L’ESCULAPIO DI VINCENZO
di Peppino Cellini – Superbasket – 06/01/83
L’avvocato patrono si trova da tempo in stanchezza psico-fisica, è desideroso di trovare un alter-ego che allievi il peso, il fardello della conduzione specie manuale, di una “panchina” dai molti “cavalieri” bardati da luminescenti mostrine, ma anche sempre più esigenti ed inclini alla ribellione per insoddisfazione ed avvilimento. Ed è così che in tre anni, dopo il canto del cigno Driscoll, si avvicendano a questa panchina dalle nobili-chiappe, ben altri quattro pretendenti: Zuccheri e Ranuzzi di estrazione casalinga (“nessuno è profeta in patria”); poi il “Professore” per antonomasia, Nikolic, uomo dai grandi carismi, dalla capacità sancita da mille e mille vittorie, massima espressione di basket; quindi George Bisacca, incolpevole avvocato italo-americano, persona colta, simpatica, alla mano, appassionato d’arte e bellezze culturali, ma che il basket dalla panchina non lo vedeva dal tempo dei pionieri del “West”. Ed è subito mutazione.
La “panchina omicida” è ora cavalcata da un giovane esculapio, poco più che trentenne, head-coach: Mauro Di Vincenzo, quasi coetaneo dei magnifici sette atleti di valore assoluto su cui la Sinudyne appoggia le ambizioni, e le giuste velleità tricolori, per uno scudetto che vale dieci anni titolati, ovvero la “stella” dell’inoppugnabile genealogia sancita. Alessandro Magno era condottiero a 18 anni, Napoleone generale a 24 anni, Gheddafi capo a 27, dunque precedenti se ne sono stati, invero pochini in tanti secoli di storia, comunque Mauro è cavaliere senza macchia e senza paura, cavalca la tigre da dalle sette teste cosciente della sua improba impresa, tenta, questa è un’opportunità unica ed irripetibile, una carta da giocare; il rischio semmai sarà imputabile alla società bianconera che continua a fare ardite scelte con deprecabile faciloneria mettendo in predicato anni di conduzione al limite della perfezione.
Il giovane coach ha idee chiare, davanti alle nostre perplessità, risponde con la sicurezza del veterano, reputa la sua Sinudyne “una squadra completa”, ma vede anche con spirito analitico invidiabile, alcuni errori passati individuati nelle cessioni di Valenti (prezioso play d’appoggio), ma soprattutto pone l’accento sul carattere fondamentale dei Caglieris, Marquinho e Cosic, che a suo dire erano elementi dalle caratteristiche portanti “per una squadra giovane dagli eccessi di esuberanza, dalla volontà di strafare, dall’anelito di emulazione sui più titolati compagni, una squadra a cui manca un leader capace di gestire i giovani, il leader dei momenti gravi”. Incalziamo ancora la duttilità della risposta di Mauro chiedendogli di quale malpiccolo soffra Marco Bonamico giocatore dalle capacità indubbie in campo nazionale ed internazionale una stella della nazionale azzurra. “L’anno scorso – dice Di Vincenzo – Marco ha fatto il suo miglior campionato, quest’anno invece per il momento è al suo peggior campionato, ma confido molto presto di recuperarlo appieno, di farlo tornare ai livelli dell’anno scorso”.
“Diceva Peterson parlando di Bonamico che la sua forza è il gas, la benzina che costantemente brucia, i suoi ingredienti principali sono esuberanza e generosità; questi additivi debbono però essere sapientemente dosati, perciò Marco deve affidarsi per meglio gestirsi al coach psicologo, per meglio affinare le sue peculiarità elettive, deve essere la sua una fiducia totale, a quel punto non solo avremo il miglior Bonamico, ma asserisco anche, senza falsa modestia, di sentirmi in grado, ed all’altezza di questo oneroso impegno”. Mauro Di Vincenzo ha una sicurezza disarmante, ha preparato mattone su mattone la sua consacrazione, è giunto all’agognata meta, ora deve mettere la bandiera sul coperto della casa, poi sarà bandiga (sul tutto compiuto in Emilia si usa fare un pranzo alla morte), e… se fallisse? Male che vada la laurea se l’è presa, vorrà dire che avremo un “medico-dentista” di più in Italia. Ma dopo Roma la fiducia è d’obbligo.
