MIKE SYLVESTER

(Michael Joseph Sylvester)

Sylvester e il tiro a "caricamento laterale" che l'ha reso celebre

nato a: Cincinnati, Ohio (USA)

il: 10/12/1951

altezza: 196

ruolo: guardia/ala

numero di maglia: 15

Stagioni alla Virtus: 1987/88 - 1988/89 - 1989/90

statistiche individuali del sito di Legabasket

biografia su wikipedia

palmares individuale in Virtus: 2 Coppe Italia, 1 Coppa delle Coppe

 

L’ATIPICO MIKE SYLVESTER

di Roberto Cornacchia - VMagazine

 

Mike Sylvester è stato un giocatore atipico. Atipico per via di quel suo tiro in sospensione che sfuggiva ad ogni logica, con un caricamento mai visto prima né dopo, che faceva disegnare una strana traiettoria al pallone prima del rilascio ma che, una volta staccatosi dalle sue mani, spesso e volentieri finiva dolcemente a canestro più spesso di quanto facessero la maggioranza di quelli con una meccanica di tiro da manuale. Atipico per il fatto di essere stato uno dei primissimi italo-americani nel periodo del boom del basket italiano degli anni ’70 e ’80, periodo in cui la Federazione difendeva a spada tratta l’italianità dei giocatori mentre altre nazioni già largheggiavano col rilascio delle nazionalità, pratica ormai diffusissima e tristemente mercenaria. Atipico per non essere mai stato disposto a fare un passo indietro di fronte a nessuno, nemmeno a soverchie forze nemiche, uno spirito che l’intatta schiettezza con la quale risponde alle mie domande rivela ancora vivo e vegeto.

Come sono stati i tuoi inizi?

Sono il primo dei sei figli, tre maschi e tre femmine, di Vito e Betty Sylvester. Io ero come molti ragazzi dell’epoca: appassionato di tutti gli sport e poco appassionato di cose scolastiche. Mi allenavo molto sia a baseball che a basket, venendo scelto da squadre professionistiche di entrambi gli sport.

Parlaci della tua carriera scolastica.

I miei quattro anni alla Moeller High School furono contraddistinti da migliaia di allenamenti di basket, baseball e football americano. Al termine della high school fui il destinatario di un centinaio di offerte di borse di studio nei vari sport a cui mi dedicavo. Scelsi la Dayton University e mi dedicai esclusivamente al basket. La mia ultima partita a Dayton, nel 1974, fu una delle più famose nella storia dell’ateneo. Ai quarti di finali, a Tucson in Arizona, incontrammo la mitica UCLA di John Wooden nelle cui fila militavano giocatori come Bill Walton, Jamal Wilkes e David Myers. Loro erano favoritissimi ma noi giocammo la partita della vita. Alla fine vinsero loro grazie ad una panchina molto più lunga della nostra, ma furono necessari ben tre tempi supplementari per avere la meglio su di noi. Io segnai 36 punti e non fui più un giocatore sconosciuto.

Quanto peso hanno avuto le tue origini italiane nel fatto che la tua carriera si è poi svolta tutta in Italia?

Nel 1974, terminata la carriera universitaria, venni scelto dai Detroit Pistons ed anche dai Chicago Cubs (squadra professionistica di baseball). Fin da piccolo il mio sogno era stato quello di diventare un cestista professionista e cominciai a rendermi conto che tutta la dedizione che ci avevo messo stava cominciando a dare i suoi frutti. Il mio agente mi consigliò di accettare l’invito di Cesare Rubini di fare una serie di tornei estivi con loro per un periodo di sei settimane. Durante il corso di questi tornei, Rubini scoprì che avevo origini italiane (un nonno pugliese) e mi offrì un quadriennale con la garanzia che sarei diventato italiano a tutti gli effetti dopo il terzo anno di contratto. M’innamorai dell’Italia fin dall’inizio e accettai l’offerta di Rubini… Il resto è storia.

I tuoi primi anni a Milano.

Come detto, firmai con Milano un contratto quadriennale ma giocai come straniero di Coppa fino al 1977, data in cui acquisii il passaporto italiano. Da lì in poi potei finalmente giocare come italiano a tutti gli effetti ma i primi tre anni furono piuttosto difficili. Mi allenavo tutti giorni e poi la domenica non potevo giocare, solo nelle gare infrasettimanali di coppa, circa una quindicina all’anno. Comunque accettai la situazione filosofia, fino a quando, col passaporto in mano, tutto cambiò.

I tuoi anni nella cosiddetta Banda Bassotti.

