Calebotta a Primo, da Romanutti a Rubini, a Lucev, a Gualco... a tutti insomma. Basket come scuola di vita, no? Resta da verificare, piuttosto, la legittimità dell'appartenenza di Conti alla schiera degli "azzurrissimi".

Seguiteci. Bolognese purosangue (quindi con qualche globulo a forma di palla a spicchi). Esordio in nazionale (nazionale A, a scanso di equivoci) a diciassette anni quattro mesi e sei giorni (Italia-Belgio 48 a 44) nell'aprile del '56. Membro per lungo tempo (mi conforta l'opinione di Aldo Giordani) del miglior quintetto italiano. Protagonista di uno dei primi e più famosi "trasferimenti superpagati" (all'Ignis per l'esattezza). Escluso dalla Nazionale alla vigilia elle Olimpiadi di Roma per quella che l'eufemismo imperante impone di qualificare come "diversità di vedute" con Paratore, allora C.U. Rientro nel "giro" al termine dei Giochi. Dignitosissimo tramonto. Nell'Alcisa prima e nella Becchi poi. Ritiro definitivo nel '68. Ripresa "divertita" nel '71 nel gerontocomio forlivese. Il tutto (in senso positivo), condito da fior di ardite decisioni (in senso sociale).

Sul campanello di casa, a Bologna, cè ancora scritto "dottor Paolo Conti". La laurea (e il successo personale ovviamente) gli spianarono la strada verso una brillante carriera di dirigente industriale. Con tanti uomini alle sue dipendenze. Ma a Conti, non è mai andato a genio di dover avere "uomini alle sue dipendenze". Meno che meno gli è mai andato a genio il fatto di doversi inserire, lui stesso rotella, in un ingranaggio sociale che non è portato a condividere. E così ha finito con l'abbandonare tutto. E col riacquistare, insieme con la "libertà", una dimensione umana, uno spazio vitale verso cui si sente più portato. Così ha finito col fidanzarsi con l'arte. Il ménage è andato secondo i suoi piani. Ora si stanno preparando le carte per il matrimonio.

Dispensatemi da un'indegna critica della sua evoluzione artistica. Piuttosto sofferta, ma "necessaria". Dai guazzi, alle litografie, alla produzione "composita", agli attuali bassorilievi (?), sculture (?) in metallo. Quadri forse. Per forgiare i quali Conti, usa il materiale di scarto della grande industria. Lo scarto di una catena di montaggio quindi. Del quale si serve, con plastica eppur non troppo ermetica espressione, per ribellarsi a quella stessa società tecnologica che gli fornisce, senza saperlo, i prodotti della propria "autocontestazione". Quello di Conti un fraseggio elementare. Eppur non ingenuo. Fedelmente coerente con la sua ideologia politica.

La sua idea di partenza era dedicarsi all'arte per l'arte. Motivi contingenti gli hanno suggerito di fare un passo avanti. Ed ecco la prima mostra, al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Con tanto di autentico successo. Avallato dai successivi e ricusati inviti ad "ulteriori" esibizioni. Ma Conti, nell'arte, come nel basket, ama ponderare le cose. Agire a tempo debito. Per poi piazzare lo scatto razzente. Che l'ha reso famoso. Una perfetta coerenza di vita. Nella quale il basket, sport del raziocinio istintivo, ha avuto la sua parte. Non indifferente.

Conti insieme ad alcune sue opere (foto tratta da Giganti del Basket)

OGGI FA VIVERE IL FERRO L'EX FRECCIA DELLA NAZIONALE

Paolo Conti 30 presenze in maglia azzurra, rapito dal metallo

di Nando Machiavelli - Superbasket 1979

 

Ha toccato in questi giorni la soglia dei 40. Dicono che a questa età ricomincia la vita di un uomo e a fare con lui una chiacchierata si ha veramente l'idea di un nuovo entusiasmo. Paolo Conti, bolognese puro sangue, ex OARE, ex Motomorini, ex Virtus, ex Ignis, ex Fides, ex Forlì, carriera chiusa nel 1964, dopo essersi laureato in economia e commercio.

Un fugace ritorno (più avanti sapremo il perché) nel 1970 sui parquet, poi addio totale al basket, giocato e visto, nuove frontiere, interessi totalmente diversi. Correva i 100 metri in 10" e 9 decimi, a quell'epoca non era male, quindi ala velocissima, ovviamente specialista del contropiede e in più un bel tiro dalla media, sul fronte sinistro dell'attacco. Prima di accettare l'incontro fa un po' le bizze: "Sono da troppo tempo fuori dal giro", ma poi si scioglie e dice tutto.

Carriera. "Ho cominciato a 14 anni. Fu Franco Rizzi (ex Virtus anni '50 - n.d.r.) a dirmi di provare con il basket, allora a Bologna esisteva l'OARE, una polisportiva, il basket ers curato da Dino Fontana. Mi piacque, un paio d'anni come allievo, poi juniores, per farla breve a 17 anni fui convocato ad un concentramento giovanile di 120 giocatori, sotto l'occhio di Nello Paratore; poi divenimmo la metà, ed io ancora c'ero; poi 30, infine 15, non so come, ma ero tra questi.

In quell'epoca ero già passato alla Motomorini. Tra i miei compagni di allora ricordo Pieri, Nardi, Volpato, Motto, Rocchi, Volpini, Zollia. Dovevamo giocare contro la Svizzera, durante gli allenamenti venne a vederci McGregor, allora alla guida della nazionale A. Io contro la Svizzera non giocai, comunque un mese dopo venne la convocazione di McGregor per la nazionale A che doveva giocare contro il Belgio: morale a 17 anni, senza aver mai giocato in prima squadra, mi ritrovai inserito in nazionale".

