OWEN WELLS
Wells, Driscoll e Cosic: i tre stranieri dello scudetto 1978/79
nato a: Providence (USA)
il: 09/12/1950 - 27/04/1993
altezza: 200
ruolo: guardia/ala
numero di maglia: 8
Stagioni alla Virtus: 1978/79
statistiche individuali del sito di Legabasket
palmares individuale in Virtus: 1 scudetto
UNO STREPITOSO WELLS TRASCINA LA SINUDYNE
di Giuliano Musi - L'Unità - 12/03/1979
Finalmente dell'ottimo basket. Alla fine dell'incontro il Palasport era incandescente e un lunghissimo applauso ha salutato gli atleti - tutti - che guadagnavano gli spogliatoi. La Sinudyne ha vinto (102 a 91) e la prestazione della Gabetti ha esaltato il suo successo.
Dopo l'esclusione dalla Coppe delle Coppe i bolognesi dovevano pur vincere e l'hanno fatto alla grande nonostante l'assenza per infortunio del loro regista, Caglieris, e la lunga lontananza dal terreno di gioco dell'asso jugoslavo Cosic, penalizzato di ben quattro falli dopo appena otto minuti di gioco. Ma forse più della prestazione della intera squadra bianconera va segnalata l'esibizione dell'americano di colore Owen Wells che ha letteralmente fatto impazzire sia i canturini che il pubblico. Gli uomini di Taurisano, perché chiunque fosse comandato a controllarlo doveva prima o poi rinunciare, gli spettatori perché i suoi canestri, i suoi palleggi e i suoi «assist» hanno strappato uragani di applausi. Così dopo tante partite in sordina Wells è man mano cresciuto amalgamandosi al gioco di squadra. Contro la Gabetti ha dimostrato forse di essere l'uomo-squadra: è completo sotto ogni punto di vista e finalmente ha dato l'impressione di avere perso la «sregolatezza» a favore del «genio». Insomma - e il tempo si incaricherà di dimostrarlo - sotto le due Torri è forse arrivato un altro «grande» del basket.
Ma veniamo alla partita. I canturini avevano cominciato con la quarta ingranata piazzando subito un otto a due. I bolognesi incassavano ma non si scomponevano. Nel giro di dieci minuti raggiungevano il pareggio e da allora, tranne una breve pausa nel secondo tempo, hanno tenuto in pugno l'incontro con distacchi che si altalenavano dai cinque ai dieci punti. Dei virtussini - oltre ovviamente a Wells - si sono messi in mostra Bertolotti che con i suoi trenta punti sembra aver riacquistato il suo mordente e soprattutto una splendida precisione nei tiri da lunga distanza e un buon Valenti, che non ha fatto per nulla rimpiangere il titolare Caglieris. Villalta si è mantenuto sui buoni livelli di questi ultimi tempi; del campione jugoslavo Cosic non si può dire molto visto che i due terzi della partita se li è visti dalla panchina mentre il giovane Generali ha confermato di essere cresciuto e di essere maturo per giocare anche nelle circostanze più difficili quando la calma e un pizzico di astuzia spesso sono le armi vincenti.
I canturini, invece, eccezion fatta per i primi dieci minuti non sono stati in grado di adeguarsi al gioco e al ritmo che gli avversari hanno via via imposto al match. D'altra parte non è da credere che atleti della loro levatura fossero venuti a Bologna senza puntare alla vittoria. Ma le cose sono andate ben diversamente. Forse sottotono è stato Marzorati che con Wells ha visto i sorci verdi; discrete le prestazioni di Batton e Della Fiori mentre l'«imprevedibile» Neumann non ha fatto vedere questa volta i numeri che ogni tanto gli capita di fare. Bariviera, infine, ha abbastanza deluso mentre Recalcati è stato troppo poco sul parquet.
