DAVIDE DIACCI

Diacci in un palleggio virtuosistico (foto tratta dal libro "3 Volte Virtus")

nato a: Modena

il: 14/02/1974

altezza:

ruolo: guardia

numero di maglia: 7 - 16

Stagioni alla Virtus: 1991/92 - 1992/93

statistiche individuali del sito di Legabasket

palmares individuale in Virtus: 1 scudetto

PROFILO

di Ezio Liporesi per Virtuspedia

 

Prodotto del settore giovanile bianconero, Davide Diacci, nel 1991/92 e nel 1992/93, disputa globalmente 40 gare segnando 20 punti. Nella prima stagione solo 5 presenze in campionato, nella seconda, in cui Davide diventa campione d'Italia con la Knorr, 20 gare di campionato con 12 punti, 10 partite di Eurolega con 4 punti e 5 di Coppa Italia segnando 2 punti. In entrambe le annate sportive fa anche parte della squadra juniores.

Diacci con la medaglia d'oro agli Campionati Europei cadetti di Salonicco nel 1991

IL FADE-AWAY DI DAVIDE DIACCI

di Davide Giudici - La Giornata Tipo - 18/04/2020

 

Modena, 1987

In un caldo pomeriggio d’estate, un’auto scura e di grossa cilindrata accosta al marciapiede senza spegnere il motore. La portiera posteriore si apre, spunta un mocassino lucido che precede un pantalone elegante. L’uomo distinto che scende dall’auto richiude la portiera con garbo e dà un ultimo tiro di sigaretta mentre si incammina verso un condominio a due piani. Una volta giunto davanti ai campanelli si aggiusta la cravatta, scorre i vari cognomi con l’indice finché trova quello che cerca: Geometra Diacci.

Pochi minuti più tardi, una decina di metri più su, una moka sbuffa impaziente finché la padrona di casa, una bella signora di mezz’età, spegne il fuoco e versa il caffè nella tazzina di porcellana, quella del servizio migliore che sfoggia per le grandi occasioni. Nel soggiorno, seduto in poltrona di fronte al marito, c’è l’avvocato Porelli, che proprio in quell’estate festeggia i suoi vent’anni da presidente, e padre padrone, della Virtus Bologna. Un uomo in missione. L’obiettivo, assolutamente dichiarato, è portare il quattordicenne Davide, uno dei migliori prospetti italiani dell’annata 1974, in bianconero. Dopo l’interesse di Pesaro e Milano, la Fortitudo è in pole position, grazie al rapporto di fiducia e collaborazione instaurato da tempo con la Città dei Ragazzi, la società di estrazione religiosa in cui il talento modenese è cresciuto, cestisticamente e non solo.

La Città dei Ragazzi non è solo una società sportiva o un oratorio, è soprattutto un playground e una fucina di talenti che, nel cuore della città dei motori, ha forgiato decine di giocatori coriacei, cresciuti giocando all’aperto a suon di canestri e gomitate. È qui che il piccolo Davide inizia a passare le sue giornate, facendosi notare fin da subito per il grande agonismo e la fame di vittoria. Osservando i ragazzi più grandi da bordo campo capisce subito che per poter competere deve migliorare, e alla svelta. Ball-handling, tecniche di passaggio, meccanica di tiro. Quando scopre il gancio cielo di Kareem, guardando uno dei rari video NBA che la televisione italiana trasmette a quei tempi, scende di corsa le scale, inforca la bici e pedala fin sotto la finestra del suo coach: “Marcoooo… m’insegni il gancio cieloooooo?” Passa qualche secondo e appare Marco Gatti, che sorridendo lo accompagna al campetto per iniziare subito l’allenamento di quel fondamentale. Nel frattempo Davide cresce a vista d’occhio e le sue doti non passano certo inosservate. Bologna calling…

“Grazie per il caffè.”

L’avvocato Porelli porge con gentilezza la tazzina alla mamma di Davide.

E sorridendo si rivolge a entrambi i genitori: “Temo sia arrivato il momento di prendere una decisione…”.

In quel salotto al quinto piano, mentre il sole inizia lentamente a calare nascondendosi tra i palazzi, si sta decidendo che direzione prenderà un destino. Il destino del loro ragazzo. La famiglia Diacci è a un bivio, uno di quei momenti in cui una scelta può cambiare per sempre il futuro di un ragazzo. Il blitz di Porelli, il blasone delle V Nere e il contenuto misterioso di una leggendaria valigetta, li convincono a scegliere la sponda bianconera.

Bologna non è New York, ma rispetto alla sonnolenta Modena di metà anni ‘80 ha tutta l’aria di una metropoli cosmopolita. Studenti provenienti da tutta Italia, un panorama musicale e artistico in grande fermento, gente di ogni tipo in giro a tutte le ore del giorno e della notte. Davide s’innamora a prima vista di quell’atmosfera, di quella vitalità, di quella vita. È cresciuto leggendo i grandi classici della letteratura, la mamma professoressa di francese gli ha trasmesso la passione per i grandi autori transalpini: Proust, Hugo, Flaubert, i poeti “maledetti” Verlaine, Rimbaud e Baudelaire. S’innamora di Dostoevskij, Tolstoj e Majakovskij, poi passa agli americani, Steinbeck e Hemingway su tutti, prima della Beat Generation. È all’ombra delle due torri che finalmente inizia a sentire il battito del mondo, lui che ama la musica e suona il pianoforte, grazie alle lezioni impartite dal jazzista modenese Davide Fregni. Ma il vero colpo di fulmine arriva dall’America Latina con la scoperta delle opere di Jorge Luis Borges, il padre del realismo magico, che interpreta la vita come una grande favola, e una grande menzogna. “Ah… l’America Latina” pensa tra sé e sé passeggiando sotto i portici.