Conobbi Franco e Dino Boselli, Vittorio Ferracini e Vittorio Gallinari prima di Mike D’Antoni, che arrivò a Milano nel 1977. I due Boselli erano ragazzi d’oro. Franco e Dino erano gemelli e spesso dicevo ad uno dei due: “Sai che tuo fratello è davvero brutto?”. Ci cascavano spesso prima di ricordarsi che erano identici! Toio e sua moglie Cristina erano tra i nostri migliori amici, assieme a Pino Brumatti e signora. Toio era un grande combattente che dava il massimo di sé stesso ogni giorno. Se avesse avuto un tiro più pericoloso sarebbe stato un Azzurro a vita. Fuori dal campo era una persona intelligente, paziente e pieno di carattere. Gallinari era un gran difensore, pessimo tiratore e persona simpaticissima. Quando suo figlio Danilo Gallinari è diventato una prima scelta dei Knicks ho pianto di gioia per il Gallo e sua moglie. Mike D’Antoni è forse la persona più simpatica che abbia mai conosciuto. Grande intelligenza e grinta da vendere, per me è stato il play più bravo e vincente che l’Italia abbia mai avuto. Il fatto che abbia avuto grandissimo successo come allenatore non mi stupisce per niente. La sua personalità e intelligenza lo rendono un allenatore nato. I tre anni trascorsi con lui saranno sempre speciali nei miei ricordi.

Una parola su coach Dan Peterson.

Dan è una persona intelligentissima. Ha dimostrato che il successo per un allenatore parte da una regola semplice: trovarsi e tenersi buoni giocatori. Lui, come tutti gli allenatori di successo, deve innanzitutto valutare e firmare buoni giocatori. Poi è molto importante gestirli, una cosa che Dan ha sempre fatto bene. Tutt’oggi, quando vedo una sua fotografia, mi meraviglio di come sia sempre in gran forma… Impressionante!

Il basket che giocavate a Milano era abbastanza inconsueto per quei tempi: poco potenti sotto canestro, un 4 perimetrale come C.J. Kupec, potere (e punti) in mano ai piccoli, difese aggressive come la famosa 1-3-1, sembra quasi lo ‘spread offense’ di cui tanto si parla oggi in Nba, non a caso portato a notorietà da D’Antoni. Pensavi che il basket avrebbe preso questa direzione?

Il basket, come tutti gli sport, cambia spesso. Il nostro modo di giocare negli anni ‘70-‘80 partiva da una difesa fisica e aggressiva. I giocatori di oggi sono così potenti fisicamente che il basket a volte assomiglia al football americano. All’epoca Kupec e i gemelli Boselli erano i nostri tiratori puri. Io ero uno che doveva segnare in movimento, con o senza palla in mano. In America i giocatori come me sono detti “slasher.” Mike non era un gran tiratore, ma come difensore era davvero pericolosissimo. Il nostro gioco era prima la difesa, poi correre in contropiede. Peterson era bravo a farci giocare così.

L’addio a Milano.

Il proprietario Adolfo Bogoncelli aveva bisogna di soldi (almeno così mi aveva detto) e doveva vendere un giocatore italiano… Io ero quello dal valore più elevato, perciò mi misero all’asta e Pesaro mi prese. Il mio il trasferimento fu il più ricco della storia del basket italiano all’epoca. Mi dispiaceva lasciare Milano, ma ero un professionista ed ero pronto ad andare dove avevano bisogno di me.

I tuoi anni a Pesaro.

Credo che il mio arrivo e quello di Walter Magnifico diedero inizio ad un buon periodo per il basket pesarese. La squadra divenne immediatamente un’avversaria temibile per chiunque. Furono gli anni più produttivi della mia carriera. Nelle mie stagioni a Pesaro vincemmo una Coppa Europea e una Coppa Italia. Poi gli arrivi dei vari Dragan Kicanovic, Domenico Zampolini, Andrea Gracis e Ario Costa gettarono le basi per una bella serie di successi. Sono fiero d’essere stato parte di quella trasformazione.

Dopo anni a Milano e Pesaro, storiche rivali della Virtus, giungesti a Bologna.

Finii a Bologna grazie alla stagione bruttissima che feci a Rimini nel 1987. La Hamby di quella stagione era composta da me, Jeff Lamp, Olden Polynice, Maurizio Benatti, Marco Ricci e un sacco di giovani. Una rosa mica bruttissima, ma soltanto Gianfranco Lombardi fu capace di prendere una squadra con giocatori così bravi e portarla alla retrocessione. La società ci congelò tutti gli stipendi a Natale (tempismo perfetto, no?) e poi non pagò più niente a nessuno. Io trattai – in cambio dello stipendio non pagato – l’acquisizione del mio cartellino. L’avvocato Gianluigi Porelli comprò il mio cartellino e passai tre anni stupendi a Bologna. Il fatto che fossi considerato un “nemico” quando giocavo per altre squadre non mi passava neanche per la testa. Mi sentivo d’essere amato dai tifosi di ogni società nella quale militavo perché loro riconoscevano che davo sempre il mio massimo quando scendevo in campo.

