AMATO ANDALÒ
Il mitico Andalò (a destra) mentre assieme al fido Gulmini sistema la retina
AMATO ANDALÒ, UN CUORE DIVISO TRA LA "F" E LA "V"
Dopo 25 anni va in pensione il mitico custode del Palazzo dello Sport
di Stefano Budriesi – Il Resto del Carlino - 23/07/1991
Dopo 25 anni, il Palasport perde il suo mitico direttore, l'uomo che ne ha tenuto le chiavi in mano, respingendo gli assalti di almeno un paio di generazioni di portoghesi. Amato Andalò va in pensione, lasciando con un pizzico di commozione la guardiola posta sul lato dell'entrata èer gli spogliatoi: "Ne ho viste davvero di tutti i colori, racconta dalla sua casa di Mongardino dove si trasferirà in ottobre col palazzo che in poche ore mutava il suo volto, dal ghiaccio per il pattinaggio, ai palchi dei grandi concerti rock; dagli allestimenti dei congressi, al parquet per il basket. A Bologna in Piazza Azzarita sono passati in tanti, dai Rolling Stones ai Pink Floyd sono tante le facce che ho visto. Non credo sia esagerato dire che una discreta fetta delle persone più famose del mondo, ci hanno messo piede almeno una volta". Chissà quante litigate, in una carriera così lunga: "No, no, assolutamente. Il mio rapporto è sempre stato ottimo con tutti. Porelli? Nonostante abbia un carattere un po' difficile, non c'è mai stato nemmeno uno screzio tra di noi. Attorno al mondo del basket sono nate un sacco di leggende, come quella della bilancia con cui Peterson pesava i giocatori, multandoli se sgarravano con la linea. Io non l'ho mai truccata, malgrado le suppliche...".
Qual è l'amicizia che ha più resistito all'usura degli anni? "Quella con Driscoll, senza voler fare torto agli altri. Non è passata visita a Bologna, che Terry non sia venuto al palazzo a salutarmi, per poi andare a cena insieme. Io mi sono sempre adoperato per risolvere i problemi di tutti. Le ore al lavoro non si sono mai contate, però credo che ne sia valsa la pena". E situazioni difficili ne ha vissute molte? "Beh al Palazzo abbiamo fatto anche il congresso di Lotta Continua, il 77 rosso. Potete immaginarvi lo stato d'assedio... Il dialogo però non è mai mancato e così siamo riusciti a venirne fuori anche se in quegli anni spesso la calma era un'illustre sconosciuta. Parliamo un po' di basket, del derby per esempio. "Una partita proprio particolare. Erano le "mie" squadre a scendere in campo. Il mio cuore era diviso a metà tra Virtus e Fortitudo. Non potrebbe essere altrimenti. Di volta in volta ho sperato che vincesse la squadra che aveva maggiore bisogno per la classifica. Ma lo giuro, per me sono tutte e due sullo stesso piano". E adesso caro Andalò? "Adesso mi riposo. Una volta non sapevamo nemmeno cosa fosse la macchina per il ghiaccio. Si beveva dal rubinetto, oggi c'è il Gatorade. Insomma il tempo è passato per tutti".
Con Andalò, va in pensione anche Tonino Menozzi, il segnapunti del tavolo, che però dovrebbe continuare a farlo per conto delle due società cittadine, Il sostituto di andalò è Daliso Gulmini, già da diverso tempo aggregato al "maestro". Un'eredità pesante da raccogliere.
ANDALO', IL CUSTODE PIU' AMATO
di Alberto Bortolotti - Bianconero numero speciale giugno 1998
Provate a vedere se c'è un altro custode di impianti sportivi in Europa così famoso e - giustamente - così celebrato. Forse ce n'è uno, Gigi Tesei, il Caronte dello Stadio Dall'Ara, anche lui emerso agli onori della cronaca ma solo negli ultimi due-tre anni. Bologna è speciale anche in questo, perché speciali sono i bolognesi. Amato Andalò, ora si può dire, è un virtussino doc (qualche passioncella in questo senso ce l'ha anche Daliso Gulmini, il suo successore) che ha sempre goduto di stima e di rispetto dai cugini, la cui Fossa gli ha dedicato quello striscione - Andalò, il custode più Amato - tanto semplice quanto efficace.
