KYLE MACY

(Kyle Robert Macy)

Kyle Macy in palleggio

nato a: Fort Wayne (USA)

il: 09/04/1957

altezza: 185

ruolo: playmaker

numero di maglia: 7

Stagioni alla Virtus: 1987/88

statistiche individuali del sito di Legabasket

biografia su wikipedia

 

DIETOR ARRIVA UN BIG: KYLE MACY

di Lorenzo Sani - Il Resto del Carlino – 12/02/1988

 

11 febbraio 1988, la Dietor volta pagina. Arriva Kyle Macy e se non ci saranno problemi nelle pratiche per il tesseramento sarà già in campo domenica contro la Tracer.

Greg Stokes, il figlio del vento, cresciuto nel basket shakerato di quello stato di Iowa che ha recentemente sculacciato George Bush, se ne torna al mittente. Rimarrà a disposizione sicuramente per tutta la settimana (potremmo infatti rivederlo per l'ultima volta sul parquet coi milanesi) poi, vista la stagione e il gelo che spazza le praterie di casa, serbatoio mondiale del grano, capitale del pop-corn, punterà dritto sulle bianche spiagge della California.

Addio Greg, "tagliato" a malincuore proprio perché questo ragazzo ha dimostrato di valere parecchio, ma il sacrificio è stato dettato da qualcosa di più della ragion di stato. Non poteva uscire di scena Floyd Allen perché è l'unico centro vero e di mestiere dell'equipe di Cosic ed al tempo stesso s'avvertiva la necessità di cercare un punto di fuga tattico in una situazione che altrimenti sembrava davvero irreversibile.

Così, con un uomo del calibro di Macy, la quinta prima scelta a vestire la casacca bianconera dopo McMillen, Driscoll, McMillian e Van Breda, l'encefalogramma piatto di questa Dietor potrà avere importanti sussulti e riprendere a dare segni di vita.

Certo, ci vorrà un po' di pazienza anche perché l'ottimo Kyle dopo sette anni Nba con le maglie di Phoenix, Chicago e Indiana s'è trovato senza contratto quindi non gioca dall'inizio della stagione.

"Io vorrei però portare la squadra ai play off - dice Kreso - nelle migliori condizioni possibili. Ricominciamo daccapo parecchie cose, bisognerà valutare anche in quanto tempo Macy riuscirà a recuperare al cento per cento e ad inserirsi in questa realtà, ma sono fiducioso".

Chi è Kyle Macy? Certamente un grandissimo giocatore, uno dei più forti nel suo ruolo gettati nella mischia dello Spaghetti Circuit. Due volte (81-82 e 84-85) è risultato il migliore dalla lunetta con l'89,9% e il 90,7%, nel 1985 vestendo la canotta dei Bulls è entrato in quintetto 79 volte su 82 con 2.426 minuti sul parquet (record di franchigia), 400 in più di Iceman Gervin.

è un manuale di tecnica e di intelligenza tant'è che nel '79 Phoenix bloccò questo regista bianco di 1,88 che l'anno precedente aveva portato Kentucky alla vittoria del campionato Ncaa su Duke (94-88) e che nei quarti con una magistrale partita aveva tolto di scena la Michigan University di Magic Johnson, addirittura dodici mesi prima della fine degli studi. Macy che vanta una militanza di college anche a Purdue, lasciò infatti la patria del pollo fritto nel 1980 per iniziare la sua brillante carriera "pro" dopo esser stato anche All America a livello universitario.

Un cestista davvero completo. Ottimo nel passaggio come nel tiro (anche se non è uno stracciaretine) s'è pienamente confermato nell'Nba. A dire il vero Macy, come si scrisse in passato, era nel mirino di Cosic da un pezzo.

Perfettamente integro fisicamente non ha avuto un nuovo contratto da Phoenix perché il general manager della franchigia, Walsh, ha lanciato la linea del rinnovamento con Reggie Miller e cercato il recupero (in verità più fuori dal campo) di quello Skiles che ha destato finora maggiormente l'interesse dei cronisti di nera che dei colleghi sportivi. Solo una scelta di carattere tecnico (ma non dimentichiamo l'annosa querelle sul tetto dei salari) ha costretto Macy a staccare momentaneamente la spina.

Il suo è così iniziato a circolare sulla "piazza". Anche altre società italiane si misero sulle sue tracce: la Scavolini smentì ogni contatto, lo stesso - ma molto più garbatamente - fece l'Enichem di Bucci. In ballottaggio col neo acquisto bianconero fino all'ultimo, c'è stato Conner Henry (amministrato dal manager di Sam Williams col quale Porelli non si lasciò in buoni rapporti) forse più pronto ora ad una chiamata, ma alla distanza sicuramente inferiore tecnicamente e nel rendimento.