Stagione 1987/88. Una squadra fatta da Porelli e consegnata a Cosic, forse non adatta al tipo di basket che voleva lui. Come fu quella stagione? Si diceva che Cosic avesse una visione del basket molto moderna per l’epoca, forse pure difficile da digerire dai giocatori. Si diceva inoltre che il feeling tecnico fra voi due non sia mai nato.

Quella stagione fu difficile per me. Non capivo che cavolo Cosic volesse da me perché era quasi impossibile capire il suo modo di esprimersi. Se aveva una visione del basket moderno, fantastico, ma purtroppo si trovava in un’epoca diversa. Una visione è utile soltanto quando sei capace di trasmetterla ai tuoi giocatori. Non ero l’unico ad essere tormentato dalla sua incapacità di comunicare, tutti noi ci trovavamo nella stessa barca. Io ruppi definitivamente con lui quando mi accusò di fingere una distorsione alla caviglia nello spogliatoio a Roma, dopo una vittoria bellissima, tra l’altro. Giocavo in Italia da 14 anni, ci potevano essere opinioni diverse sul mio modo di giocare ma nessuno ha mai potuto dire che non giocassi con grinta ogni volta che scendevo in campo… E spesso giocavo anche da acciaccato. Scesi in campo il giorno seguente la morte di mio figlio, porca miseria! Solo lui ebbe il coraggio (e l’ignoranza) di lanciarmi un’accusa del genere.

Stagione 1988/89, la Virtus americana, con Bob Hill, Sugar, Clemon Johnson e Peterson come GM. Quale fu il tuo ruolo in campo e anche fuori, per aiutare i tre nuovi arrivati ad ambientarsi?

L’anno con Bob Hill fu molto bello. Lui fu un grande allenatore e dopo l’annata passata con Cosic, Bob sembrava il Salvatore della patria! Io e mia moglie Lisa fummo di grandissima utilità per Bob e la moglie Pam. Credo che l’impatto iniziale sia stato meno problematico perché gli siamo stati vicini fin dal primo giorno. Sugar e Clemon erano simpaticissimi, oltre che grandi giocatori. Gli scherzi e le risate non finivano mai… Troppo bello. Sugar aggrediva spesso uno dei giocatori avversari (all’epoca il palazzo aveva le docce comuni per entrambe le squadre) e quasi sempre io finivo coinvolto. Infatti la Virtus fu costretta a costruire un’altra zona con le docce per gli avversari grazie alle scazzottate iniziate da Sugar! Clemon era un ragazzo d’oro e un vero professionista. Aiutai anche lui e famiglia quando avevano bisogno di aiuto, consigli oppure di una traduzione.

Stagione 1989/90. La prima di coach Ettore Messina e le prime vittorie, dopo tanti anni, in Coppa Italia e Coppa delle Coppe.

Di Ettore si vedeva subito che era un uomo di classe, intelligenza e grinta. La stagione 1989/90 fu agro-dolce per me. Vincemmo la Coppa, ma io subii un intervento alla schiena durante il periodo Natalizio. Vincere la Coppa fu molto bello, mio figlio Matthew ha ancora bei ricordi di quel giorno.

L’addio a Bologna.

Il mio addio a Bologna si verificò perché – giustamente – Ettore decise che coi miei 38 anni d’età non sarei più stato un buon investimento per la società. Per me fu un giorno triste, ma capii benissimo che Ettore aveva preso una decisione difficile ma necessaria per il bene della Virtus. Lui fece quello che altri magari non avrebbero avuto il coraggio di fare. Lo ammiro per il coraggio che dimostrò. Il fatto che Ettore abbia avuto grandissimo successo come allenatore non mi sorprende per niente… È davvero eccezionale.

Il tuo tiro particolare. Com’è nato? C’è stato un motivo particolare, magari per renderlo meno stoppabile, o è solo frutto del tuo istinto? Nessun coach ha mai provato a cambiartelo?

Il mio tiro atipico è nato semplicemente perché lo imparai male. A una certa età poi diventa molto difficile cambiare un movimento ripetuto per tanti anni. Cambiarlo, ma perché? Mi allenavo così tanto che era diventato efficiente. Pochi tentarono di cambiarlo per un semplice motivo: il pallone entrava a canestro!

La tua famosa durezza. Una volta Morandotti mi disse che in una partita gli tirasti un pugno in volto senza preavviso, ma che da quella volta in poi sei sempre stato molto gentile con lui, quasi come se ti fossi pentito di quell’approccio.