Andalò è tale da quanto la Virtus è ridiventata tale. Intendo dire che la sua storia di "primario" del Palazzo è strettamente connessa con il ritiro alla gloria della V nera targata Porelli, del quale fu un sodale prezioso, quasi insostituibile, pur nel rispetto assoluto dei ruoli. Amato non è un uomo di cultura, è un uomo di buon senso e anche, in una certa chiave, di potere.
Tenere il palazzo acceso nell'attesa del ritorno dei reduci scudettati dal Palazzone di San Siro fu una genialata, ma anche un'ostentazione di autonomia che sol il San Pietro di Basket City poteva permettersi. E poi un Palazzo così bello, così centrale, così unico (non me ne voglia patròn Cazzola, ma io sono fra quelli che andrebbero sempre in Azzarita, pur comprendendo perfettamente le ragioni imprenditoriali che hanno portato alla scelta di Casalecchio) fu arricchito da quel "brain trust" messo assieme da Porelli nel quale, oltre a Pirro Cuniberti, Lucio Dalla, Bonvi, c'era posto anche per Andalò, che per il basket, per la Virtus, soprattutto, ha avuto un ruolo quasi di Sindaco: due battute spicce in dialetto (perché Amato sapeva essere anche ben poco tenero con gli spaccaballe, tra cui noi mocciosi del basket) valevano tanto quanto un progetto grafico, una canzone, una vignetta.
Era un'altra epoca, tanto che di "coccodrilli" professionali sul "buen retiro" di Andalò ne abbiamo già scritti quando uscì dalla scena del PalaDozza, e ci sembrò che il nuovo, cioè l'attuale PalaMalaguti, inghiottisse senza remissione il vecchio. Una storia troppo americana, perché qui funziona, per fortuna, un'altra filosofia, e la storia di Amato - anche se, per essere sinceri, in un ruolo meno centrale - è andata avanti fino a quella straordinaria gara5, che ci ricorderemo per il resto dei nostri giorni. Io mi limito a dire grazie. Lo stesso che abbiamo riservato a Brunamonti, che riserveremo a Porelli e Peterson, che dobbiamo a Messina, Danilovic, Binelli e Cazzola.
Sono le figure-franchigia che rendono Bologna famosa cestisticamente nel mondo. Anche lustrare il parquet (e Andalò ha fatto quello, ma anche cose ben più gratificanti) ha un'importanza centrale. Ti aspettiamo per il terzo Palasport.
ANDALÒ, IL SIGNOR PALADOZZA: "BASKETCITY È LA MIA VITA"
Padrone e custode di Piazza Azzarita: tanti i ricordi delle 49 sfide vissute da vicino: "Porelli grande dirigente, Messina il coach più bravo. Anche Lamberti trovava sempre qualcosa di speciale"
di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 10/03/2007
Il signore del derby e del PalaDozza del quale è stato padrone e custode al tempo stesso per un quarto di secolo. Amato Andalò, classe 1927, è stato l'uomo che, dal 1966 al 1991 ha raccolto, custodito e conservato gelosamente i segreti della Città dei Canestri. E, più in generale, tutto quello che è passato dall'impianto di piazza Azzarita, non ancora intitolato al sindaco Dozza. Venticinque anni e 50 derby. I primi 50. anzi, uno di meno per essere pignoli, perché la stracittadina numero 15 - tutte le altre consumate sulle tavole di piazza Azzarita - si giocò il 28 aprile 1973 a Cremona (vittoria dell'Alco sulla Norda per 67-61). Amato (una moglie, Liliana e quattro figli, Luciano, Roberto, Emma e Francesco), signore e padrone del PalaDozza, apre il suo album dei ricordi.
Andalò, parliamo del derby.
"Non ne vedo più da dieci anni. Non sono in grado di fare un pronostico".
Ma noi le chiediamo di sfogliare il suo album.
"E allora di ricordi ce ne sono tanti".
Per esempio?
"Beh, mi permettevo di dare qualche consiglio. E mi ascoltavano anche. Spesso capivo in anticipo chi avrebbe vinto il derby".
Come faceva?
"Osservandoli. Da come preparavano la sfida, dalla grinta, dalla determinazione".
Il giocatore più tranquillo?
"Villalta. Si faceva sentire solo se lo andavi a "toccare". Ma si faceva sentire in campo".
Il più teso?
"Gianni Bertolotti. Era esuberante, prima del derby si agitava".