Come detto la Sinudyne era abbastanza lesta a riprendersi dallo scossone iniziale quando Neumann e Batton infilavano il canestro bianconero con tiri a lunga gittata. Sebbene orfani di Cosic i bolognesi cominciavano a turbinare da una parte all'altra del campo di gioco. Lo spettacolo era davvero notevole: accese ma corrette le mischie sotto le plance e rapidissimi i contropiede da una parte e dall'altra. Il primo tempo si chiudeva così per 47 a 42 per i padroni di casa. Nella ripresa la partita non ha più avuto storia, è stata a senso unico: Wells e soci segnano da tutte le posizioni e l'unico affanno degli ospiti è quello di controllare il passivo che verso il 15' è quasi di una ventina di punti. Wells delizia il pubblico con le sue acrobazie che fanno invidia a un trapezista, Bertolotti e Villalta mettono il punteggio al sicuro. Negli ultimi minuti c'è il vano pressing di Marzorati, Della Fiori e Batton il cui unico frutto è quello di accorciare le distanze. L'ultimo punto, quello che fissa il risultato sul 102 a 91 lo mette a segno Wells su tiro libero. La sirena fischia e sugli spalti è festa grande.
Wells elude la marcatura di Boselli
TRISTEZZA, PER FAVORE VAI VIA
di Dario Colombo - Giganti del Basket - Febbraio 1979
"Cosa fai oggi?" chiese uno dei tre all'amico che gli stava di fianco.
"Niente, assolutamente niente" rispose questi.
"E tu?" chiese di nuovo il primo all'altro intervenuto.
"Oh, beh, io... niente" disse.
"O.K." concluse il primo "vedo che abbiamo tutti e tre la stesaa idea".
Protagonisti del dialogo, che all'apparenza potrebbe essere tratto da una commedia di Ionesco, tre distinti signori tranquillamente accomodati su uno dei tanti divani che costellano la vasta hall del Royal Hotel Carlton di Bologna. Parlano in inglese, ma non fanno parte della delegazione americana che nel salone Nettuno celebra i sacri riti dell'ennesimo meeting dei venditori della Colgate Palmolive.
I loro discorsi parlano di cose lontane, anche se le copie dei quotidiani sportivi italiani che spuntano dai loro borselli in pelle fanno capire quanto essi siano addentro alle faccende - o almeno a certi tipi di faccende - di casa nostra, molto più di quanto non faccia pensare il loro aspetto e la loro conversazione. I loro nomi: Marvin Roberts, Marcellus Starks, Owen Wells. La loro professione: giocatori di basket. La loro provenienza: Stati Uniti d'America. Tre giocatori di colore per tre squadre bolognesi dalle diverse ambizioni e collocazioni, che hanno una sola caratteristica in comune: quella di trovarsi in una città, Bologna, senza dubbio unica, per il suo habitat sociale e cestistico, certamente la più adatta, almeno sulla carta, a far ambientare della gente che viene pur sempre da un pianeta diverso qual è quello americano.
Memoria d'uomo. "Si potrà accusare Bologna di provincialismo, di arretratezza, di goliardia che sfocia magari spesso nella superficialità: ma certamente non la si può accusare di essere una città che snatura i rapporti umani, che mette un individuo a disagio, che lo fa sentire solo" ebbe a scrivere un giorno un noto scrittore a proposito della città emiliana. E, del resto, restando nei confini del basket non si ricorda certo (Elliot a parte) un americano che a Bologna si sia trovato male o abbia avuto dei problemi d'inserimento in quel tessuto sociale che a Bologna forma un tutt'uno con la squadra. Perfino un personaggio come Tom McMillen, targato miglior studente-atleta degli Stati Uniti, targato Oxford, e, soprattutto, targato personaggio dai gusti un po' difficili, fu costretto ad ammettere che in una città così non ci si poteva trovare male, c'era sempre qualcosa per il quale valeva la pena di starci, non fosse altro che un modo nuovo per gustare i tortellini. Non parliamo poi del vecchio Gary "Baron" Schull, o di Terry Driscoll che ormai deve trovarsi a fare i conti con un marmocchio che pronucia "shit" o "socc..." con la stessa disinvoltura e la stessa padronanza.
Invece, a quanto pare, nell'anno di grazia 1979, si scopre che tre giocatori americani disseminati in parti eguali nelle tre squadre bolognesi, non hanno ancora trovato il modo per inserirsi in quello che era sempre stato considerato un ambiente ideale, hanno il problema di come far arrivare l'ora dell'allenamento o della partita, ringraziano il cielo che ha messo loro a disposizione nelle rispettive camere d'albergo una radio ed un televisore con i quali possono quantomeno attenuare una noia che, a prima vista, dev'esere perlomeno spaventosa.