Quando ero un bambino mio padre mi disse: “Non tornare mai a casa piangendo per un litigio. Difenditi da solo in qualsiasi modo possibile”. Così imparai a farmi rispettare fin da piccolo e non mi tiravo mai indietro di fronte a nessuno. Morandotti sbaglia: non sono mai stato gentile con lui perché l’ho sempre trovato antipatico. In più, ritengo che giocasse sporco, una cosa che non sopportavo. Quel giorno quando facemmo a cazzotti… Beh, sono stato io a fare a cazzotti, lui i cazzotti li ha solamente beccati in faccia… Successe perché dopo una palla contesa lui mi alzò le mani contro come stesse per darmi un pugno. Io lo colpii per primo. Devo dire la verità: sono sempre stato grintoso, ma negli anni dopo la morte di mio figlio Michael diventai più nervoso che mai. Semplicemente, non ero me stesso durante quel periodo. Tutto questo però non cambia il fatto che avessi un’antipatia particolare per il Sig. Morandotti!

I tuoi ricordi della famosa rissa nel dopo partita di Caserta-Virtus dell’89.

A fine partita ci fu un’invasione di campo di almeno 200 tifosi. Io fui colpito tante volte (e le davo indietro più che potevo, naturalmente!) e Clemon fu colpito in testa da uno con una delle palette che si usavano per segnalare i falli. Due uomini molto grossi mi tenevano per le braccia mentre i tifosi mi colpivano con pugni e calci. Mi liberai e colpii in viso uno dei due causandogli una copiosa perdita sangue. Poi andai nello spogliatoio, dove Clemon aspettava sanguinante. Poco dopo i due entrarono nel nostro spogliatoio avvisandomi che erano poliziotti in borghese. Io, Clemon e loro due andammo in ambulanza all’ospedale. Tutto qua, la solita trasferta a Caserta!

La tua carriera da allenatore.

Tornai in America nel 1991, dove ho allenato due anni nel World Basketball League, vincendo un titolo, e un anno a Winnipeg nel Canada nella Canadian Basketball League. In seguito ho allenato a molti livelli diversi: high school, liceo e scuola elementare, dove continuo tutt’ora ad allenare come volontario nel dopo-lavoro.

Cosa ne pensi del basket odierno in Italia e in Nba?

Ritengo che sette stranieri siano troppi, in particolare con la crisi economica di oggi. Un’altra cosa che non mi piace: i giocatori europei di oggi cambiano squadra troppo spesso. Mi sembra che non ci sia più attaccamento alla maglia come trent’anni fa. Nella NBA i giocatori sono più potenti che mai, ma c’e sempre più la tendenza a cercare giocatori europei che sono più preparati dal punto di vista tecnico.

Di cosa ti occupi ora?

Da vent’anni faccio il Direttore della Logistica per un’azienda che distribuisce generi alimentari. Tra 3 anni vado in pensione. Mi piacerebbe un giorno ritornare in Italia come allenatore. Sono convinto di poter svolgere un bel lavoro con l’esperienza che ho. Basterebbe replicare i metodi dei vari Hill, Messina e Peterson ed evitare a tutti i costi le maniere di Cosic e Lombardi!

 

LA VALUTAZIONE DEL TALENTO: MIKE SYLVESTER

di Dan Peterson - www.basketnet.net - 20/06/2007

 

Includo Mike Sylvester nella mia analisi di giocatori americani perché, anche se ha origni familiari in Italia, è nato e cresciuto negli USA, a Cincinnati, Ohio. Per di più il suo pedigree, quello USA con Moeller H.S. di Cincinnati poi quattro anni all'Università di Dayton, compresa una partita incredibile nel torneo NCAA, contro l'UCLA di John Wooden, in cui il mitico Wooden non ha trovato la difesa giusta per "Sly", che ha infilato più di 35 punti alla squadra in cui giocava Bill Walton, perdendo solo dopo 3 tempi supplementari, 111-100.

Interessante. Trovavo estremamente interessante l'idea del leggendario Dr. Adolfo Bogoncelli, presidente-proprietario dell'Olimpia Milano, di usare la regola degli "oriundi" a suo favore; ugualmente interessante la scelta di Mike Sylvester, uno con 25 punti per partita nelle mani, era eliggibile per giocare in Serie A. Ne so qualcosa io: ci ha battuto due volte, prima a Bologna, poi a Milano. Come Wooden non avevo la risposta per il suo gioco.

Atipico. A dire poco, Mike Sylvester era un giocatore atipico. Alto 1,96, con fisico potentissimo (tipo Antonello Riva), ma non esattamente una guardia e non esattamente un'ala piccola. Un classico "in-between" fra un ruolo e l'altro, come dicono Negli USA. Nonostante questo marcava bene le guardie (Romeo Sacchetti) come le ali (Bob Morse). Poi, aveva quel tiro che partiva da dietro la testa, una specie di fiondata immarcabile. Se era in serata, e lo era spesso, non c'era difesa per ostacolare quel tiro. Infine, sapeva giocare uno contro uno, con palleggio durissimo e anche qualche piroetta.