A far da contrappeso a questa sua ricchissima sfera umanistica, riportandolo bruscamente con i piedi per terra, si erge un solo uomo, nemmeno troppo grosso, ma piuttosto severo: Ettore Messina.

La palestra dell’Arcoveggio, storico quartier generale del settore giovanile Virtus, è per Davide una sorta di Tana delle Tigri. Un luogo sacro, dove allenare non solo la tecnica, ma soprattutto la tenacia e l’ambizione, sotto lo sguardo attento di Messina, che lo ha voluto fortemente in qualità di Responsabile del Settore Giovanile bianconero, e del suo braccio armato Giordano Consolini. Il primo anno, durissimo, culmina con la conquista dello Scudetto Allievi, preludio a una serie di successi che lo spingono ad allenarsi sempre al limite delle proprie possibilità e iniziano a trasformare il basket in un’ossessione. Due anni dopo vince lo Scudetto Cadetti. Le sue performance gli valgono le prime convocazioni in nazionale. Con la maglia azzurra conquista la medaglia d’oro agli Europei Cadetti di Salonicco nel 1991, a cui fa seguito l’argento agli Europei Juniores di Budapest nel 1993.

L’8 Maggio di quello stesso anno, Roberto Brunamonti supera velocemente la metà campo e passa a Davide che, dal mezzoangolo, si affretta a concludere a fil di sirena evitando Kukoc e appoggiando da sotto, prima di alzare i pugni al cielo e scatenare la festa per lo Scudetto numero 11, il primo dei tre consecutivi dell’era Cazzola. Quei 2 punti, siglati un attimo prima dell’invasione di campo del PalaDozza, fissano il punteggio sul 117-84, un record tuttora imbattuto per le finali. Nella foto di squadra ufficiale di quella stagione, seduto alla destra di Danilovic, c’è un ragazzone rasato a zero, un look non certo in voga in quegli anni. Sasha lo prende subito in simpatia, gli piace quell’agonismo da slavo. Sasha chiede alla società che sia lui il compagno con cui dividere la camera in occasione delle trasferte e al termine degli allenamenti i due iniziano a sfidarsi in 1vs1. Davide vince una sola volta, il giorno prima di una partita di Eurolega in trasferta a Tel Aviv, ma il sospetto che la leggenda serba lo abbia lasciato vincere lo tormenta ancora oggi.

Gli Obsessive Stairs erano il quartetto di cui Davide faceva parte, una band piuttosto sgangherata che si radunava in un garage dalle parti di Via Zamboni, un piccolo rifugio artistico e bohemien dove poter sfuggire per qualche ora dalla rigidità del mondo Virtus. Una sera Davide e Sasha s’incontrano per caso in giro per Bologna. Il primo è a bordo di un Ciao senza targa e di dubbia provenienza, un regalo degli ultras bianconeri, mentre il secondo arriva sgommando sulla sua Porsche fiammante accompagnato da una modella olandese che farebbe resuscitare un morto. Davide invita il campione a seguirlo nei bassifondi, Sasha ama la musica e l’idea di unirsi alla band lo diverte. E fu così che in un garage ammuffito di periferia, uno dei più grandi giocatori di sempre cantò My Way a squarciagola davanti a una sventola olandese che lo guarda esterrefatta.

Dopo lo scudetto, Messina saluta le V Nere per guidare gli Azzurri, e sulla panchina virtussina arriva Alberto Bucci, che non lo riconferma, preferendogli un suo pretoriano come l’esperto Giampiero Savio. Ma Messina non lo abbandona, stima tanto quel ragazzo che in campo è sempre ponto a combattere e a dare il 200% per la squadra. Lo nomina capitano di quel suo geniale esperimento conosciuto come Nazionale Under 22, un’estensione delle giovanili azzurre fortemente voluta dal Commissario Tecnico per poter lavorare in prospettiva con tanti giovani, specialmente con i lunghi Marconato, Chiacig e Damiao, futuri pilastri della nazionale che vinse l’Oro agli Europei del 1999. Con la Nazionale Under 22, capitan Diacci partecipa a due stage negli USA, uno presso la Davidson University in North Carolina e l’altro alla Fordham University, vicino a New York.

Proprio in occasione della tournée americana orchestra, con la complicità di German Scarone, uno degli scherzi più belli della storia dell’umanità. La vittima è Antonio “Tony” Saccardo, spigoloso lungo vicentino di 216 cm, che viaggia nel posto davanti, a fianco dell’autista del mini-van ipertecnologico a noleggio su cui viaggiano i giovani azzurri. Tra gli infiniti accessori di quel mezzo avveniristico c’è il controllo radio da remoto, che dà dunque la possibilità di cambiare stazione anche a chi occupa i sedili posteriori. Saccardo, ignaro di tutto ciò, indossa un vistoso anello che inizia a sfilare e rinfilare sovrappensiero. Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione. Davide e German si scambiano un’occhiata e iniziano a cambiare stazione radio ogni volta che Saccardo accarezza il gioiello. Passa qualche minuto e Tony inizia ad accorgersi dell’incredibile correlazione tra il suo gesto e il passaggio da un canale all’altro. Inizia a esaltarsi, si bulla a gran voce con i compagni mostrando quel suo potere magico sfregandosi l’anello. La squadra arriva a destinazione, gioca la partita e sempre a bordo del mini-van, dove lo scherzo continua alla perfezione, raggiunge una tavola calda per cenare. In fondo alla sala c’è un televisore, al quale Saccardo si avvicina per vedere meglio… Altra occhiata furtiva tra capitan Diacci e Scarone, che scatta senza farsi vedere per recuperare il telecomando prima di nascondersi dietro a una parete. Il lungo vicentino accarezza l’anello e l’esaltazione precedente lascia il posto al terrore di avere poteri sovrannaturali che non riesce a controllare. Paonazzi in volto e con le lacrime agli occhi, i compagni lo seguono con lo sguardo mentre corre fuori dal locale urlando di paura. Il frastuono di quella indimenticabile risata liberatoria rimbomba come un tuono nella notte americana.