Lei i primi li ha visti tutti?
"Per forza. Ho cominciato a lavorare al palazzo nel 1966, l'anno del primo derby".
Gli stranieri che le sono rimasti in mente?
"Tom McMillen: non si staccava mai dal pallone, nemmeno in aereo. Poi Jim McMillian: di lui ricordo i piedi, anzi, le caviglie nel ghiaccio. E poi Driscoll. Uno che non esitava a rimproverare i compagni più giovano, come Bonamico e Porto, se non li vedeva concentrati. E poi Schull".
Il Barone.
"Proprio lui. Era un personaggio, aveva potenza, carisma e grande volontà. Si caricava i compagni sulle spalle. E loro lo seguivano".
L'allenatore?
"Facile, Messina. Il "non plus ultra". Sapeva parlare in faccia ai giocatori, non si faceva condizionare da niente e nessuno. Mi sembra che sia andato lontano".
Il suo alter ego in Fortitudo?
"Anche qui nessun dubbio, Beppe Lamberti. Magari non aveva squadre straordinarie. Ma nel derby riusciva sempre a trovare qualcosa di speciale".
Il dirigente?
"Resto affezionato all'avvocato Porelli. Con lui si poteva anche discutere e litigare. Ma alla fine andavamo al bar a prendere un caffè. Davvero un grande dirigente".
Derby, la gara più richiesta. Non sarà stato facile per lei gestire quella pressione.
"Pressione? Nessuna. I posti erano quelli. Più di tanti non potevano entrare".
Chissà quanti le ricordavano di essere suoi amici.
"Amici tanti, ma la risposta era chiara: non avevo né biglietti né possibilità di accordare entrate di favore".
Il derby più bello?
"Difficile trovarne uno quando ne hai visti tanti".
Il palasport dal 1966 al 1991 è stato il suo salotto.
"Sono stati gli anni più belli per me e la mia famiglia. La città mi ha sempre rispettato. E io ho fatto altrettanto. Mai avuta una discussione con i club. Alla base di tutto c'era stima e rispetto".
Lei azzeccava spesso il risultato: chi vince domani?
"Non lo so. E non lo vedrò nemmeno. Meglio: non voglio vederlo".
Il basket non le piace più?
"Al contrario. La pallacanestro mi ha dato tanto. E mi ha lasciato tanti ricordi straordinari. Non posso rischiare di rovinare quei ricordi. Lunedì, con calma, sfoglierò il giornale. E con tranquillità leggerò chi ha vinto, chi ha segnato più punti".
Tanti record in pericolo, uno solo continua a resistere: i 25 anni di fedeltà e lavoro del signore del PalaDozza restano un primato.
L’UOMO CHE ILLUMINO' IL PALAZZO A GIORNO
di Marco Tarozzi - www.virtus.it - 23/01/2014
Tocca ad Amato. Lui che chiuse la sua lunga vita a Palazzo quando già era “migrato” nel mondo nuovo di Casalecchio dopo una vita passata al Madison di piazza Azzarita, e la chiuse poco tempo dopo quel “tiro da quattro” dello Zar che segnò la storia del derby, fissando in un’immagine indelebile l’età dell’oro del basket bolognese. Lui che quell’avventura l’aveva costruita accanto a Gigi Porelli, l’Avvocato che gli consegnò le chiavi dell’impianto facendone molto più che il custode, ma l’anima, il tutore, il monarca illuminato. Lui che partorì l’idea perfetta, accendendo a giorno il palazzo mentre la Virtus tornava da Milano stringendo tra le mani uno scudetto storico, quello della Stella.
Sono passati quasi trent’anni da quel giorno, e quasi quindici da quando Amato ha “staccato le medaglie” salendo al “buen retiro” di Mongardino, lasciando in eredità una pallacanestro da grandi ribalte diventata negli anni un po’ meno felice, quanto a risultati, ma animata da quella passione che a Bologna non è mai venuta meno, e che anche quando sembra svanita ci mette un niente a riaccendersi.
Amato Andalò gestiva il palazzo con sicurezza, la stessa che l’Avvocato mostrava nel guidare la Virtus. Lui, rispettoso dei ruoli, era nella cerchia stretta degli uomini di Porelli, e con la sua esperienza aveva sempre diritto a spendere parole che non andavano sprecate. Poche, dirette, concrete. Come il suo carattere, che ad un primo approccio poteva sembrare spigoloso, ma subito si apriva in una generosità unica.