Contesto. Nel contesto in cui mi sono trovato nel 1978, appena arrivato a Milano, Sylvester, come D'Antoni era una chiave. Negli anni precedenti la società aveva ceduto nazionali come Giorgio Giomo, Mauro Cerioni, Massimo Masini, Renzo Bariviera, Giulio Iellini, Pino Brumatti, Renzo Vecchiato e Paolo Bianchi. Mi sono trovato con D'Antoni, Sylvester, Vittorio Ferracini, un USA da scegliere e sei "juniores", Paolo Friz, Dino Boselli, Franco Boselli, Vittorio Gallinari, Valentino Battisti e Francesco Anchisi. Esperienza qausi zero, punti pochi e, quindi, avevo bisogno dei punti di Mike Sylvester.

Felice. Sia chiaro, Mike Sylvester era contentissimo di tirare 22 volte a partita. Con lui e C.J. Kupec avevamo due grandi realizzatori. Con D'Antoni un super play. Con Ferracini un rimbalzista-difensore-leader. Bastava trovare uno dei sei ragazzi per fare cinque. Dicevo spesso loro: "Ogni partita provo uno, un altro, un terzo, un quarto, un quinto schifo tutti. Poi, il sesto gioca bene. Ditemi, no' Faccio partire il sesto in quintetto!". Questi però erano 10 leoni, la famosa "Banda Bassotti", nome dato da Oscar Eleni. Pronosticati per retrocedere, hanno fatto la finale scudetto.

La valutazione di Mike Sylvester era semplice: servivano punti e lui faceva punti. Bonus: difesa, durezza, personalità. Qualcuno dice che era difficile da gestire. Invece, come tutti, basta parlare chiaro. Lui sapeva cosa volevo da lui (punti) e cosa non volevo da lui (tiri scriteriati). Lui era anche comico. Dopo un primo tempo da 1/10 dal campo e noi sotto al Palalido all'intervallo, entro nello spogliatoio preoccupato e lui sorride: "Coach ho una buona notizia!". "Quale?". "Non posso giocare peggio!". Fece 20 punti nel secondo tempo e abbiamo vinto. La finale 1979 porta anche la sua firma.

Mike Sylvester batte in palleggio Meo Sacchetti (foto Giganti del Basket)

FORSE È L'UOMO IN PIU'

di Gianfranco Civolani – Superbasket – 05/11/1987

 

Mike Sylvester, l'ipotetica chiave di volta della situazione. L'uomo in più. Non so se i lettori ricordano, ma proprio in questo senso scrissi qualcosa il mese scorso e appunto in questo senso “SB” ebbe la bontà di farci un titolo. Mike Sylvester ha felicemente deciso (e dico felicemente in riferimento ai suoi desideri e anche a quelli della tifoseria virtussina) di chiudere l'attività agonistica con la Vu nera nel petto e di fermarsi un paio d'anni nella mia città.

La cosa curiosa - dice Mike – è stata l'aggancio. Io sicuramente desideravo giocare in una squadra di livello e mi ero già guardato un po' in giro. E mi ero procurato di far sapere di essere proprietario del mio cartellino. D'improvviso ricevo una telefonata nel mio ristorante, lascio squillare il telefono un bel po' e poi per scrupolo e di malavoglia vado a rispondere. C'era Porelli. Mi dice che vuole parlarmi e mi chiede se in un paio d'ore posso volare a Bologna. Non ci ho pensato un attimo. Una rapida doccia, un'ora di auto e mi sono presentato puntualissimo e con grande entusiasmo. E devo dire di aver scelto benone perché alla Virtus ci sono tutti i presupposti giusti per fare le cose molto per bene.

Pesaro e Bologna, Rimini a parte. Pesaro e Bologna, Mike che differenza ci trova?

Il discorso di Rimini potrei liquidarlo in dieci secondi. Con Lombardi non c'era proprio feeling. A un certo punto decidemmo di non rivolgerci più la parola, da una parte lui e dall'altra noi giocatori. Non vedevamo l'ora che quel benedetto campionato finisse, tutto qui. La differenza fra Pesaro e Bologna? A Pesaro la gente ti pressa di più, a Pesaro il basket è quasi tutto. Anche Bologna vive di basket, ma il giocatore può circolare liberamente e poi ho anche l'impressione che le strutture societarie della Virtus siano più avanzate di quelle della Scavolini. A Bologna oltretutto una larga parte del pubblico mostra grande competenza e questo fatto è molto gratificante per un atleta, il fatto cioè di essere giudicato da gente che sa quel che dice e di cosa parla. Però voglio anche dire che Pesaro sta facendo passi da gigante in tutti i sensi e che per me quest'anno può benissimo vincere il titolo.