Brescia, 1996

Al di là di queste parentesi di puro divertimento, nel giro di due anni Davide ha però visto la propria carriera frenare bruscamente. La “sua” Virtus ha vinto altri due scudetti ma lo ha di fatto scaricato, girandolo in prestito a Cremona, dove disputa un’ottima stagione, poi a Brescia grazie alla mediazione di Danilovic, che fa di tutto per farlo allenare da un mostro sacro dei Balcani: Duško Vujošević. Un’annata sfortunata, quella bresciana, nata sotto i migliori auspici e deragliata a causa delle operazioni finanziarie del Presidente Corbelli, che a campionato in corso smantella la squadra per trasferire le sue risorse a Roma. È il segnale che Davide inconsciamente aspetta. Al termine di quella seconda stagione da professionista in Serie B, terminata con la delusione per la mancata promozione in A2, Davide è ormai profondamente insoddisfatto e infelice. Quella vita da giocatore di provincia, punto di arrivo più che dignitoso per tantissimi prodotti dei vivai blasonati, non lo appaga minimamente. Poco importa se davanti a sé c’è la prospettiva di una brillante carriera, non da campionissimo forse, ma che può comunque regalargli soddisfazioni sportive ed economiche. Gli ingaggi sono importanti ma il problema sono i contesti. Capisce che la moltitudine di ore passate in palestra, con sessioni quotidiane massacranti di tiro individuale, non lo hanno portato dove avrebbe voluto, ovvero al fianco di Danilovic, o almeno nei paraggi. Capisce che il basket gli ha già sottratto abbastanza tempo. E la sua sete di conoscenza del mondo, e di se stesso, non merita di essere barattata, specie a 22 anni.

A stagione finita parte per la sua prima, vera vacanza lunga, dopo anni di raduni e concentramenti che lo avevano incatenato al basket anche in estate. Sceglie il Brasile, dove risale la costa raggiungendo il Maranhão, per poi penetrare nello stato di Amazonas fino alla sua capitale Manaus. Durante quest’avventura capisce di non essere modenese o italiano, ma cittadino del mondo, anzi di un mondo, piuttosto lontano. Sente il bisogno di scavare a fondo nella propria anima per conoscerne i limiti, e se possibile, spostarli un po’ più in là. Per fare ciò non basta certo una vacanza, serve un viaggio. Un viaggio spirituale, da compiere a piedi, senza agi e senza meta, le tre prerogative per andare davvero lontano. Al rientro da quella vacanza comunica ai genitori, e alla Virtus che su di lui aveva investito parecchio, l’intenzione di ripartire, stavolta senza alcun biglietto di ritorno. Con più libri che vestiti dentro lo zaino riparte, ancora una volta per il Brasile, dove risale nuovamente la costa ma con un approccio diverso, vivendo quella sensazione unica e fanciullesca che pochi adulti hanno il coraggio, e l’incoscienza, di provare almeno una volta nella vita: viaggiare senza chiedersi troppo dove andare, cosa fare e quando tornare. Il suo girovagare lo porta nei piccoli e remoti villaggi di pescatori a ridosso dell’Atlantico, dove la povertà dilagante viene vissuta con grande dignità. Dove mancano le auto e ci si muove in asino, dove manca l’elettricità e si accendono le candele. Dove l’unico asfalto è la sabbia dell’Oceano. Proseguendo raggiunge il delta del Rio delle Amazzoni, dove s’imbarca su una chiatta che trasporta di tutto e dopo sei giorni e sei notti di navigazione riabbraccia Manaus.