Un virtussino che teneva dentro molta della sua passione, perché il palazzo era terra di tutti, e che ha per questo goduto di un affetto trasversale, “super partes”, totale. Se la storia della Città dei Canestri è fatta di icone, Amato Andalò fa parte a pieno titolo di questa preziosa collezione. Se la pallacanestro da queste parti è passione, lui ne è stato per un tempo infinito il depositario. Varrebbe la pena sedersi ad ascoltare le sue storie, perché sono lezioni di vita.
CHIAVI IN TASCA, CUSTODE DI UN MITO
di Marco Tarozzi - www.virtus.it - 26/01/2016
Nelle sue tasche c’erano le chiavi del palazzo. Del PalaDozza, quando ancora non si chiamava così e lo definivano, semplicemente e a ragione, il “piccolo Madison”. E le tasche erano quelle del grembiule nero, che gli davano quell’aspetto austero sotto cui batteva un cuore pieno di passione, generoso, unico. Per la pallacanestro, per il suo mestiere, per quel piccolo mondo antico che l’avvocato Porelli gli aveva affidato, e che lui custodiva con cura, e coltivava, e aiutava a crescere.
Amato era molto più che “il custode del palazzo”. Se quello era il piccolo, grande regno di una città avviata a diventare BasketCity, lui ne era il re silenzioso e pieno di premure. Li aveva visti passare tutti, campioni e non. Erano i suoi ragazzi. Aveva una passione per la Virtus, ma non la confessò se non nel momento del “buen retiro” a Mongardino, perché aveva saputo farsi voler bene, si era guadagnato rispetto e amicizia, anche sull’altra sponda, tra la gente dell’Aquila. Così deve essere, tra chi vive di sport. E l’amicizia e il rispetto, quelli veri, sono tesori preziosi. Amato lo sapeva, per tutta la vita se li era tenuti stretti.
Aveva inventato la serata magica, nel regno di piazza Azzarita. Illuminandolo a giorno in quella notte incantata, mentre la metà bianconera del tifo bolognese aspettava i reduci da Milano che stavano tornando a casa tenendo stretta in pugno la Stella, dopo aver conquistato in fondo a una serie imprevedibile ed irripetibile lo scudetto numero dieci nella storia virtussina. L’Avvocato era con la squadra, naturalmente, e la responsabilità di accendere tutte le luci del palazzo se la prese lui, Amato, piccolo sovrano taciturno che seppe fare la cosa giusta al momento giusto. Illuminò la storia, e nessuno, poi, se lo sarebbe mai più dimenticato.
Da piazza Azzarita emigrò anni dopo a Casalecchio, un mondo nuovo dove fece in tempo a testimoniare gli anni felici, l’età dell’oro di una Bologna che si era messa in testa di diventare regina d’Europa, ancora più che d’Italia. Sempre tenendo a mente quei tempi eroici da cui tutto era iniziato. Mai dimenticando la guida dell’Avvocato, che quando occorreva gli chiedeva un parere, perché Amato negli anni si era guadagnato questo lusso di pochi: poter dire la sua, quasi sempre con poche parole, perché gli bastavano a definire la situazione mettendola nero su bianco.
Ha visto il grande basket e la grande musica, in piazza Azzarita. Ci passarono i Rolling Stones, gli Who, Miles Davis, Jimi Hendrix, Elton John. Ha visto i campioni di tanti sport che quella bomboniera la sceglievano per le loro esibizioni speciali. E lui, Amato, teneva in tasca le chiavi. E quando le leggende se ne andavano, spegneva le luci e chiudeva le porte. Mito tra i miti, per sempre.
CIAO AMATO, LEGGENDA SILENZIOSA
tratto da www.virtus.it - 26/01/2016
La Virtus dice addio ad Amato Andalò, per oltre un quarto di secolo custode e anima del palazzo dei canestri. Al Palasport di piazza Azzarita prima, poi a Casalecchio, aveva visto passare tutti gli uomini della nostra pallacanestro, e per tutti era stato un papà, dall’apparenza a volte burbera e infinitamente generoso. Amato, all’età di ottantotto anni, ha raggiunto Liviana, moglie e compagna di una vita, scomparsa appena tre mesi fa.