Molto bene, ma questa Virtus quante chances ha?

Quando recupereremo Binelli avremo le stesse chances di tutte le squadre più reputate. Per il titolo vedo ancora la Tracer favorita con inserimento di Pesaro. La Virtus oggi tiene botta senza Binelli e dunque la logica dice che al completo la Virtus non dovrà proprio temere nessuno.

Nella Dietor che Cosic sta pazientemente amalgamando, il collante è proprio Sylvester. Ma un collante un po' speciale, che calza a pennello anche con le sue innate qualità di risolutore quando serve. E allora arriviamo al signor Sylvester. Preso come aiuto di Brunamonti o come estemporaneo spanieratore o per che cosa?

Cosic è un'allenatore intelligente che finora mi ha sempre utilizzato al meglio. Inutile che io racconti favole: fisicamente non sono più quello di cinque anni fa, ma penso di aver acquisito esperienza e penso di poter dare ancora parecchio se impiegato in un certo modo. Un aiuto a Brunamonti? Roberto è una grandissima guardia e potrebbe dare il massimo se avesse vicino un D'Antoni. Ma io credo che anche così come siamo possiamo fare molta strada. Quanta strada? Vediamo, vediamo.

Ultima cosa: Mike si porta addosso i suoi gagliardissimi trentasei anni e dunque come la mettiamo con l'immediato futuro?

Semplice: vorrei dare veramente qualcosa di serio alla Virtus per due anni e poi far l'allenatore, forse in Italia, forse in America. Ma ritengo di aver qualcosa da dire anche in panca e insomma le mie scelte future sono già ben profilate.

Prendo atto e mi permetto di dire una piccola cosa: chiacchieri con Mike, ti accorgi che è nato per fare il coach e sei portato a dire che sarebbe un delitto non accordargli nel Belpaese una chance di livello. Dove? Non so, ma nel Belpaese.

 

Sylvester in palleggio (foto fornita da Meris Zamboni)

SILVESTER IL DURO SPARA CONTRO I GIOVANI AZZURRI

di Guido Ercole - La Stampa - 06/12/1987

 

La caviglia infortunata domenica continua a dolere, ma Mike Silvester non è tipo da arrendersi: "Le mie caviglie sono così distrutte da tanti anni di battaglie e incidenti che non si gonfiano neppure più, ingannando persino i medici. Mi fa male ma non è il momento di piangere: un'iniezione di novocaina e gioco".

Da autentico duro tipo western, l'oriundo di Cincinnati "morde la pallottola" e scende in campo: la Dietor ha bisogno di lui contro la San Benedetto per mettere la museruola ad un altro acciaccato, Morandotti, "un tipo che non ha paura" dice Mike ricordando una loro improvvisa, violenta scazzottata di tre anni fa. E Silvester non è certo il tipo che si tira indietro, mai: la sua "sana" cattiveria agonistica però purtroppo non è stata esempio sufficiente per tanti giovani italiani senza cuore.

"Non è colpa loro, è sbagliato il sistema - giudica Mike -. Ci sono ragazzi che diventano professionisti a 15-16 anni, montati da certa stampa, e i giovani di quell'età non sono in grado di gestire quello che accade loro. In Jugoslavia o negli USA emergi dopo aver fatto la fame, di pane o di dollari, e ti porti dentro quella rabbia: qui diventi subito un capitale e non hai più stimoli".

Lui invece, 36 anni giovedì prossimo, stimoli ne ha ncora tanti. Magari anche la conquista di quello scudetto sfuggitogli negli anni d'oro di Milano e Pesaro. La Virtus quest'anno ha cambiato strada, ha puntato su giocatori esperi come lui, copiando la Tracer: "Una scelta intelligente, visto che a Milano è stata una strada vincente: esperienza e grinta servono sempre".

Il connubio tra giocatori vecchi e un allenatore giovane come il vescovo mormone Cosic è però ancora in fase di rodaggio, e Mike stesso lo ammette: "Siamo al 50-60 per cento del potenziale: ci manca fluidità, amalgama e ci salviamo col talento, la stazza, l'esperienza, sperando che il gioco arrivi in tempo, prima dei playoff. Del resto finora il campionato non ha detto molto: equilibrato, poco spettacolare".

Con Cosic, al momento, una corretta coesistenza, del resto Silvester è ormai abituato ai tecnici slavi: "Ho avuto Nikolic, un caso a parte, fanatico dell'ordine, un tedesco più che uno slavo; Skansi e Cosic invece sono simili. Kreso ama il gioco libero, garibaldino, e improvvisa molto: per chi era abituato a Gamba adattarsi è stato difficile. All'inizio ci ha concesso libertà totale, ma la squadra non ha la fantasia che avevamo a Pesaro, allora ha dovuto assegnarci movimenti più fissi, ma non siamo ancora a posto".