Macy dovrebbe arrivare oggi e probabilmente già nel pomeriggio sosterrà il primo allenamento. "è un ottimo acquisto - fa sapere da Milano Franco Casalini, coach Tracer, primo avversario di Kyle in campionato - che una volta inserito potrà offrire una soluzione abbastanza insolita ma interessante. Brunamonti e Macy rappresentano la coppia di guardie più forti del campionato, questo è fuori discussione. Avremo così una squadra che saprà amministrarsi sempre con maggior ordine, un'avversaria davvero temibile".

Cambieranno tatticamente parlando parecchie cose. E l'auspicio è che tutto si regoli sui sani principi della concorrenza per il posto. Certo Sylvester e Fantin sembrano al momento i maggiori indiziati alla panca, ma Cosic non ha e non vuole avere pregiudizi, quindi esisterà - come è giusto che sia - soltanto il parquet".

Foto autografata di Macy che batte in palleggio Premier nel giorno del suo esordio (foto fornita da Meris Zamboni)

MA CHE COSA SE NE FA LA DIETOR DI MACY?

di Dido Guerrieri - L'Unità - 13/02/1988

 

...
Il tifoso di basket in Italia non corre certo il rischio di cadere preda della noia. Non bastassero coppe campionato e nazionale ogni settimana c'è sempre qualche sconcertante novità. L'ultima è la decisione della dirigenza della Dietor di sostituire l'ala forte Stokes con il play guardia Macy. Conosco abbastanza bene Macy, trattasi di un ottimo giocatore (se sarà in buona condizione fisica, non dimentichiamoci di come si presentò l'anno scorso a Roma Gervin), robusto di carrello, un pò basso, dotato di eccellente tiro da lontano. L'ultimo campionato «pro» l'ha disputato l'anno scorso ad Indiana dove Ramsay lo impiegava come
sostituto di Vern Fleming, play titolare, o in appoggio a Walker Russell, play di riserva. Ma il punto è che la Dietor dispone già di due play, Brunamonti e Marcheselli, due guardie Sylvester e Fantin, una guardia-ala, Sbaragli. Restano ora nel settore lunghi Allen Binelli e Villalta. Se pensiamo che a torto o a ragione Allen e Binelli spesso non sono entrati nel quintetto d'inizio è veramente difficile indovinare quale sarà la nuova fisionomia della squadra bolognese. Di sicuro i bianconeri dovranno affidarsi ora più che mai al tiro da fuori. Si tratta comunque di una decisione apparudemente balzana ma che avrà certo le sue ragioni d'essere. Se risulterà positiva o negativa lo scopriremo fra breve.

MACY CON LA BACCHETTA MAGICA SVEGLIA LA BELLA ADDORMENTATA

di Osvaldo Rossi - L'Unità - 08/03/1988

 

La maglia è sempre la stessa con la V nera stampata sul petto, i giocatori sono quelli, tutti meno uno. Eppure da quando Kyle Macy è sbarcato a Bologna, la Dietor è una squadra che sembra non avere più nulla a che fare con quella spenta e quasi demotivata del vecchio corso. Nelle ultime tre gare la Virtus ha raccolto altrettanti bottini, convincendo soprattutto lontano da casa a Varese e a Torino.

Kresimir Cosic è il tecnico che ha più di ogni altro spinto per cambiare qualcosa in questa Dietor e d i primi bagliori paiono dargli ragione. Con l'allenaotre slavo analizziamo quali sono stati i principali mutamenti nel team bolognese. "In una squadra è inevitabile che esistono punti forti ed altri nei quali è necessario mettere un tampone. Ecco la Dietor è migliorata tantissimo laddove le cose non andavano sempre per il verso giusto. La base dei giocatori italiani è ottima, non scopriamo niente. Ma con l'innesto di Macy tutto il reparto posteriore è diventato un elemento di grande forza per noi, Brunamonti ne ha tratto giovamento sfoderando prestazioni di classe eccelsa a ripetizione. È proprio una Virtus differente.

Chi ha compiuto il balzo maggiore pare comunque Binelli. «Ognuno ha un opinione ben precisa su Gus e c'e chi dice che il suo talento non può non esplodere, altri invece non hanno fiducia in lui. lo dico che Binelll può anche avere partite brutte nell'arco della stagione ma ora ha trovaio una coordinazione, soprattutto in attacco, di valore assoluto. Sotto canestro nel reparto lunghi insomma lo stesso Villalta sta rendendo molto. Il tutto nell'ottica della squadra finalmente con una propria fisionomia definitiva.