Virtus Pallacanestro e Fondazione Virtus si stringono ai figli Emma, Luciano, Francesco e Roberto, nel ricordo di un grande uomo.
CIAO AMATO, IL CUSTODE DI ALCUNE DELLE PAGINE PIÙ BELLE DELLA NOSTRA VITA
di Alessandro Gallo - blog.quotidiano.net - 27/01/2016
“Giovane, dove stai andando?”. Mancano pochi minuti alle 2, sono appena tornato a casa. Sto cercando di rovistare, nell’album dei ricordi della mia memoria, il primo contatto, il primo approccio con Amato Andalò. Il signore del PalaDozza per un quarto di secolo si è spento ieri pomeriggio, a tre mesi di distanza dalla sua Liliana. Torno indietro nel tempo, viaggiando sulla mia De Lorean, sono alla metà degli anni Settanta. Io ho 11-12 anni, sono alto un metro e un barattolo, ma impazzisco per la pallacanestro. E il tempio dei canestri è in piazza Azzarita, al Madison come lo chiamiamo noi che quello vero, quello di New York tanto per intenderci, non lo abbiamo visto nemmeno in cartolina.
Il capo assoluto di quell’impianto che sta a due passi dalla mia scuola media, le Gandino, è Amato Andalò. Inconfondibile, perché ha sempre un grembiulone nero. E nelle tasche ha più chiavi di San Pietro, perché provate voi a mettere i lucchetti a ogni porta del PalaDozza. C’è da diventare matti. Tutti, tranne lui, Amato Andalò.
Sono uno di quelli che frequentano i corsi di basket al PalaDozza, sognando di diventare un campione. Magari illudendosi di arrivare a schiacciare. “Giovane, dove stai andando?”.
Ecco la voce di Amato che rimbomba nella mia mente. E con la voce mi rendo conto di un aspetto. Che ho celebrato (giustamente) l’icona Andalò, perché è stato il testimone oculare di alcune delle pagine più belle ed entusiasmanti dello sport bolognese. Ma celebrandone la grandezza sportiva, rischia, forse, di trascurare l’uomo. Il padre di famiglia. Quello che ha insegnato, con il suo grembiulone nero e, apparentemente, con il suo carattere burbero, a comportarsi in un certo modo a generazioni di bolognesi. Mi spiego: Andalò non era il proprietario dell’impianto. Perché il proprietario era il Comune. E oggi - quante volte succede? – quando il proprietario è un altro, si tende quasi a fregarsene. Tutti o quasi. Lui, Amato Andalò, no. Mai. Ha sempre trattato il PalaDozza, che era di tutti, come se fosse suo. Ma, proprio amando e servendo l’impianto, come si farebbe con un figlio – Amato e Liliana ne hanno avuti quattro, Francesco, Emma, Roberto e Luciano -, il signore del PalaDozza ce lo ha sempre messo a disposizione. Con cura e passione. Quasi un pezzetto di quell’impianto fosse veramente roba nostra.
Il rispetto per le cose e per il prossimo. Il rispetto per la cosa pubblica. Ecco qualcosa di Amato che ci resterà dentro, per sempre, come quel primo approccio, “Giovane, dove stai andando?”.
E poi, ripensando ad Amato, mi viene in mente quanto, in fondo, sia piccolo il mondo. All’ora, parlo sempre degli anni Settanta, Amato mi appariva un gigante. E, con il grembiulone nero e per la voce tonante, quasi qualcuno da aver paura. Impressione, fugaci e fuggenti, di un ragazzino di 11-12 anni.
Ma, proprio perché il mondo è strano e, fondamentalmente piccolo, mi viene da sorridere. Perché il mondo è piccolo? Beh, perché Amato aveva un braccio destro (ovviamente sempre con grembiulone nero) che rispondeva al nome di Tonino Menozzi. E negli anni Settanta non avrei mai pensato che un giorno avrei sposato una ragazza di nome Maria Grazia, che di Tonino era la nipote.
Non avrei mai pensato, in quegli anni Settanta, che un giorno avrei avuto l’onore e il piacere non solo di intervistare Amato, ma di diventare amico di suo figlio Luciano. Ecco perché il sorriso, ripensando a quanto sia piccolo il mondo, lascia spazio anche a una piccola smorfia di dolore. Bologna ha perso un pezzo di storia, un mio amico sta piangendo il suo papà. E io, ancorché virtualmente, non posso che piangere al suo fianco.