I giorni scorrono lenti e la sua voglia di avventura cresce sempre di più. Così, in compagnia di un amico, sale su una piccola canoa di legno e si addentra nella giungla per pescare qualche piranha. Il famigerato pesce è molto diffuso in quelle placide acque fluviali e bastano una lenza, un amo e un pezzo di pane per pescarne a volontà. All’improvviso un movimento brusco, amplificato dalla sua stazza da ala grande costretta in quell’imbarcazione sottodimensionata, gli fa perdere l’equilibrio ribaltandolo in acqua. Con l’adrenalina a mille prova e riprova a risalire, annaspando e urlando a squarcia gola, ma non c’è verso di farcela. In preda al panico inizia a nuotare come un forsennato verso la riva più vicina, sperando di non perdere nemmeno una goccia di sangue per non svegliare gli istinti carnivori delle sue ormai ex-prede. Dopo aver polverizzato il record del mondo raggiunge una spiaggetta e, spossato più dalla paura che dalla fatica, ringrazia il dio del fiume per averlo risparmiato. Scampato il pericolo, riparte verso nord, attraversando la foresta pluviale, e raggiunge Boa Vista dopo un viaggio che invece delle preventivate diciotto ore dura ben quattro giorni a causa delle forti piogge che rendono impraticabile la BR174, l’unica strada che attraversa lo stato brasiliano di Roraima. Gli autobus si devono arrendere al fango e per proseguire servono trattori e cavalli, oltre a una pazienza infinita. Entra in Venezuela dalla frontiera meridionale, scopre il fascino di Caracas, si tuffa per la prima volta nel Mar dei Caraibi, poi punta dritto verso le Ande passando per Merida. Dopo un mese lascia il paese di Bolivar e raggiunge la Colombia, dove compie il passo decisivo per allontanarsi definitivamente dalla condizione agiata del turista. Mentre in Italia la Benetton Treviso vince il suo secondo scudetto, Davide inizia a dipingere per strada e decide di vivere con ciò che la strada stessa gli avrebbe offerto. Dorme dove capita, spesso in bettole da due dollari a notte, mangia i cibi poveri acquistati nei mercati popolari, sorprendendosi di sentirsi fin da subito in perfetta simbiosi con la vita sui marciapiedi di Bogotà e delle altre città colombiane. Un ambiente allegro, variopinto, ma anche estremamente pericoloso…

Medellin, 1997

Pablo Escobar è morto appena 4 anni prima, crivellato dai colpi sparati dal Bloque de Búsqueda, l’unità speciale creata appositamente per catturare, vivo o morto, El Patrón della cocaina. Al potere, più che il Presidente “fantoccio” Ernesto Samper, c’è lo spietato Cartello de Cali, e per le strade del paese gli agguati e le sparatorie sono all’ordine del giorno. Davide impara a tenere gli occhi spalancati anche quando dorme, costruendosi giorno dopo giorno quella corazza necessaria per sopravvivere in quel contesto lontano anni luce dai palazzetti in cui è cresciuto. In Paseo Carabobo, nel cuore di Medellin, oltre ai fumatori di crack, ci sono prostitute, travestiti e sicari, tutti in attesa dei rispettivi clienti. Come si riconoscono i sicari? È facile: sono vestiti di bianco e indossano vistosi gioielli d’oro. Qui, dove si ammazza per un paio di scarpe nuove, l’oro non è simbolo di ricchezza ma di forza, quella forza necessaria per ostentarlo senza alcun timore. Un pomeriggio, mentre confeziona braccialetti colorati da vendere ai passanti, Davide viene avvicinato da un personaggio vestito di bianco che porta al collo una catena d’oro di almeno 1 kg.

“Hey, tu eres un gringo, verdad?”

In tutta l’America Latina, dal Messico alla Patagonia, “Gringo” è il termine dispregiativo per indicare un cittadino degli Stati Uniti, non esattamente ben visti nel resto del nuovo continente a causa delle innumerevoli interferenze, per usare un eufemismo, perpetrate nei secoli.

“No amigo, soy italiano”.

Il sicario lo guarda di traverso prima di sentenziare: “No te creo, muéstrame tus papeles”.

Davide estrae nervosamente dalla tasca la copia del passaporto e gliela sottopone.

“Ah, italiano… Roberto Baggio y mafia! Tienes suerte, porque nosotros, a los gringos…”
e mentre termina la frase, con un ghigno inquietante estrae dalla giacca una pistola nuova di zecca che gli punta in fronte…

“…Bum Bum!”.

Soddisfatto dello sguardo di terrore dell’italiano, chiede il prezzo di un braccialetto.

“5.000 pesos”. Il sicario nasconde l’arma e dal portafoglio estrae tutto quello che ha, ovvero meno della metà del valore.

Davide ovviamente accetta di buon grado e il killer, tutto soddisfatto, se ne va con il nuovo acquisto al polso. Una mattina, mentre dipinge sul marciapiede, Davide si sente toccare sulla spalla. È il suo “amico” vestito di bianco che stringe tra le mani un rotolo pieno di banconote: “Tu has sido buena onda conmigo” e gli porge 12.000 pesos, oltre il doppio del valore del braccialetto acquistato giorni prima. Nei giorni a seguire i due si rincontrano spesso. Il sicario racconta la propria storia, intrisa di abbandoni e violenze. Il mondo è pieno di persone in fondo giuste a cui la vita non ha dato alcuna scelta. Lasciata la Colombia, che per lui sarà sempre una sorta di Grande Madre che in poco tempo gli ha insegnato tantissimo, riparte verso Sud, giungendo in Ecuador attraversando le Ande per poi terminare questo primo, incredibile viaggio, emozionandosi davanti all’immensità del Pacifico.