Quest'anno comunque non manca la tranquillità attorno alla squadra: Bologna "adora" Cosic tanto quanto "odiava" Gamba. "Una strana avversione perché Gamba è una persona d'oro - dice Mike - un gran tecnico anche se peccava nel non accettare o rendere difficile il dialogo con i giocatori. Ma la spiegazione della contestazione è semplice: qui contano solo i risultati e noi, tutto sommato, finora li abbiamo fatti, anche se magari strappandoli coi denti".

Da Gamba alla Nazionale il passo è breve: il CT vuole una squadra dura, grintosa, magari con qualche specialista e sembra disegnare il ritratto di Silvester, eclettico, buon difensore (quando vuole), efficace tiratore. Potrebbe riproporre la propria candidatura, ma Mike se la ride: "In azzurro ci sono stato anche bene, con gioie come l'argento di Mosca e tristezze. Ma la Nazionale è un'attività estiva per i giovani: è giusto che si divertano loro".

Sylvester in sospensione

PLAYOFF E CANESTRI VIOLENTI

di Leonardo Iannacci - L'Unità - 04/05/1989

 

(...)

E così, dopo quaranta minuti di fuoco che hanno condannato per l'ennesima volta i fanciulli di Caserta ad un'eliminazione prematura dalla scena, scoppiavano le immancabili polemiche che caratterizzano da sempre gli incontri tra i bolognesi di Bob Hill e i casertani. "Un giocatore come Silvester dovrebbe essere radiato dai campi di gioco", tuonava il presidente campano Maggiò, condannando il "commando" bolognese Silvester per la marcatura (a suo modo di dire) assassina su Oscar. "Sono dei bambocci: se scndessero in campo con la stessa intensità con cui si lamentano, vincerebbero lo scudetto in carrozza", replicava Bob Hill, detto anche Roberto Collina.

Un'antipatica coda al vetriolo in un incontro di buon basket. E le acque non si sono calmate neppure ieri, quando proprio il brasiliano, con sei punti di sutura sul labbro per una gomitata dell'italo-americano, ha sfogato così tutta la sua amarezza: "Basta, ho chiuso con la pallacanestro italiana. Sono avvilito, sul campo si può giocare più o meno bene, con intensità, scambiandosi anche dei colpi duri. Ma sempre nel rispetto del regolamento. A Bologna, invece, Silvester si è comportato da autentico killer. Comincioa capire perché Drazen Petrovic ha scelto la Spagna. Qui non si rispettano più le regole".

Dichiarazioni pesantissime di un campione deluso, avvilito per l'ennesima sconfitta (dopo la Coppa della Coppe e la Coppa Italia) maturata per la sua squadra in circostanze strane, discutibili. Urla nel silenzio, comunque, visto che il brasiliano è legato alla Snaidero da un contratto fino al '91. "Certamente, non ci sono pericoli - ha precisato il buon Perio Costa, g.m. di Caserta confermato ieri per la prossima stagione assieme a Marcelletti -. I nostri stranieri saranno al 99% ancora Oscar e Glouchkov. Siamo una società giovane; d'accordo, ci stiamo facendo la fama degli eterni secondi. Ma la squadra c'è e la fiducia totale che abbiamo soprattutto verso i giovani, Esposito per primo, sarà ripagata in futuro, ne sono certo".

Congedo amaro quindi per la Snaidero, che vede così sfumare la semifinale di domenica prossima quando la Knorr giocherà a Livorno. Anticipata invece a sabato per ragioni televisive la rivincita-scudetto tra Scavolini e Philips. Poi il ritorno delle semifinali, martedì 9 e le eventuali belle il 13. Non c'è tempo per rifiatare, la maratona continua a ritmi vertiginosi, folli. Tre partite alla settimana per giocatori spremuti come limoni, come vecchi pugili suonati che, all'ennesimo "gancio" si chiedono storditi: "E questo chi l'ha visto?".

 

GLADIATORE SYLVESTER

Mike ha 61 anni e vive a Cincinnati dove lavora come direttore logistico. "Non mi tiravo mai indietro. Amavo la Virtus anche da rivale". La fama di duro: "Mio padre mi disse: 'Non devi mai piangere e difenditi con ogni mezzo'. Ho seguito il suo esempio". Quel tiro stranissimo: "Sbagliai la tecnica agli inizi, però mi allenai così tanto da diventare abbastanza bravo". Tanti amici a Bologna: "Villalta e Brunamonti mi sono rimasti nel cuore. Mangiavo spesso al ristorante di Roberto". Sogna di tornare in Italia: "Vorrei venire ad allenare. Troppi stranieri, avete perso l'attaccamento alla maglia"

di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 10/02/2013

 

Sposato con Lisa ha un figlio che si chiama Matthew e, presto, spera di avere un nipotino. Mike Sylvester oggi è un distinto signore di 61 anni che lavora come direttore logistico per un'azienda che distribuisce generi alimentari. Il basket, oltre a mille acciacchi, gli è rimasto nel cuore. Tanti canestri e una storia vera: da ascoltare in religioso silenzio.