Ritornano alla mente certi articoli pseudosociologici sulle difficoltà d'ambientamento di questi americani d'esportazione, sui rischi dello sradicamento dal tessuto urbano nel quale sono sempre vissuti, sui pericoli che si possono correre in situazioni di questo genere, primo fra tutti, ovviamente, quello della droga. Dopo tanti altri, crolla dunque anche il mito di Bologna bella, spensierata ed accogliente: anche a Bologna, invece, ci si può annoiare, si possono trovare delle difficoltà d'ambientamento nonostante si sia tra personaggi di rilievo pubblico come appunto Roberts, Starks e Wells sono. A questo punto i casi sono due: o i tre signori in questione sono dei disadattati per conto loro, dei ritardati per i quali trovarsi a vivere un'esperienza di questo geenre non è fonte d'interessi e curiosità diversi; oppure esistono delle difficoltà reali, oggettive, che portano delle persone magari sensibili ed intelligenti davanti ad ostacoli di notevole consistenza, fonti a loro volta di noia, disinteresse, apatia.
Lingua. "Il problema numero uno" afferma Marv Roberts, 29 anni, da New York, elegantissima ala-pivot dell'Amaro Harrys "è sicuramente quello della lingua. Dopo i primi giorni in cui tutti ti sono vicini per darti una mano e quasi ti sembra che il problema non esista, viene il momento in cui ognuno riprende le sue mansioni abituali e tu ti ritrovi solo con una quantità enorme di problemi anche stupidi da risolvere se vuoi condurre una vita attiva per conto tuo e che diventano invece terribilmente gravosi quando ti rendi conto di non essere in grado neppure di ordinare un bicchiere d'acqua minerale o di chiedere l'indirizzo del tuo albergo. A quel punto diventa difficile organizzarsi in modo razionale, soprattutto se, come nel nostro caso, ci troviamo qui soli, vuoi perché non siamo sposati, come nel caso mio e di Wells, vuoi perché la famiglia è rimasta negli USA, come è successo per l'amico Starks".
"Io sono stato tre anni in Francia, ad Antibes" afferma Starks, pivot della Mercury, originario di Chicago "e in teoria dovrei essere abituato più di altri al modello di vita europeo. In realtà venire dalla Francia in Italia è come arrivare in Francia dagli USA: ti si pone innanzitutto nuovamente il problema della lingua, quello di abitudini diverse, alimentazione differente e via dicendo: i termini della faccenda non si spostano di un millimetro, ti ritrovi dopo l'inizio a passare le giornate davanti alla televisione o ascoltando la radio in attesa che arrivi l'ora dell'allenamento e poi il momento di andare a cena emagari vedere qualche film".
Driscoll. "Mi rendo conto benissimo" afferma Wells "che ci possono essere degli americani che vengono in Italia e trovano subito con facilità la strada del perfetto ambientamento, dell'uso corretto della lingua, e conseguentemente la maniera di avere degli amici e via dicendo. Il mio allenatore Driscoll, che conoscevo già prima di venire a Bologna, è un esempio tipico di questo tipo di persone. Dave Sorenson, a quanto mi dicono, è un altro tipo così. Non c'è niente di strano, ci sono persone che potrebbero vivere allo stesso modo in ogni angolo del mondo senza nessuna difficoltà, o comunque ambientandosi abbastanza rapidamente. Ma in generale il discorso va fatto in un'altra maniera. Quanti italiani sono stati in America? Quanta gente si rende conto cosa significa uscire da una qualsiasi università, magari di una città come Los Angeles o Chicago, e arrivare, che so? in una città come Novara? Sono due mondi completamente differenti, anche se magari a New York eri nessuno e invece a Novara sei un re: chiaro che a tutti noi fa piacere essere dei piccoli re, ma è una sensazione strana, è come essere re di un regno che non è il tuo, non riesci neppure a gustare a fondo questa sensazione, con il risultato che magari il pubblico pensa che tu sottovaluti le sue manifestazioni di affetto, invece non è così: è che, magari, a volte non riusciamo proprio ad interpretarle..".