Di Vincenzo alla destra di Nikolic (foto fornita da Mauro di Vincenzo)
LASCIAI LA FORTITUDO PER LAVORARE CON NIKOLIC
di Mauro Di Vincenzo - Il Resto del Carlino - 19/09/2003
Feci arrabbiare Beppe Lamberti che era il mio mentore. Ero il capo allenatore della Fortitudo, ma accettai di fare l'assistente alla Virtus perché avrei lavorato per Nikolic, un'esperienza straordinaria.
I MIRACOLI DELLA MEDICINA
di Gianfranco Civolani – Superbasket – 20/01/83
La Sinudyne si rifà sotto, la Sinudyne torna all’onor del mondo, la Sinudyne si ripropone degna del suo rango e dunque di sé medesima.
Domanda: ma come mai questo accade? La prima risposta è quella che conta? E allora via con la prima risposta. Accade perché finalmente Porelli si decide a mettere alla testa di questa grossa squadra un allenatore, punto e basta.
E allora torno un attimo indietro. La pomellata cioè la Bisaccata, per intenderci. Porellata imperscrutabile e comunque riprovevole, non mi stancherò mai di ribadirlo. E il bello è che un uomo capace come Porellone ne fa in questo caso una calda e una fredda, mi prende cioè l’uomo che in questa squadra ci voleva (il Brunamonti che fra l’altro consentisse a Frederick di mitragliare senza riserve mentali) e al tempo stesso mi fa la Bisaccata come pessimo scherzo di mezza estate. E d’altra parte pazienza, mille cose belle per la Virtus Sinudyne ha fatto l’ingegnoso duce truce, ma non in materia di allenatori e dico Driscoll mollato per una questione di cinquanta lire (non proprio così, ma ci siamo capiti) e dico altra gente issata sul trono con troppa leggerezza e dico appunto quest’ultima storiella dei due avvocatori che avrebbero dovuto far grande la gloriosa Vu nera del canestro.
Basta così, sarebbe di cattivo gusto insistere oltre e allora vediamo come mai al comanda salga un giovanotto che ha già discretamente imparato l’arte, che tra l’altro è medico e conosce i miracoli che può fare la medicina, ed ecco che il collettivo lievita ed ecco che giocatori funzionalissimi come Fantin e Generali tornano puntualmente a funzionare ed ecco che il sospirato quarto posto finale (ovvero niente play-offs al primo turno) non è più un’utopia.
Mauro Di Vincenzo, facciamogli un minimo di identikit. È bolognese, ha trent’anni, è – dicevo – laureato in medicina, ha una moglie biologa, è figlio di un parrucchiere per signora e di una casalinga, ha una faccia da guappo di Forcella, ha come cestista un passato assolutamente qualunque, ma in panca ha già tante gemme alle spalle, per esempio titoli giovanili di una certa importanza, un’irresistibile ascesa con la prima squadra di San Lazzaro (quattro promozioni una dopo l’altra), un ottavo posto con la Fortitudo Alco in A-1 e il nobile assistentato con Aza Nikolic, una scelta che è un magnifico atto di umiltà e di coraggio, una scelta che gli costa dieci milioni e che dunque lo impoverisce al tempo stesso che probabilmente lo arricchisce sul piano culturale mille volte di più.