"Con il Motomorini ho avuto grandi soddisfazioni, quella di giocare tra gente incredibilmente brava, come Roubanis, Sardagna, Vianello, Vittori, De Carli, un paio di stagioni; ricordo di aver realizzato 28 punti in un derby con la Virtus. Un anno dopo la squadra fu sciolta, passai alla Virtus della quale ho un ottimo ricordo nelle persone del dr. Lello Zambonelli, di Giulio Battilani. I miei compagni erano Lombardi, Alesini, Canna, Calebotta, Pellanera, arrivammo secondi, un infortunio bloccò Canna nel finale di campionato e la partita decisiva con il Simmenthal a Bologna la perdemmo con 3 punti di scarto. L'anno successivo se ne andò Tracuzzi e arrivò Kucharski, per me, e anche per alcuni compagni, fu una stagione magra, giocavano soltanto i reduci dalle Olimpiadi di Roma: per il sottoscritto, Barlucchi, Gambini, Paoletti e Sardagna solo tanta panchina. L'anno successivo, per alcune divergenze personali con un compagno, rifiutai di giocare con la Virtus. Intanto avevo fatto una tournée in Medio Oriente con il Simmenthal, che mi avrebbe acquistato, ma la Virtus chiede una cifra, per quei tempi, incredibile, credo 8 milioni, non se ne fece nulla, così passai all'Ignis, allenata da Tracuzzi; di qui, un incontro importante, quello con Franco Bertini".

Per uno che non voleva dir niente, non c'è male? Proseguiamo.

"Con Bertini parlavamo di filosofia, letteratura, musica classica, un anno magnifico, a Comerio, dove alloggiavamo, il commendator Borghi mi aiutò molto. Ma la lontananza da casa mi pesava e l'anno dopo tornai a Bologna, mi laureai e andai a lavorare. Con la Fides giocai l'ultimo campionato "vero". Intanto avevo scoperto la narrativa, Muller, Proust, Kafka, pigliai una sbandata, scrissi un libro "Alcuni come tanti", la storia di vita di qualche giorno che dovrebbe essere particolare ma invece è come tutti gli altri. Nel 1969 ero direttore commerciale di un'azienda bolognese, guadagnavo bene, a fine anno, con molte due figli a carico, salutai la compagnia e mi licenziai, cominciando a dipingere. Per 14 mesi tappato in casa, risultati nulla, bruciata la liquidazione, nel 1970, dovendo dare da mangiare ai miei accettai l'offerta del Forlì, guidato da Ranuzzi. Ero fuori dal mondo, i miei interessi erano del tutto diversi da quelli dei ragazzi della squadra, basket, cinema, donne, musica leggera; intanto un amico mi faceva collaborare ad un quotidiano, facevo cronache di consiglio regionale, tanto per arrotondare. È stato nel 1971 che ho avuto il colpo di fortuna: ho conosciuto i rottami di ferro. Andai da un amico che aveva una piccola industria, mi soffermai sugli scarti  del materiale ferroso usciti dalle presse, oggetti stupendi, non li modificai, semplicemente cambiai loro mondo, da quello dell'industria a quello dell'arte. A questo punto il rottame ha assunto un'altra dignità, ma solo all'apparenza, lui è sempre sé stesso, siamo noi che gli diamo, in funzione del ruolo, una valutazione diversa. Le cose vanno valutate per quello che sono, non per il ruolo che occupano".

Nel dire questo Paolo Conti mi avvicina ad una sua creazione, una piramide ricca di piccoli rottami, saldati tra di loro e spruzzati poi con vernice nera, qualcosa di straordinariamente caldo, nonostante il ferro!

Riprende Conti:

"Nel 1972 fui convocato al "Palazzo dei Diamanti' di Ferrara dal direttore Farina per una personale di 70 quadri di metallo. Debbo molto per questo ad Achille Canna che, in cambio di alcuni quadri, mi diede i soldi necessari alle cornici ed ai cataloghi . Nel 1972 feci una personale alla "Loggia" di Bologna, quadri e prime sculture, poi a Spoleto, al festival dei 2 mondi. Da allora ho finito con le mostre, fino al 1977 quando ho conosciuto l'eccezionale Falchi, proprietario della più nota galleria milanese. Da quel giorno per me sono finiti i problemi, organizzativi ed economici".

- Devi qualcosa a qualcuno?

"Sì, a mia moglie Noemi ed anche ai bambini, adesso Davide ha 12 anni e Leonardo 9, quando il loro papà per qualcuno diventò improvvisamente matto, lasciando il lavoro. Mia moglie mi ha sostenuto in modo magnifico ".

- Perché non vieni più al basket?

"Concepisco di praticare lo sport, non di assistervi, mi annoio. Qualche sera vado ancora a fare una seduta, con Canna e altri compagni di quei tempi, comunque ho momenti belli da ricordare, che non rinnego".

- Chi ti è rimasto impresso di quel mondo?

"In senso positivo Bill Bradley e Doug Moe per la loro bravura. Aza Nikolic per la signorilità e competenza".

- Perché alle tue opere hai dato nomi di stelle?

"Perché mi interesso di astronomia, poi anche di musica, poesia, saggistica".

- Non credi di esagerare con la parte dell'intellettuale?

"Lo sapevo che finiva così, ma io non ho nulla da dire a chi legge Topolino, sono convinto che sia una sua libera scelta che va rispettata, ma vuoi uccidermi perché a me piace Proust".

Trenta maglie azzurre, una parentesi importante di vita sui parquet, adesso rapito dal mondo dell'arte. Paolo Conti è tutto qui.