Solitudine, necessità di estraniarsi al consueto tran-tran degli allenamenti e delle partite, impossibilità abbastanza evidente di farlo secondo canoni consueti: in teoria, dal quadro che emerge ascoltando i tre americani di Bologna ci sono tutte le premesse indicate dai famosi pseudo-sociologi sportivi per l'avvicinamento dei giocatori al paradiso artificiale delle droghe, più o meno pesanti. "Sono delle conclusioni un po' troppo azzardate" affermano i giocatori "anche perché allora non si spiegherebbe come mai ci sono giocatori che si drogano anche in America, dove pure vivono nel loro ambiente, magari hanno anche una famiglia oltre ad amici e via dicendo. In realtà chi i un modo o nell'altro arriva alla droga quando si trova in queste condizioni è uno che l'ha già provata o comunque che vi sarebbe arrivato in goni caso, anche per motivi differenti. È chiaro che qui poi subentrano le convinzioni degl iindividui: però, pur non sapendo come passare le nostre giornate in attesa di andare in palestra, pensiamo che il modo giusto per risolvere il problema non stia certamente nella droga".
E, se l'inserimento nella vita fuori dal campo è un problema per ora ancora insoluto, quello dell'inserimento nella mentalità e negli schemi del nostro basket non si può dire che abbia avuto felice soluzione, anche se magari il rendimento sul campo può far pensare in taluni casi al contrario. "Uno parte dagli Stati Uniti" afferma Roberts "convinto di venire qui e trovare lo stesso basket, lo stesso modo d'interpretare il gioco almeno. Invece vai in campo e ti accorgi che ci sono un sacco di fattori estranei che influenzano il gioco e di cui devi tenere conto, primi fra tutti gli arbitri. L'idea di dove pensare anche a quello che può fare un arbitro oltre a quello che già devo fare io è una cosa assolutamente sconcertante, impensabile per uno che viene dal basket americano. Eppoi anche il linguaggio tecnico: pochissimi sono i giocatori di serie A che hanno dei buoni fondamentali, diciamo buoni a livello di college; intendo fondamentali individuali ma anche di squadra. E allora accade che molte volte uno si aspetti un certo tipo di movimento ed invece se ne verifica un altro...":
"Quello degli arbitri" sottolinea Wells "è senza dubbio un fatto incredibile. Oggi il basket è un gioco fatto essenzialmente di contatti: c'è gente di oltre due metri che salta a prendere il pallone ad altezze incredibili, come si può pensare che non ci siano dei contatti? È logico che ci siano, l'importante è saper capire quando sono dannosi per chi è in possesso della palla. Invece qui basta sfiorare un attaccante ed è fallo. Il guaio è che quasi sempre i due arbitri, o almeno uno di essi, si trovano fuori posizione, assolutamente nell'impossiblità di poter valutare cosa è successo. Ci vorrebbe il terzo arbitro? Non so: sarebbe meglio uno al posto giusto che tre fuori posizione..:".
La conversazione con i tre americani è ormai alle battue conclusive. Roberts consulta serio l'orologio: "Fretta?". "No, anzi: stavo guardando quanto tempo ero riuscito a far passare in attesa dell'allenamento di stasera. oggi, tutto sommato, è andata ancora bene...".
Schiacciata di Wells in un derby
Cercando notizie su Wells, ho trovato queste righe su un sito reatino:
Vicino a lui c’era il famigerato Owen Wells, in arte Big O (“Le donne dicono OOOOOOOOO quando fanno l’amore con me” diceva Wells, deceduto poi di AIDS) cui l’anno prima Cliff Meely aveva fatto le scarpe nel provino svolto a Rieti.
È vero che Wells morì nel 1993, ad appena 42 anni, ma a causa di complicazioni a seguito di un ictus. 10 anni prima era stato eletto MVP del campionato australiano. In seguito era rientrato negli Stati Uniti, giocando un paio di stagioni in leghe semiprofessionistiche.
Wells was a fine ballplayer and a world-class citizen. Former English star expanded horizons
Cliccando sul titolo si accede ad un articolo (in inglese) scritto alla morte di Wells. L'articolo è leggibile abbonandosi al servizio oppure iscrivendosi e annullando l'iscrizione entro 7 giorni.