Chi è Di Vincenzo, supplemento di analisi. Adora lo sport all’aria aperta, pratica jogging e squash e gli piace pure dar calci al pallone e insomma eliminare le tossine quotidiane nel modo più diretto e banale. La sua filosofia cestistica si ispira ad un certo Nikolic trascendendo magari il raffronto e sublimandolo in una maggior compiutezza e avvedutezza sul piano dei rapporti interpersonali. “Devo ancora decidere – mi dice – se fare l’allenatore professionista o il medico. Mi piacerebbe fare l’allenatore psicologo, ovvero l’allenatore professionista che applica in concreto una specializzazione in psicologia regolarmente conseguita. Sono infinitamente grato a Nikolic per quel che mi ha consentito di apprendere standogli appresso. Sono meno grato a Bisacca, ma questo discorso lo fermo qui. Credo che con i giocatori il rapporto debba sempre essere professionale. Io non sono il fratello maggiore di nessuno e nemmeno lo zio giovane o l’amico dell’amico, io sono un allenatore professionista che ha rapporti con giocatori professionisti, che putacaso possono anche avere soltanto tre o quattro anni meno di me. Dovevo voglio arrivare? Il più lontano possibile, mi sembra ovvio. Quando deciderò se fare il coach oppure il medico? Un momento, fammi respirare un attimo”.
Un giovanotto che si applica con compunzione e che spesso viene giù pari senza munirsi dell’ombrello, un tipo che ha cultura classica e anche cultura di strada, direi.
E chiudo con Renatone Villalta. Giocatore completo o quasi. Fosse anche abile nelle penetrazioni, sarebbe da primo quintetto europeo nei secoli dei secoli. Ma difende come una belva e ha un tiro che spacca, quando non sfacchina troppo nelle salmerie. E poi Renatone ha un cuore grande così, una disponibilità umana veramente esemplare, un attaccamento ai colori sociali che gli vale sempre e comunque un bacio in fronte e un’incidenza specifica (fateci caso: se non marcia Villalta, si va a due cilindri) sulla quale non tramonta mai il sole.
Renatone Villalta torna a far squillare la fanfare e già questa è una notizia che fa buon sangue. Ma ce n’è un’altra che mi rimbalza addosso, questa. Oso augelli riferirmi che Porellone l’anno prossimo farà un po’ di purghe e sento dire che fra i corrigendi non ci sarà Renatone e dunque ecco che in attesa di cose più palpabili già possiamo abbracciare qualcosa, una rigogliosa bandiera razza Piave che resiste a tutti i fortunali, una bandiera che non si piegò ieri di fronte alle calunnie dei dementi e che non si piega oggi davanti alle ombre lunghe di un tricolore che appare e dispare. Possono essere anche questi i miracoli di una medicina ben prescritta.
Di Vincenzo dà istruzioni a Rolle
TANTO DI CAPPELLO DOTTOR DI VINCENZO
di Paolo Viberti – Superbasket – 21/04/1983
Devo scrivere di Mauro Di Vincenzo, ex carneade della panchina e ora assurto ai vertici. Ho sbagliato verbo: ricominciamo. Volevo scrivere di Mauro Di Vincenzo, ex carneade eccetera. L'idea mi alletta, perché è uno di quei personaggi che ti stuzzica attimo dopo attimo: con lui diventa inevitabile svicolare dal fenomeno basket per andare a parare chissà dove, attraverso i campi più esoterici dello scibile. Sotto questo punto di vista, non mi lamenterò mai e mio lavoro; mi sembra ingiusto farlo, mi pare un affronto verso chi è costretto ad attendere ad occupazioni che non si è scelto, per lo più vittima d una consuetudine e di una monotonia senza barlumi di speranza. Sono un privilegiato, anche se mi ritrovo alle due di notte del giorno di Pasqua su un'autostrada, unitamente al direttore di questo settimanale, ad un collega milanese che inventa battute ad ogni piè sospinto e al “tenore” Alberto Petazzi di Trieste. Pur dovendo lavorare anche il giorno di Pasqua, dunque, pur essendo obbligato a tornare a notte fonda da Pesaro a Torino per giungere in tempo all'appuntamento… lavorativo del giorno di Pasquetta, continuo ad amare questo mestiere perché ti costringe a pensare, perché ti offre la possibilità di scommettere mille volte in un sol giorno. E la scommessa che mi esalta maggiormente è quella che riguarda i personaggi di questo mestiere, gli uomini dello sport, i protagonisti (nel mio caso…) della pallacanestro. Ho un vizio: non mi accontento mai di indagare sul fatto sportivo in sé. Mi interessa anche l'uomo, cosa sta dietro le sue scelte, cosa può mai giustificare le sue prese di posizione. Ed ecco che alle canoniche domande “chi vincerà?”, “chi farai giocare nel quintetto base?”, “qual è il punto debole degli avversari?”, “come si può arginare il loro contropiede?”, a tutto ciò, dicevo, si aggiunge inevitabilmente tutto il resto, magari formulato sottovoce, quasi sempre a taccuino chiuso e a penna capsulata.