Dopo poco più di un anno rientra in Italia e una mattina di settembre, mentre passeggia per Modena, viene raggiunto da un signore elegante e con pochi capelli che gli propone di tornare in campo. Accetta l’offerta generosa di Rubiera e così, dopo tanta sabbia, fango e asfalto, torna a calpestare il morbido parquet. Anche chi lo conosce, non lo riconosce. Capelli lunghissimi, ricci e biondi, che arrivano a metà schiena. Un tatuaggio inquietante gli colora il braccio destro. E lo sguardo è ancora perso tra la giungla amazzonica e i marciapiedi colombiani. Sembra un selvaggio. Anzi lo è. La vita di strada lo ha segnato profondamente. Decide di riallacciare le scarpe accettando la ricca offerta di Rubiera, ma la convivenza con gli ultimi della terra lo ha allontanato definitivamente dal perbenismo occidentale e quella violenza così necessaria per farsi rispettare tra le strade di Medellin o Rio de Janeiro inizia a riaffiorare. Gli anni passati al playground della Città dei Ragazzi, la formazione militaresca dell’Arcoveggio e la vita di strada in America Latina hanno dato vita a un cocktail esplosivo. E il teatro delle esplosioni è quasi sempre il campo da basket. Riabituarsi al normale contatto fisico che fa parte del basket è più complicato del previsto, ad altre latitudini una spinta è il preludio alla comparsa del coltello o dell’arma da fuoco, quindi nel dubbio meglio colpire per primo e colpire forte. Davide gioca duro, e quando trova del duro, e del puro, i colpi rimangono dentro il lecito. Ma se qualcuno risponde con una lamentela, una parola sbagliata, o peggio ancora un’offesa o un colpo basso, meglio iniziare a correre. Dopo una prima stagione burrascosa sulle rive del Secchia, culminata con una squalifica di alcune giornate, si trasferisce a Fidenza, in C1. Grazie alla sapiente guida di coach Simone Lottici e alla sua proposta di basket estremamente offensivo e spettacolare, gioca un ottimo campionato che gli permette di tornare a Rubiera con grandi aspettative. Ma il destino gli gioca un brutto scherzo e dopo una manciata di giornate, in una trasferta a Roma, si rompe il crociato. Tutti si aspettano una sua partenza immediata, invece da vero professionista resta vicino alla squadra per tutta stagione, allenandosi a bordo campo fino al momento del rientro. Il bilancio di quegli anni è positivo, gioca buoni campionati in squadre sempre competitive, ma le promozioni non arrivano e probabilmente il momento più emozionante di quelle stagioni coincide sempre con l’ultima partita, quando scende in campo sapendo che il giorno dopo sarà di nuovo libero di riempire lo zaino e ripartire, solo con i suoi libri, per poi ripresentarsi tre mesi più tardi, appena in tempo per iniziare la preparazione.

Durante quelle lunghe estati fa spesso ritorno nella “sua” America Latina dove, tra le altre mirabolanti avventure, visita tutte le Isole Galapagos navigando per oltre un mese a bordo di scalcinati mercantili, scala i 5.752 metri del Nevado Pisco in Perù in compagnia di un indio, conosce i contadini de La Higuera che inconsciamente avevano mostrato all’esercito boliviano l’ultimo nascondiglio di Che Guevara, raggiunge il Machu Picchu e Nazca percorrendo sentieri alternativi, attraversa il Deserto del Sale e la Valle della Luna, si rinfresca sul Lago Titicaca e visita le miniere di Potosì, dove la “plata” estratta per secoli ha riempito i forzieri spagnoli e i cavaeu americani, non certo le tasche dei poveri della zona.

Ma in quegli anni il viaggio che più gli resta nel cuore è quello che lo porta in Medioriente. In una fresca mattina di giugno sale su un treno a Modena e scende a Brindisi, dove s’imbarca per Cesme, il porto di Smirne, terza città della Turchia. Da lì si mette in viaggio verso Est, attraversa la Cappadocia, raggiunge il Lago Van, attraversa il Kurdistan e raggiunge la Siria. S’innamora di Damasco, Aleppo, Palmira, Homs, città meravigliose oggi devastate dopo anni di assurda guerra. In Giordania si ferma per qualche tempo ad Aqaba, un paradiso per le immersioni subacquee, la sua destinazione è Alessandria d’Egitto, da cui dovrebbe imbarcarsi per la Sicilia, ma il piano salta e senza troppi pensieri gira i tacchi e si rimette in cammino, altro che aereo, qui non c’è nessun Oceano di mezzo. Sulla via del ritorno attraversa il Libano e rientra in Anatolia, dove scopre una perla di rara bellezza, la cittadina di Olympos, adagiata sulle scogliere che lambiscono l’Egeo. Alla fine di quel viaggio indimenticabile rientra a Rubiera, sempre alla corte di Enzo Iezzi, che nel 1999 allestisce una vera corazzata per tentare l’assalto definitivo alla B1. Oltre a Davide, ci sono Luca Usberti, Diego Savazzi, Simone Cervi e il compianto Marco Marchetti. Ma la storia a volte si ripete e alcuni segnali che la vita ci lancia servono per sterzare bruscamente verso un destino diverso. A metà stagione, Iezzi coglie l’opportunità di diventare presidente di Montecatini, in A1. I soldi destinati a completare quella stagione svaniscono nel nulla, la squadra deraglia ma, faticosamente, si salva. Giusto un attimo prima che la società fallisca. Ancora una volta strani intrighi finanziari lo deludono e lo spingono a scegliere una strada diversa da percorrere, ovviamente con lo zaino in spalla e il cuore nelle scarpe.

Nel giugno del 2000, qualche settimana dopo i primi titoli di Kobe e della Fortitudo, riparte sorvolando per l’ennesima volta l’Atlantico puntando solo un po’ più a nord. L’ha sognata per anni e ora finalmente l’ha raggiunta: Cuba. E con L’Havana è amore a prima vista. Forse ispirato dai luoghi del cuore di Hemingway, inizia a scrivere un diario di viaggio, intitolato “Gaude Mihi”, una sorta di monologo interiore in cui racconta tutto ciò che vede ma soprattutto tutto ciò che sente, senza filtri, affidandosi alla tecnica narrativa dello “stream of consciousness” di Joyce. In lui, da sempre, convivono due anime: una folle e avventuriera, una severa e giudicatrice. Per due mesi gira l’isola in lungo e in largo a bordo di trattori, asini e carrozze, poi riparte alla volta del Messico e raggiunge lo Yucatán, dove trova lavoro come traduttore in cambio di tanti tacos al formaggio e una cabaña davanti al mare turchese di Tulum. In quel paradiso terrestre, una mattina sente bussare alla porta: è un vecchio e caro amico, il viaggio, che lo chiama ancora una volta.