MORTO OWEN WELLS
tratto da Il Resto del Carlino - 02/02/1994
È morto a 43 anni negli Stati Uniti stroncato dall'AIDS. Così se ne è andato Owen Wells, l'oscura architrave della Virtus che Terry Driscoll portò allo scudetto nella stagione 1978/79 e alla semifinale di Coppa delle Coppe. Arrivò a Bologna al posto di John Roche dopo un'esperienza nell'NBA (33 partite) a Houston che lo scelse col numero 77. Grande saltatore, veloce e contropiedista, si confermò l'uomo giusto al posto giusto per quella Virtus targata Sinudyne. Chiuse la sua esperienza italiana con 13,9 punti di media (471 in 34 gare), è stato il secondo realizzatore dopo Villalta in coppa (130 punti). Owen Wells, da tempo ammalato, era nato a Providence il 9/12/1950. Dopo Bologna giocò in Olanda e Australia.
In realtà Wells morì nel 1993, ad appena 42 anni, ma a causa di complicazioni a seguito di un ictus.
27 APRILE 1993: PREMATURO ADDIO A OWEN WELLS, PROTAGONISTA DELL'OTTAVO SCUDETTO VIRTUS
di Ezio Liporesi - 1000cuorirossoblu - 27/04/2020
Owen Wells arriva a Bologna nella stagione 1978/79, per sostituire John Roche. L'inizio non è dei più semplici, la squadra zoppica, deve assorbire il suo inserimento, ma anche quello di Cosic, straordinario giocatore, reduce dai mondiali di Manila, ma con un fisico che comincia a lamentare qualche acciacco, soprattutto alla schiena. Inoltre c'è anche un nuovo allenatore, non più Peterson, partito per Milano, ma Terry Driscoll passato alla panchina dal campo. La squadra inizia male e perde molte partite in volata. Al debutto in campionato Wells segna 36 punti, ma la Virtus perde a Pesaro; alla quarta giornata ne realizza 31 a Vigevano, ma è un'altra sconfitta. Dopo sei giornate la squadra ha solo due vittorie. Per fortuna arriva la vittoria nel derby, 79-77 e sono proprio i due stranieri i protagonisti: Cosic segna 22 punti e Owen 19. Intanto Driscoll mette in atto una trasformazione, anche per sfruttare meglio le caratteristiche dell'americano: non più accentratore ma collante di squadra, lasciando a Bertolotti, Villalta e Generali la possibilità di sfruttare il genio nel creare gioco di Cosic e Caglieris. Inoltre l'allenatore bianconero si affida alla zona 3-2 per sfruttare le leve lunghissime dei due stranieri. La squadra risale la classifica, anche se tabellini del numero otto bianconero si fanno più magri. Con qualche eccezione: nel derby di ritorno Wells segna 20 punti ed è il grande artefice della rimonta delle V nere, 68-79. Tre giorni dopo c'è un'amarissima eliminazione in Olanda nella semifinale di Coppa delle Coppe, dopo due supplementari, ma la squadra reagisce e la domenica seguente, trascinata da Wells e Bertolotti, rispettivamente 25 e 30 punti, batte in casa Cantù. La Virtus arriva terza alla fine della prima fase, ma ha la fortuna che Cantù perde nei quarti con Rieti e Varese in semifinale contro Milano. La Sinudyne ha così il fattore campo a favore in tutti i playoff. Batte 2 a 1 Siena e Rieti (in gara uno contro i laziali 21 punti di Wells) e si trova in finale contro il Billy Milano di Peterson, che viene sconfitto in due partite. La gara di Milano, che consegna l'ottavo scudetto a Bologna è l'ultima di Wells in Italia: Owen chiude con 18 punti, ma soprattutto con il titolo la sua avventura italiana. Ma chi era Owen Wells? Proveniva da tre stagioni nel campionato olandese, ma in precedenza aveva giocato un anno nella NBA a Houston Tanto istrionico in campo (nel derby di ritorno dopo un canestro passò dalla panchina a dare un cinque a tutti, con Terry Driscoll che lo ricacciò letteralmente in campo), tanto esuberante nella vita fuori dal rettangolo di gioco, ma anche ponderato nell'affrontare i temi del gioco e della vita.
Ecco alcune delle poche parole che disse pubblicamente in quella stagione, sugli arbitri e sull'ambientamento in Italia.