Rieccomi a Di Vincenzo: conosco Mauro da parecchio tempo (parecchio almeno per me, neofita...), dai primi mesi di attività sulla panchina della Fortitudo (allora I&B). Conoscenza casuale, curiosità mia di interpellare una volta tanto l'allenatore in prima persona e non sempre il general manager, l'amicone Renzo Angori. Viene fuori il doppio Di Vincenzo: l’uomo che era laureando in medicina, lo sportivo allenatore di basket. La cosa mi stuzzica: confesso di non aver mai sopportato l'unilateralità di molti, troppi personaggi dello sport. Mi va bene il trasporto totale per la causa sportiva, ammetto il parossismo gestuale e verbale di tanti addetti ai lavori, ma non tollero la mancanza di prospettiva la testardaggine di chi si preclude qualsiasi altra fonte di interesse. Ecco dunque il dottor Di Vincenzo; non fu certo quell’appellativo di “dottore” ad affascinarmi (quale titolo è maggiormente inflazionato nella nostra penisola?...) ma la sua capacità dialettica di punzecchiare il mondo qua e là, con saltelli verbali dai substrati eterogenei. Prime telefonate, prime promesse sul tipo “Ho sentito parlare di te: perché non ci vediamo personalmente un giorno?”. Solite cose, insomma, ma con vera schiettezza. A far da tramite alle mie conservazioni cestistiche e non con Di Vincenzo fu per un certo periodo la moglie Claudia. Il marito occupava quasi tutta la giornata tra allenamento e università e a me petulante non restava che la voce dispiaciuta di Claudia: “Ti chiedo scusa, sei davvero sfortunato, ma Mauro non è in casa. Riprova più tardi…”. Più tardi, per me e per gli orari del mio giornale, era inevitabilmente… troppo tardi, cosicché i colloqui e le ipotetiche interviste si dissolvevano nel nulla. Passarono giorni, mesi forse. Di Vincenzo valicò il confine petroniano, passando alla sponda Virtus. Con la Sinudyne, però, il suo ruolo veniva ridimensionato ad assistant-coach. La correttezza (oltre che il dovere giornalistico) mi imponeva di telefonare al professor Nikolic, capo… spedizione dei bolognesi di Porelli. E Di Vincenzo passò in secondo piano.
La mia colpa fu di perderlo di vista cosicché quest’anno, alla vigilia dello spareggio di Cantù con la Ford valido per l'ingresso in semifinale, una nuova telefonata del sottoscritto a Mauro con finalità… cestistiche si tramutò dopo pochi minuti in un racconto reciproco dei tempi andati. Dei suoi come dei miei. E il buon Di Vincenzo mi si restituì in tutta la sua poliedricità, magari una poliedricità un po' sfortunata. Raggiunta la laurea in medicina, guadagnato il posto di coach in una società gloriosa come la Virtus, Di Vincenzo ha avuto guai familiari: strade diverse per lui e per Claudia, separazione con umano dispiacere, con qualche umanissimo dramma, con straumana dignità. Dico questo perché non è sempre facile capire cosa sta dietro l'operato di un uomo conosciuto. Di Vincenzo ha saputo superare lo stress di una brillante carriera universitaria e di uno spiacevole incidente affettivo con il basket, affermandosi come tecnico preparato e raddrizzando quest'anno una situazione davvero critica dopo la dipartita (dall'Italia) del discutibile Bisacca. Mi sono permesso di importunare la vita privata di Mauro perché conosco la sua dignità e le sue capacità reattive, perché a lui come ad un suo giocatore non importa davvero nulla del becerume imperante sugli spalti.