Arriva a Puebla in autostop, dopo un cammino interminabile. Si sta riposando in un parco quando viene avvicinato da una persona, che in un primo momento allontana, sicuro che si tratti di un delinquente.

“Hermano, tu hai bisogno di aiuto”.

“No hermano, io non ho bisogno di aiuto, tu piuttosto sembri averne bisogno, e ti assicuro che se resti qui a infastidirmi ancora avrai senz’altro bisogno di aiuto”.

Il giorno seguente i due si rincontrano e Davide capta le buone intenzioni di quello strano personaggio. Accetta di seguirlo e scopre che Rafael, questo il suo nome, è un missionario coltissimo dal passato incredibile: ha vissuto dieci anni a Calcutta al fianco di Madre Teresa di Calcutta ed è sopravvissuto a un incidente aereo. I due passeggiano fino al dormitorio gestito dalla Chiesa Cattolica, dove Davide verrà ospitato per oltre un mese nonostante il suo ateismo conclamato. Lasciata Puebla, scopre l’immensità del D.F. (Distrito Federal, ovvero Città del Messico) prima di incamminarsi verso nord. Attraversa l’incantevole Guanajato e soprattutto il deserto che circonda San Luis de Potosì, dove gli indios Huicholes escono di notte armati arco e frecce per cacciare gli spiriti. Saltando da un camion all’altro passa la frontiera e rientra negli Stati Uniti dalla porta di servizio, altro che gli stage con la Nazionale. Sono passati meno di cinque anni, sembrano cinquanta. Arriva a San Antonio, dove registra un CD di musica italiana per proporsi come cantante nei locali della zona in cambio di qualche soldo. Qualche settimana dopo lascia il Texas senza aver guadagnato un penny e si rimette in viaggio verso la California. In quel momento sia il basket che il cosiddetto primo mondo sono ben lontani dalle sue priorità, quindi niente Spurs, né Lakers, né Warriors. Anche il suo “American Dream” non lo affascina particolarmente e, mentre pulisce i bagni in comune di un ostello di San Francisco, sente il richiamo della “sua” gente. E così riattraversa il Rio Bravo e rientra in Messico.

Trova lavoro come buttafuori in una discoteca di San Cristóbal de Las Casas, dove una notte finisce minacciato da due poliziotti ubriachi che gli appoggiano delicatamente la canna della pistola alla tempia, prima di andarsene barcollando a smaltire la sbornia in qualche bordello. Sono gli anni in cui il leggendario Subcomandante Marcos, leader dell’EZLN, dopo aver cacciato i grandi latifondisti dal Chapas, ha ridistribuito le terre alle piccole comunità autoctone della zona. Con un escamotage, Davide falsifica le proprie credenziali e viene inviato come osservatore internazionale presso gli Tzental, un tribù indigena del Chapas, con cui Davide inizia a convivere. Dopo le dure giornate di lavoro, gli uomini del villaggio si radunano al tramonto per giocare scalzi su un campo da basket surreale, dove un canestro è alto 3.50 e l’altro 2.70, dove il fondo è in terra battuta e il pallone è un residuato di un “tango” cucito e rattoppato dozzine di volte. E mentre coach D’Antoni vince il suo secondo scudetto con Treviso, a migliaia di chilometri più a ovest, nel cuore della giungla e sotto un cielo infuocato, un gigante biondo che porta spalle a canestro quei piccoli uomini scuri e dalle gambe storte assapora tutto il gusto della felicità.