"Quello degli arbitri è senza dubbio un fatto incredibile. Oggi il basket è un gioco fatto essenzialmente di contatti: c'è gente di oltre due metri che salta a prendere il pallone ad altezze incredibili, come si può pensare che non ci siano dei contatti? È logico che ci siano, l'importante è saper capire quando sono dannosi per chi è in possesso della palla. Invece qui basta sfiorare un attaccante ed è fallo. Il guaio è che quasi sempre i due arbitri, o almeno uno di essi, si trovano fuori posizione, assolutamente nell'impossiblità di poter valutare cosa è successo. Ci vorrebbe il terzo arbitro? Non so: sarebbe meglio uno al posto giusto che tre fuori posizione.."
"Mi rendo conto benissimo che ci possono essere degli americani che vengono in Italia e trovano subito con facilità la strada del perfetto ambientamento, dell'uso corretto della lingua, e conseguentemente la maniera di avere degli amici e via dicendo. Il mio allenatore Driscoll, che conoscevo già prima di venire a Bologna, è un esempio tipico di questo tipo di persone. Dave Sorenson, a quanto mi dicono, è un altro tipo così. Non c'è niente di strano, ci sono persone che potrebbero vivere allo stesso modo in ogni angolo del mondo senza nessuna difficoltà, o comunque ambientandosi abbastanza rapidamente. Ma in generale il discorso va fatto in un'altra maniera. Quanti italiani sono stati in America? Quanta gente si rende conto cosa significa uscire da una qualsiasi università, magari di una città come Los Angeles o Chicago, e arrivare, che so? in una città come Novara? Sono due mondi completamente differenti, anche se magari a New York eri nessuno e invece a Novara sei un re: chiaro che a tutti noi fa piacere essere dei piccoli re, ma è una sensazione strana, è come essere re di un regno che non è il tuo, non riesci neppure a gustare a fondo questa sensazione, con il risultato che magari il pubblico pensa che tu sottovaluti le sue manifestazioni di affetto, invece non è così: è che, magari, a volte non riusciamo proprio ad interpretarle."
Di Wells se ne risentì parlare, purtroppo, anni dopo, quando si apprese della sua morte, avvenuta il 27 aprile 1993, a soli quarantadue anni.
WELLS, LA VIRTUS SCOPRE IL SIGNORE DELLA DIFESA
Nell’autunno del 1978 Driscoll lo pesca dal mercato olandese: serve un’alternativa alla fisicità del varesino Yelverton e Owen è perfetto
di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 23/10/2021
Non è un caso di cold case. Ma si tratta comunque di restituire a Owen quello che è di Wells. Già, perché stiamo parlando di Owen Wells, l’istrionico americano che, proveniente dal campionato olandese, rimane a Bologna nella stagione 197879 vincendo lo scudetto, al palazzone di San Siro (che oggi non esiste più) battendo in finale, con un secco 2-0, il Billy Milano di Dan Peterson.
Owen ci lascia giovanissimo, a Boston, il 27 aprile 1993, a soli 42 anni (era nato a Providence, sempre negli States, il 9 dicembre 1950). La notizia della sua scomparsa viene regalata in qualche trafiletto su diversi giornali. La causa, secondo le fonti dell’epoca, l’Aids che, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, viene definita la peste del ventesimo secolo.Una paura mondiale e mortale, in quegli anni, ben prima di scoprire gli effetti del ‘simpatico’ Covid-19.
Si parla e si scrive di Aids, ma la rete e le informazioni, alla fine del secondo millennio, non sono ancora globali.
Ci pensa una fonte più che attendibile – Terry Driscoll, che era stato il suo allenatore ed era diventato amico di Owen e della sua famiglia – a ristabilire la verità. Wells non sopravvive a un ictus.
Nel 1978 la Virtus dell’Avvocato Porelli decide di dar vita a una piccola-grande rivoluzione. Dan Peterson, il coach dello scudetto del 1976 (e della Coppa Italia di due anni prima), prende la strada di Milano. Al suo posto Terry Driscoll, fino a pochi mesi giocatore, costretto a dire basta, a 31 anni, per i dolori alla schiena. Dalla Jugoslavia, ancora unita, arriva il fenomeno Cosic. Resta da capire a chi affidare il ruolo di secondo straniero. Nel 197778 la posizione viene occupata da John Roche, play-guardia che segna e dirige. Ma che, dal punto di vista fisico, subisce la verve del moro Charlie Yelverton di Varese. E quella Varese ha appena vinto lo scudetto, battendo la Sinudyne 2-1.