Rischierei di diventare partigiano affrontando il problema del futuro i Vincenzo: ammetto che nel decisivo e triplice scontro con la Ford il tecnico bolognese possa aver commesso qualche ingenuità, ma non riesco a sottoscrivere le voci di chi mi anticipa sin d'ora l’inevitabile avvicendamento di Mauro sulla panchina della Sinudyne. Odio i robot e per questo preferisco l'eclettico Martini al quasi burbero Porelli, ma mi rendo conto che il potere decisionale è in mano all'avvocato. Detto questo, non mi resta che augurare a Mauro di essere (e di restare a lungo…) nelle grazie del boss virtussino. Rilevare una squadra rognosa come la Sinudyne dopo l'era-Bisacca, con giocatori totalmente demotivati, e far rinascere la “verve” agonistica è da pochi. Soprattutto se l'impresa viene compiuta da un condottiero ancora “in fieri”, da un presunto paladino che non può assolutamente far fulcro sul proprio carisma. Di Vincenzo ha rigenerato la Sinudyne solo con la propria preparazione e il proprio impegno. Anche se la medicina gli rubava preziose ore di tranquillità, anche se le difficoltà affettive non lo restituivano certamente integro dal punto di vista dello stato d'animo degli allenamenti. C'è riuscito lo stesso: tanto dica cappello. Ma i denigratori non mancheranno di certo e il buon Mauro lo sa: chi vive di solo basket potrebbe stupirsene…
LA PANCHINA ALLA BOLOGNESE
Storia delle vite - quasi parallele - di Alberto Bucci e Mauro Di Vincenzo, i due allenatori approdati quest'anno sulle panchine di Livorno dopo aver assaporato il profumo inebriante (e pungente) della grande Virtus
di Renzo Marmugi - Giganti del Basket - Dicembre 1985
Attenti, c'è il clan dei bolognesi. Due vite parallele, partite dallo stesso punto, stessa casa madre (la Fortitudo), stesso maestro e modello da imitare (Beppe Lamberti), poi il decollo. E da grandi ritrovarsi a Livorno, a duecento chilometri da casa, a respirare la stessa aria salmastra, a lottare mulinando i gomiti per la supremazia cittadina. Hanno imboccato l'Autostrada del Sole, poi a Firenze giù verso il mare, di corsa rispondere quasi a un richiamo istintivo. è un'invasione bolognese in piena regola, nemmeno si fossero messi d'accordo per far confluire i rispetti destini all'ombra dei Quattro Mori.