"Mi sono laureato nel 1974 e fui scelto dai Pistons. Nello stesso anno arrivò un'offerta dai Chicago Cubs, nel mondo del baseball. Scelsi la pallacanestro, il mio agente mi spinse a Milano, per prender parte a qualche torneo estivo. Rubini mi offrì un quadriennale. Non mi sono più mosso dall'Italia".

Di Mike tutti ricordano quel tiro stranissimo. Preciso, ma insolito, perché partiva da dietro la nuca. Stilisticamente non il massimo, ma ch può dire di avere mai stoppato un tiro del genere?

"La tecnica era sbagliata - se la ride oggi Mike -, però mi sono allenato così tanto a lungo che alla fine sono diventato piuttosto bravo".

Mike e la sua fama da duro. Perché?

"Mio padre non sopportava che tornassi a casa piangendo, perché magari avevo preso le botte da uno più grande. Mi disse: 'Non tirarti mai indietro, difenditi con ogni mezzo a tua disposizione?. Non ho mai iniziato per primo, ma se c'era uno scontro, allora lo risolvevo a modo mio".

Milano, Pesaro, Rimini e poi la Virtus.

"A Bologna mi ricordo bene la stagione con Bob Hill in panchina con assistente Ettore Messina. Annata fantastica e cnservo nel mio cuore le amicizie strette con Renato Villalta e Roberto Brunamonti". Non ricorda il nome della strada dove abitava - "a duecento metri dal palasport" -, ma spesso mangiava nel ristorante da Benso, di proprietà di Brunamonti.

Gli avversari più duri? Nessun dubbio: "Meneghin, mitico. E Scott May. Secondo me aveva dei gomiti di piombo". I compagni con i quali ha legato di più sono stati Gallinari, Ferracini, Magnifico, Gracis, Zampolini, Fredrick e Kicanovic. Con Gracis e Magnifico ha parlato di recente. Su Facebook ha riscoperto Gigi Serafini, "un uomo davvero simpatico".

Non è stupito dalla crescita di D'Antoni e Messina:

"Mi ha sorpreso che Mike sia stato ingaggiato dai Lakers, ma non certo perché non se lo meritasse. É un uomo stupendo e ho applaudito tutti i suoi successi degli ultimi trent'anni. Ettore all'epoca era un giovane dotato di talento, classe e grinta. Capii subito, la prima volta che lo incontrai, che sarebbe diventato un grande allenatore".

Un duro dal cuore d'oro capace anche di commuoversi: "Sono felice che oggi, nella Nba, ci siano tre ragazzi come Belinelli, Bargnani e Gallinari. Sono orgoglioso di loro e felice perché si meritano tutto, fama, soldi e rispetto. E poi penso anche a Danilo. Quando è stato scelto da New York ho pianto di gioia, per lui, per Vittorio e per la mamma".

Cuore d'oro, grinta da vendere: oggi, purtroppo ci sono pochi giocatori, almeno in Italia, come Sly.

"Giocavo in un modo particolare: se indossavo una maglia quasi mi ammazzavo per quella, per gli sforzi profusi in campo. Pochi, oggi, giocano così. Questi sforzi mi hanno anche costretto a dodici interventi chirurgici per rimettermi in sesto".

Non viene in Italia dal 1991, ma in futuro chissà...

"I miei consulenti - sottolinea - dicono che potrei smettere di lavorare quando voglio. Mi piacerebbe proprio tornare in Italia, come tecnico. Perché non tornare in un paese che amo svolgendo pure una professione che adoro? Del resto quando ho smesso di giocare e sono tornato negli Stati Uniti per un periodo ho allenato".

Coach in Italia: magari per trasmettere se non il suo tiro - sicuramente inimitabile -, almeno il suo carattere e la sua determinazione.

"Il basket italiano peggiora perché la crisi economica mondiale sta avendo il suo peso. Forse oggi ci sono anche tanti stranieri, forse troppi. E questo magari ha comportato un minore attaccamento alla maglia. Forse quelli di oggi non sono competitivi come lo eravamo noi".

Com'erano belli gli anni di Mike:

"Ricordo anche la Virtus da avversario. A Milano ogni altra squadra era nemica. E la Virtus, allenata da Peterson, era composta da ottimi giocatori. Batterla non era facile. Resto tifoso di tutte e tre: Milano, Pesaro e Virtus".

Uno che ha lasciato la firma in ogni piazza non poteva che averci lasciato un pezzetto di cuore.