Un altro Yelverton in circolazione non c’è. Driscoll, poi, è coperto alla voce lunghi perché ha Cosic, Villalta, Bertolotti e, all’occorrenza, Marione Martini.
Owen è di Boston, Terry lo ha conosciuto ai tempi della sua esperienza Nba con gli Houston Rockets. Charlie Caglieris è il play, Piero Valenti il suo cambio. Driscoll ha bisogno di una guardia che, all’occorrenza possa portare palla. Ha bisogno di una guardia di centimetri e che salti perché, in difesa, deve fare la differenza.
Una sorta di energetico, tanto in attacco ci sono Caglieris e Bertolotti, Villalta e Cosic: il cast, così composto, è pressoché perfetto.
In una squadra di All Stars c’è bisogno di un giocatore umile, capace di portare il suo mattoncino di entusiasmo e buonumore.
Si cala subito nello spirito dello spogliatoio e, all’esordio in campionato, a Pesaro, pur nella sconfitta della V nera (è il 5 novembre 1978 e all’Hangar di Pesaro finisce 86-74) firma 36 punti. Sembra un fenomeno anche in attacco. In realtà nelle sfide successive abbasserà la media (18 contro la Perugina Jeans di Valerio Bianchini, 14 nella sconfitta di Milano con il Billy di Peterson, 31 nel ko di Vigevano, 16 nella gara con la Xerox, 18 nella caduta con l’Antonini Siena).
E’ una Virtus che non riesce a emergere: non si parla di taglio, ufficialmente, solo perché l’avvocato è contrario a rivedere le sue posizioni. Ma la Sinudyne fatica e Owen è il capro espiatorio perfetto.
Qualche giorno prima del Natale 1978, il 20 dicembre, la Sinudyne vince il derby con la Mercury 79-77. Virtus in difficoltà e prima immagine di un Wells alle volte poco lucido. Segna 19 punti e, dopo un canestro, anziché tornare in difesa, dà un cinque a tutti i compagni della panchina. Quando arriva da Driscoll capisce di aver sbagliato qualcosa, perché Terry lo ’afferra’ di peso e lo rispedisce in campo.
Che resti affascinato dal calore del pubblico lo si capisce in un’altra occasione. Conquista l’ennesimo rimbalzo e tiene il pallone sotto il braccio, gigioneggiando. Il pubblico alza i decibel per spiegargli che deve superare la metà campo nei canonici 10 secondi.
Owen confonde quel mormorio dilagante per un’ovazione in suo onore. Comincia a sorridere e, tenendo il pallone sotto il braccio destro, con la sinistra fa il segno di vittoria. Indugia, Owen e sorride. Conclusione? L’infrazione di dieci secondi più assurda della storia bianconera.
Owen però è anche generosità, fisicità e difesa. Se Cosic è la punta della zona 3-2, Owen, trasforma la classica 2-3 in una sorta di 3-3: ha braccia smisurate, senso della posizione e predisposizione al sacrificio.
Dei 36 punti della prima giornata non c’è più traccia, ma nello scudetto che matura a maggio (mentre nello stesso giorno, il 6 maggio, il Bologna pareggia a San Siro con il Milan, ipotecando la salvezza) c’è la sua firma. La Virtus sboccia a primavera. Owen vorrebbe restare e Terry è a lungo dibattuto dall’idea di confermare una guardia che non toglie spazio ai compagni in attacco e in difesa lavora per cinque.
Ma all’orizzonte si staglia la figura di Jimmone McMillian: il divario tra i due giocatori è troppo ampio perché la Virtus torni sui suoi passi. Owen lascia da vincitore: una stagione e uno scudetto. Torna in Olanda, nelle fila degli Amsterdam Amsteelven, poi scopre l’Australia, prima i Sidney Supersonics poi i Rhode Island Gulls. Diventa anche coach, fino alla scomparsa.