Mauro Di Vincenzo, sponda Pallacanestro, quest'anno ha scoperto di avere come cugino sulla sponda Libertas Alberto Bucci. Com'è strana la vita. Un pezzetto della "Dotta" si è trasferito armi e bagagli in riva al mare, all'ombra della Baracchina di Ardenza. Di Vincezo e Bucci, anzi Bucci e Di Vincenzo per rispettare i dati anagrafici, sembra quasi che abbiano volutamente giocato a nascondino, a rincorrersi, a vivere uno accanto all'altro sfiorandosi appena. Bucci, classe 1948, inizia giovanissimo a sedici anni allenando la squadretta allievi dei Salesiani mentre Di Vincenzo, classe 1952, muove i primi passi nel settore giovanile della Fortitudo. Poi, quando in via San Felice si accorgono di Bucci, affidandogli l'incarico di assistente a Dido Guerrieri in prima squadra, il futuro medico del basket italiano è già andato via. Gioca ancora, in serie B, naturalmente in quel macrocosmo che è Bologna, dopo aver assaporato di sfuggita l'odore della A nei tornei estivi. Lamberti, Gary Baron Schull, Sgarzi, Stagni. Nomi e volti familiari, ma i veri compagni d'avventura del Di Vincenzo guardia nel giro sono altri: Calamai, Magnoni, Bosini. Quintetto base, qualche domenica di gloria, poi un cambio di allenatore fa franare tutto. Col nuovo coach non s'intende e lui non ci pensa un attimo, appende le scarpe al chiodo. Lo chiama la casa madre, la Fortitudo, per il settore giovanile ma nel frattempo Bucci è emigrato sull'adriatico, a tentare di restituire una credibilità sportiva a Rimini. Operazione riuscitissima, in cinque anni dalla serie D alla A", mentre Di Vincenzo firma un miracolo analogo a due passi da casa, nel Malaguti di San Lazzaro. Dalla Promozione in "B", un biglietto da visita che la Fortitudo (ancora lei!) afferra al volo offrendogli la sua panchina in A1. è l'anno di Starks e Jordan, Bertolotti, Ferro e Anconetani, cinque-uomini-cinque che stupiscono l'Italia "vincendo entrambi i derby, perché il secondo ce lo rubarono nel supplementare dopo aver convalidato un canestro della Virtus segnato fuori tempo massimo", puntualizza l'interessato.
Poi, il futuro "doctor" a 29 anni fa la prima scelta contro corrente della sua vita. "Dovevo ancora laurearmi, la medicina mi piaceva quanto la pallacanestro, e non volevo mollare. L'ammirazione per Nikolic e il suo avvento alla Virtus mi hanno spinto al grande passo. Ho lasciato un posto da head coach alla Fortitudo per diventare assistente, chi l'avrebbe fatto? Ma la possibilità di completare gli studi e l'esperienza in un grande club accanto ad un grandissimo allenatore erano tentazioni troppo forti. Era un investimento, contratto biennale, e mi sono buttato. Un ruolo forse oscuro ma formativo, e anche rischioso. Perché in America a scegliere i due stranieri hanno mandato me, e i sono tornato a Bologna con Rolle e Frederick. Un anno di passione, i rapporti fra Nikolic e Porelli si deteriorarono quasi subito. Io ero fra due fuochi, stretto in mezzo fra un coach da ammirare e il datore di lavoro. Poi c'è stata la parentesi Bisacca, un personaggio inizialmente affascinante ma che dell'Italia e del nostro basket non conosceva una virgola, pur avendo un figlio che lavorava all'Accademia delle belle Arti a Firenze. Così, dopo la sconfitta di Livorno all'undicesima partita, fu esonerato. E venne il mio turno".
"Bisacca cade dalla panchina e dall'autobus" titolava il quotidiano bolognese all'indomani del licenziamento in tronco, arrivato puntuale insieme a un gambone di gesso. Di Vincenzo si rimbocca le maniche, ricuce lo spogliatoio, ridà animo e fiducia a giocatori come Bonamico, Fantin e Generali usciti a pezzi dall'esperienza con l'allenatore "bluff" e finisce la stagione in crescendo: "Diciotto vittorie e sei sconfitte, il bilancio della mia gestione fu quello. Pensavo di restare, invece la società ha deciso diversamente. I motivi? Mai saputi, forse li conosce solo l'avvocato Porelli".
Ma la sfortuna di Di Vincenzo, che si sposta a Treviso, è la grande occasione di Alberto Bucci. Anche lui arriva in casa Virtus sospinto dal vento della nouvelle vague: ha 34 anni e nel portafogli il ricordo freschissimo della splendida cavalcata di Fabriano, un giocattolo meraviglioso costruito con pochi soldi e tanto amore fino al traguardo della A1. Porelli si convince e lo chiama: "Arrivare alla Virtus" dice "significa toccare il cielo con un dito. è un grande club, il punto d'approdo, una società di vertice".