Lasciato il Chapas messicano giunge in Guatemala, dove si lascia ipnotizzare dai mille colori sgargianti delle stoffe e dal riflesso dei vulcani che si specchiano pigramente nel Lago Atitlán. Il suo misticismo sta per prendere il sopravvento quando s’imbatte in un trio di amici che lo riportano prima alla spensieratezza, poi a Cuba. È qui che scoprono quasi per caso come guadagnare i soldi necessari per vivere più che dignitosamente senza spaccarsi la schiena: gli esuli di Miami, passando dal Messico, inviano ai propri parenti rimasti sull’isola centinaia di valigie piene di abiti e prodotti, ma servono i corrieri, o meglio, i facchini. E così i quattro amici iniziano a fare la spola, trasportando sigari Cohiba all’andata e valigie rigonfie di Nike e Ray-Ban al ritorno. Dopo tre mesi gli amici si dividono e Davide riparte per poter avverare un altro sogno: imbarcarsi per la Polinesia. Dopo un lungo viaggio arriva in Honduras e s’imbarca per l’isola di Utila, dove si ferma qualche tempo guadagnandosi da vivere come istruttore subacqueo, poi, dopo una tappa nel piccolo ma tormentato El Salvador, entra in Nicaragua. Giunto sulle rive del grande Lago Cocibolca (o più semplicemente Lago Nicaragua) s’imbarca per l’isola di Ometepe. Una mattina carica su una piccola canoa il sacco a pelo, qualche frutto e un libro mediocre, e inizia a vogare alla volta di un minuscolo isolotto di fronte alla costa, un lembo di sabbia ricoperto da qualche albero dove passare la notte in solitudine. Giunto a destinazione, mentre si rilassa sulla spiaggia deserta, spunta una scimmia che lo attacca per sottrargli i pochi viveri. Davide raccoglie velocemente il remo e assesta un colpo sul muso della bestia, che scappa con la coda tra le gambe. Scampato il pericolo, torna a immergersi nei propri pensieri godendosi la quiete di quell’angolo di paradiso. È sul punto di addormentarsi quando sente un crescendo di rumori avvicinarsi. Si alza di scatto e, voltandosi verso gli alberi, il sangue gli si gela nelle vene. Un’orda di cinquanta scimmie sta correndo verso di lui con intenzioni tutt’altro che amichevoli. Si guarda intorno e capisce che l’unico modo per scamparla è gettarsi in acqua. E così, dopo essersi allontanato dalla costa nuotando con il cuore in gola, osserva le scimmie banchettare con il suo piccolo equipaggiamento. Resta in ammollo a lungo, sempre a debita distanza, finché vede l’orda di primati ritirarsi sugli alberi. Riesce a recuperare la canoa e ad allontanarsi per sempre da quella dannata isoletta. Scampato il pericolo, attraversa il Costa Rica e finalmente raggiunge Panama, dove cerca disperatamente un passaggio via mare per le isole del Pacifico. Dopo una lunga e infruttuosa attesa si arrende e, per consolarsi, sale a bordo del Larinda, uno splendido veliero di una coppia di americani che salpano alla volta dell’arcipelago di Bocas del Toro, prima di puntare alla Giamaica e infine a Grand Cayman. Dopo oltre due mesi di navigazione nel Mar dei Caraibi approdano in Florida, dove a Davide viene negato il visto di soggiorno. Dopo due anni di acque cristalline, indigeni e tacos, forse è arrivato il momento di riassaporare il gusto pieno dei tortellini scrutando all’orizzonte il profilo sinuoso degli Appennini.

Rientrato in Italia, dove riabbraccia i genitori e la sorella, non ha nemmeno il tempo di annoiarsi che gli amici conosciuti in Guatemala lo invitano ad Alcudia, un piccolo villaggio sull’isola di Maiorca. Per un istante esita, la mamma lo reclama, ma lui riparte promettendole un rientro rapido: “Mamma stai tranquilla, massimo dieci giorni…”

Allo scoccare del decimo giorno decide che è tempo di nuove avventure, la mamma capirà. Con altri amici che si sono aggiunti alla compagnia, compra un furgone e partono in nove per l’Andalusia. Dopo diverse tappe la comitiva si assottiglia, l’Africa inizia a chiamare e Davide più altri tre proseguono per il Marocco, dove vagano per due mesi prima di attraversare il Sahara Occidentale e la Mauritania, giungendo a Dakar, l’allegra capitale del Senegal. Qui la compagnia si scioglie e lui prosegue da solo fino in Mali, arriva a Timbuctù, conosce la tribù dei Dogon e poco prima di Natale fa ritorno a Modena, portando in dote una febbre altissima che sa tanto di malaria. Ricoverato nel reparto infettivi, vive una grande esperienza umana entrando in contatto con tanti malati di AIDS, ancora vittime di quei pregiudizi nati con quel maledetto spot tv dell’alone viola. Nonostante la febbre e il parere contrario dei medici, firma per uscire, perchè quel Natale, costi quel che costi, lo vuol passare in famiglia. Perché proprio alla famiglia deve dare una notizia: ai primi di Gennaio ripartirà per il Brasile.

Salvador de Bahia, 2003

E così, pochi giorni dopo Capodanno, Davide ritorna nella città più africana di tutto il continente latinoamericano, dove per secoli le navi olandesi, spagnole e portoghesi hanno scaricato migliaia di schiavi destinati alle piantagioni e alle miniere. Dalle famigerate negriere però non scendevano solo schiene frustate a sangue, volti tumefatti dalle bastonate e muscoli incatenati: nella Baìa de Todos os Santos approdarono secoli e secoli di quella cultura africana che, tramandata oralmente, iniziò a permeare tutto il nordest brasiliano. Non è un caso quindi che Bahia abbia dato i natali a un numero impressionante di poeti e scrittori, pittori e musicisti, oltre che al samba, al forrò e alla capoeira. È tra i vicoli ciottolati e variopinti del Pelourinho (che in portoghese significa il palo della gogna, dove gli schiavi venivano fustigati) che Davide, dopo tanto girovagare, sente un ritmo uguale a quello del suo cuore pulsante. E all’ombra del Farol da Barra matura una decisione che cambierà per sempre la sua vita: capisce che è giunto il momento di fermarsi.

Si fermano le gambe, non l’anima: durante i primi mesi del buen retiro Bahiano termina il suo libro e inizia a collaborare con una ONG impegnata nel creare opportunità in ambito culturale per i “meninos da rua”, i ragazzi di strada nati poverissimi e spesso destinati a popolare una delle numerose “bocas de fumo” presenti in città, luoghi infernali dove gli zombie del crack si ammassano per fumare fino alla morte al riparo dagli sguardi indiscreti dei turisti. Incoraggia i ragazzi a leggere, a dipingere, ad appassionarsi al teatro e alla musica: vorrebbe trasmettere tutta la cultura che ha avuto la fortuna di assorbire ai più sfortunati. Lentamente, senza accorgersene, quelle radici che aveva strappato violentemente dalla Pianura Padana iniziano ad aggrapparsi al terriccio del Barrio da Ribera, dove si costruisce una casa a due passi dalla spiaggia. In questo impeto di apparente normalità trova l’amore e sposa Giorgia, che nel 2006 dà alla luce la piccola Sophia. Se la paternità è un’esperienza che travolge, e stravolge, per Davide è lo spartiacque decisivo, il momento in cui quel drago che ha da sempre abitato in lui trova finalmente la pace, ammansito da quella piccola creatura indifesa venuta al mondo tra le palme di Bahia.