IL BLOG DEL COACH: AMATO ANDALÒ
di Dan Peterson - 09/11/2020
Amato Andalò è stato, prima di me e dopo di me, il custode del Palazzo dello Sport in Piazza Azzarita a Bologna, ‘casa’ della mia Virtus Bologna, 1973-78, e anche della Fortitudo Bologna. E’ stato, in quel momento, l’impianto di basket più bello d’Italia e, secondo me, di tutta l’Europa. Anzi, lo chiamavano ‘Il Madison Square Garden dell’Italia.’ Molto merito di questo è stato dell’impianto stesso, aperto nel 1955. Ma anche dei ritocchi fatto all’interno dall’Avv. Gianluigi Porelli, nostro deus ex machina. Ma anche per la cura di grande amore con cui Amato ha tenuto e mantenuto la sua bellezza e la sua pulizia.
Questa storia comincia molto prima del mio arrivo a Bologna. Nel 1962, stavo prendendo la mia seconda laurea, un Master, in Amministrazione Sportiva, dall’Università di Michigan. Stavo per iniziare la carriera di allenatore. Per la verità, anche se ben nascosto, avevo un po’ di paura! Quindi, ho scritto una lettera al coach di baseball al mio liceo, la Evanston High School, coach Danny Blaze, un mentore per me. Mi aveva tagliato dalla squadra di baseball ma mi ha sempre sostenuto come coach. Mi vengono ancora le lacrime negli occhi quando penso a lui, un uomo incredibile, una leggenda.
Nella lettera, ho chiesto qualche consiglio per l’inizio della carriera. Due giorni dopo, mi arriva la sua risposta. Mentre laceravo la busta, mi sono arrabbiato con me stesso: “Dan! Non dovevi disturbare coach Blaze! Sai cosa ti dirà. Condizionamento fisico. Fondamentali. Squadra.” Poi, “Ti dirà che se sei preoccupato per attaccare il pressing, allora lavora 15’ ogni giorno contro pressing! Se sei preoccupato per attaccare la zone, allora lavora 15’ ogni giorno contro la zona!” Con questo auto-rimprovero in testa, aprivo la busta e toglievo sua lettera. Una pagina sola. Mi ricordo ogni parola, tuttora.
Disse: “Caro Dan, Il mio primo consiglio è di fare amicizia con il custode del palazzo!” Un pugno in faccia da Mike Tyson mi avrebbe fatto meno effetto di quelle parole. Il mitico Danny Blaze non era preoccupato per questioni tecniche, per attacchi contro pressing, per schemi contro la zona! No. Niente affatto. Per lui, la prima cosa era la SQUADRA. E, per lui, TUTTI facevano parte della squadra, anche il custode del palazzo! Non l’ho mai dimenticato. Quando tornai in Cile, nel 1999, avevo una richiesta alla Federazione: poter vedere Duque, nostro custode al Ginnasio Nataniel di Santiago. L’ho abbracciato e l’ho ringraziato per tutto.
Sia chiaro, il grande Gigi Porelli era, come sempre, anni luce davanti a me con il rapporto con Andalò. Porelli era come Danny Blaze. Sapeva che tutti facevano parte della squadra. Comunque, come tutti, ho voluto un mondo di bene ad Amato Andalò. Entrare nel Palazzo dello Sport e vedere lui che mi aspettava, con sorriso positivo, mi dava ‘onde’ positive. Poi, lo amavano tutti. Ogni addetto. Ogni giocatore. Ogni tifoso. Ogni giornalista. Ogni suo collaboratore. Sì, lui faceva parte della squadra. Trattava la Fortitudo con grande rispetto ma lui era ‘nostro.’ Aveva la V Nera stampato sul cuore.
LA VIRTUS E LE FRASI CELEBRI - QUARTA PUNTATA: AMATO ANDALÒ
di Ezio Liporesi - 1000cuorirossoblu - 14/07/2023
"E se viene il presidente della Repubblica a trovarmi dove lo faccio sedere"
Quando il derby aveva capienza illimitata, una volta in parterre mancò il posto per alcuni addetti ai lavori e allora si corse da Andalò a recuperare tutte le sedie disponibili e Amato pronunciò la celebre frase.