Buonissimo rapporto coi giocatori, un sottile lavoro di psicologia e i risultati sono subito eclatanti: scudetto e Coppa Italia al primo tentativo. Arriva quella "stella" che le maglie bianconere aspette3vano da quattro anni e lui diventa l'allenatore più giovane che mette le mani sul titolo. Un po' come sbancare il casinò entrando con diecimila lire in tasca. Il resto è storia d'oggi, piena zeppa di disgrazie e poi lo sbarco a Livorno per frustare i pigri purosangue della Libertas caduti in A2, mentre Di Vincenzo ha preso l'ascensore insieme ai suoi terribili "pierini".
Anche in questo caso con Bologna c'è un divorzio strano, contorto, difficile da decifrare. Bucci è sincero: "Alla Virtus stavo bene, coi giocatori ho passato due stagioni bellissime, dispiace andar via quando hai l'approvazione della platea e la squadra capisce, nello spogliatoio c'è l'atmosfera ideale".
Già, ancora lui, Gianluigi Porelli, quasi un padre-padrone delle V nere. "Ha una laurea in legge, grande cultura, intelligenza, capacità di vedere lontano e forse questo in certi momenti lo porta a prendere decisioni da assolutista. Nel mio caso comunque sul piano giuridico aveva ragione lui. Il contratto che legava Bucci alla Granarolo conteneva una clausola, quella che dava un mese di tempo alla società per poter sciogliere il rapporto prima del terzo anno. E l'ha fatto".
Rimpianti? Rabbia in corpo? Un lavoro che senti dentro come qualcosa di incompiuto? Bucci si conferma uomo cristallino, d'altri tepmi: "Certo che tornerei, a Bologna ho lasciato tanti amici, uno scudetto a 35 anni essendo semplicemente Alberto Bucci, e se qualcuno crede che per allenare la Virtus abbia dovuto castrarmi, condizionare la mia personalità si sbaglia di grosso. Non ho fatto il dittatore, sarebbe stato troppo facile, ma ho scelto la via del dialogo, quella più rischiosa. E quando in squadra ci sono giocatori come Villalta, Brunamonti, Bonamico, Fantin eccetera non li puoi convincere raccontando la favola di Cappuccetto Rosso. Capito?".
Il tasto revival, un ritorno al futuro Di Vincenzo lo sfiora appena: "Non ho remore, la Virtus mi ha dato la possibilità di lavorare accanto a un maestro come Nikolic, di essere alle dipendenze dell'avvocato Porelli, un modello sul piano professionale, e soprattutto di agire in un grande club. Alla mia età ho già la fortuna di trovarmi alle spalle esperienze così importanti, rispetto a tanti colleghi non mi posso lamentare. Se tornerei a Bologna? Sì, in quanto società di grosso calibro, ma non a certe condizioni. Mauro Di Vincenzo uomo e allenatore devono continuare a esistere, sempre".
Centottantamila abitanti, due squadre in eterna lotta per la leadership cittadina, essere al timone di Pallacanestro e Libertas è davvero un'esperienza unica. "A Bologna" la prola all'ultimo venuto "le gerarchie sono già consolidate, il campionato della Yoga si condensa tutto nel derby, mentre per quelli della sponda Granarolo è semplicemente una tappa del campionato totale. La pressione psicologica della piazza si fa sentire, la città è molto esigente, devi abituarti, ma anche Livorno non scherza. Sono appena arrivato e devo ammettere subito che qui la gente vive di basket, c'è un pubblico meraviglioso, instaurare un feeling è stato facilissimo".
Il primo saluto, una vigorosa stretta di mano e i due concittadini si sono capiti al volo. Allenamenti a porte chiuse, salvo poche eccezioni ("Una decisione dolorsa, ma i tifosi devono capirci, è un modo per lavorare meglio, siamo più concentrati"), e l'idea di sdrammatizzare il fenomeno derby facendo qualche partitella infrasettimanale fra cugini, naturalmente senza pubblico e in date rigorosamente top-secret. Roba tra bolognesi, insomma. Un segnale di maturità, una conquista, un deciso passo avanti.