Ben presto però si rende conto che per crescere al meglio Sophia non bastano le risorse che quell’angolo colorato di Brasile mette a disposizione. Davide non ha mai rinnegato le sue origini, la sua famiglia, la sua educazione: tutt’altro. Non si è messo in viaggio, come fanno in tanti, per dimenticare e ripartire da zero. Quando si è messo in viaggio lo ha fatto con uno scopo ben preciso, ovvero ampliare il raggio delle sue conoscenze, dentro e fuori se stesso. È ben conscio della fortuna che lo baciato, permettendogli di nascere e crescere in un contesto felice, circondato da infiniti stimoli e possibilità. Decide che per la sua bambina vuole altrettanto, se non di più, e nel 2008 rientra in Italia. Walter Pagani, suo ex-compagno ai tempi di Rubiera con cui mantiene i rapporti a distanza, lo esorta a iniziare a rimettersi in forma, perché al suo rientro in Emilia il basket sarà ancora una volta lì, pronto ad accoglierlo. Grazie alla solita determinazione e alla preparazione di un fuoriclasse come l’amico Renzo Colombini, in meno due mesi di duro lavoro torna in campo accettando l’offerta di Cavriago, pronta a risalire in Serie B dopo la retrocessione. Davide ha ormai 34 anni e una figlia da crescere, inizia così a maturare l’idea di costruirsi un futuro.

In quegli anni inizia il percorso formativo per diventare allenatore, una strada nuova, lunga e tortuosa, da percorrere con la solita grande curiosità e tutta l’ambizione di stampo Virtus. Tutte le esperienze, la paternità in primis, gli incontri (e gli scontri), tutti gli insegnamenti che quella vita tanto avventurosa gli ha regalato sono fondamentali nella gestione di un gruppo. Riesce a vedere il basket da una nuova prospettiva, più cerebrale e con infinite possibilità di migliorarsi. Inizia a studiare, ritorna l’ossessione per la palla a spicchi, ma con la consapevolezza che il mondo non finisce dove finisce il parquet. A distanza di vent’anni iniziano a riaffiorare gli insegnamenti di Messina, Consolini e Vujošević. Potrebbe sfruttare le sue conoscenze per entrare nella lobby dei coach da una porta principale, ma sarebbe come tradire il cammino di una vita e per questo parte dal Minibasket in una piccola società. Davide è speciale proprio per questo: non cerca scorciatoie o di apparire per quello che non è, doti piuttosto rare di questi tempi. Gira con un quadernone rigonfio di schemi di gioco scritti a mano che rilegge avidamente, a colleghi di ogni categoria chiede il permesso per poter assistere ai loro allenamenti, passa ore e ore a visionare partite. Tecnica e tattica vanno studiate, per la parte emotiva può attingere a piene mani dal proprio incredibile vissuto.

Nel frattempo, al secondo tentativo, conquista la Serie B con Cavriago al termine di una stagione trionfale. Davide è una sicurezza sui due lati del campo, amato e rispettato da un grande gruppo. L’anno successivo è difficile, ormai la Serie B è un campionato professionistico e i gialloneri, mantenendo un’impronta da vera “minors”, non riescono a evitare la retrocessione. È giunto il momento di calare l’impegno e avvicinarsi a casa, per dedicarsi sempre di più al suo futuro da allenatore. Con il basket giocato chiude in C Silver, senza stimoli, probabilmente il classico anno di troppo. Nel frattempo inizia a lavorare con i settori giovanili di provincia e vince la Prima Divisione con una squadra di ragazzi reclutati al playground. Il suo approccio è da professionista di Serie A, poco importa se il contesto è sette piani più in basso. Grazie a una serie di congiunture favorevoli arriva la prima piccola, grande occasione: un colloquio con Castelnovo Monti, ambiziosa società di C Silver reduce da una finale persa. Questione di feeling, le parti si piacciono all’istante, Davide ha fame di vittoria e accetta l’incarico. L’obiettivo è provare a vincere subito, ma arriva un’altra finale persa al termine di una grande stagione. Smaltita rapidamente la delusione, al secondo tentativo e al termine di una cavalcata entusiasmante conquista la C Gold. Il salto di categoria è una nuova sfida da affrontare con ancor più impegno e serietà. Non a caso arrivano le salvezze e le prime riconferme, poi i playoff e altre riconferme. E il suo incredibile lavoro non si limita alla prima squadra. In un contesto dove il calcio è ancora una religione, Davide contribuisce in maniera determinante a seminare la passione e la voglia di migliorarsi tra i ragazzi dei piccoli borghi di montagna. Dopo aver attraversato in lungo e in largo più di mezzo mondo, sfidando giungle e deserti, scimmie e sicari, è in un paese immerso negli Appennini che quel coach spettinato e un po’ bizzarro rintuzza quotidianamente il fuoco sacro per il basket. Ora è ufficiale: la Tana delle Tigri ha una nuova succursale all’ombra della Pietra di Bismantova.