Allenare a Livorno insomma non è solo un conto in banca che aumenta. Di Vincenzo alza la voce: "Scherziamo? Io mi sono innamorato a prima vista. Livorno come Pesaro e Bologna, tanto per citare altre due realtà che conosco, è una piazza dove un allenatore si sente di fare qualcosa d'importante per tutto l'ambiente in cui vive. Sono d'accordissimo con Bianchini quando dice che bisogna 'capire il territorio', inquadrare la professione nel contesto che ti circonda, leggere le aspirazioni della gente. La Pallacanestro è una società di estrazione popolare, rappresentiamo i portuali, gente che lavora, che sta in banchina a scaricare dai cargo. Gente con le mani rozze, che lotta quotidianamente e quando viene al Palasport deve potersi identificare nella squadra, non sopporterebbe l'idea di vedere giocatori che non lottano, non li sentirebbe suoi. Anche gli acquisti di Albertazzi e Lanza sono venuti in questa ottica. I vecchi elefanti non mi interessano, è molto meglio, essere in A1 con un gruppo di quasi esordienti ancora acerbi e inesperti ma animati da una grande volontà. E se riusciremo a salvarci con i vari Aldi, Bonaccorsi, Tosi e Pucci la società potrà essere contenta di avere davanti a sé dieci anni di vita tranquilla. Senza campioni, però con un nucleo tutto suo, creato dal vivaio".
Acne Bucci è entusiasta dell'approdo toscano: "Sono un tipo che si lega sempre moltissimo alle città, agli ambienti e Livorno conferma la regola. Ho già molti amici, dentro e fuori dal basket. La squadra va benem dialogare coi ragazzi è stato facile, mi sento proprio giovane, come uno di loro. Ma poi, quando c'è da lavorare, ognuno al suo posto, bisogna conoscere il proprio ruolo. Perché rispetto e stima reciproca sono la base di ogni rapporto che duri nel tempo. In dodici anni di panchina ho cambiato pochissimo, Rimini, Fabriano, Bologna e ora Livorno. Il mio sogno? Rimanere per cinque anni, guidare la Libertas nelle "final four", tra le quattro pretendenti allo scudetto. Ho fatto una tabella che prevede tre punti: promozione immediata, assestamento in A1 e poi, gradatamente, aiutare i talenti di questa squadra a crescere. Allenare Fantozzi, Tonut, Carera, Forti e compagnia per un coach vuol dire molto, significa la soddisfazione di avere tra le mani una macchina in evoluzione, che andrà sempre più forte se riuscirai a guidarne lo sviluppo. Ho firmato un contratto per due stagioni, ma già dal primo ho capito che a Livorno varrebbe la pena di restarci almeno cinque anni...":
Di Vincenzo, poco più in là, mette la ciliegina finale: "La cosa più bella per un allenatore è andar via da una città non per un fatto di risultati, ma per saturazione di stimoli, perché il ciclo che avevi cominciato è ormai al capolinea. Mi piacerebbe tanto concludere la parentesi triennale a Livorno così, naturalmente, perché la fase dei ragazzi d'assalto da condurre alla maggiore età è finita. Un sogno nel cassetto? Andare via lasciando due squadre in A1 e un Palazzone da diecimila posti nuovo di zecca. Forza Bucci, sbrigati a venire in A1, che noi per restarci faremo anche l'impossibile. Cari livornesi, il vostro elisir di lunga vita nel basket è questo. Una rivalità corretta, leale è stimolante, costruttiva, mantiene vivo l'ambiente, ti obbliga a migliorare giorno dopo giorno. E speriamo che chi di dovere comprenda la necessità di un ... è un nodo scorsoio, una strozzatura da eliminare alla svelta. Al prossimo derby in A1...":
Alberto Bucci sorride e approva. Attenti a quei due.