Qualcosa ancora non andrà, vero? "È chiaro che la Dietor deve crescere. Siamo andati bene in trasferta ma contro la Wuber, pur vincendo, ci siamo concessi troppe pause soprattutto in difesa, rilassamento che in proposito non c'è stato con la San Benedetto dove abbiamo aggredito in copertura senza soluzione di continuità. L'inserimento di Kyle Macy sta comunque avvenendo piuttosto rapidamente mentre altri invece devono aspettare molto tempo quando si tratta di far ingranare qualche nuovo elemento. Questa è una Virtus che si deve trovare camminando perché i play offs non sono certo lontanissimi. Macy deve essere messo nella condizioni di poter giocare alla stessa velocità dei propri compagni i quali a propria volta possono migliorare nell'esecuzione di certi giochi. Il dato confortante però è che tutti rispondono agli ordini dalla panchina".

Cosa significa? Semplice, ora c'è comunicazione, riusciamo a parlare. I ragazzi vivono proprio come dovrebbe fare ogni squadra. un dato che vorrei segnalare è anche quello dei rimbalzi. Macy e Brunamonti me ne assicurano una quindicina a gara. Prima con una Dietor più alta siamo andati peggio rispetto ad ora ch eimpiego una formazione meno possente ma sicuramente più veloce".

Molti dicono che manchi ancora un tassello, il rientro di Stokes al posto di Allen. "No, di questo non voglio parlare. Sono state fatte molte delle cose che si dovevano fare. Era una brutta situazione stare in panchina e vedere che non riuscivi a fare niente , una sensazione di impotenza. Ora la squadra ha trovato soprattutto giusto equilibrio, senza giocatori che vogliono dimostrare qualcosa in più degli altri. Brunamonti anche se mi fa dieci punti soltanto può essere determinante come se ne segnase 30".

Di certo nella Dietor dei "senatori" non è risultato da poco.

 

Macy al tiro

 

UNA STELLA FRA I SUNS

di Gianni Cristofori - Il Resto del Carlino

 

"Buon tiratore in sospensione... mani rapide... educato... ma sarà un gioco d'azzardo scegliere una guardia di cui non si ha bisogno".

Così si esprimeva lo "Zander Hollander" nell'edizione 1980 presentando Kyle Macy, fresco dottore in "business administration" alla Kentucky University, All Star al college e prima scelta dei Soli di Phoenix che addirittura lo avevano bloccato l'anno prima concedendogli un onore che solitamente spetta ai grandissimi (come, per esempio, Magic Johnson).

In casa Dietor, che l'ha scelto 8 anni dopo, sperano che valga la rettifica che, molto correttamente, dette lo "Zander Hollander" nella successiva edizione circa il reale rendimento di Macy nell'ambito quintetto: "Eccezionale atleta, grande passatore tiratore e, soprattutto, un uomo che come matricola Nba è sempre risultato influente". Questa la traduzione dal "vangelo" del basket statunitense, solitamente impietoso nel trovare i difetti dei giocatori e sempre molto parco nei complimenti.

Da questo quadro esce dunque un Macy positivissimo, grande giocatore e ragazzo estremamente tranquillo, un vero signore ("Impersona lo stile dei Phoenix... è l'unico giocatore nella storia del basket che dopo la partita non ha nemmeno un capello fuori posto" dice ancora lo Zander Hollander). Resta, ovviamente, l'incognita rappresentata dal lungo periodo di assenza dai campi di gioco che, in un atleta abituato a giocare 80 partite a stagione, potrebbe avere un risultato devastante.

La storia di Kyle Macy (31 anni il prossimo 9 aprile), è la classica storia americana di un giovane che, pur non aiutato dal fisico (6 piedi e 3, meno di 190 centimetri), trova nella costanza la maniera di emergere. è il padre che, all'high school, gli fa da coach; il giovane Macy si segnala come gran tiratore, ha buone mani e dirige bene la squadra. Queste caratteristiche le mantiene prima all'università di Purdue e quindi a quella di Kentucky dove si laurea nel 1980 con in tasca un prestigioso titolo Ncaa e una "prenotazione" da prima scelta avendolo Phoenix già bloccato nel 1979 dopo un'operazione di "scambio" con i Bullets.

Le sue stagioni migliori, nella Nba, sono quelle in cui vince la prestigiosa classifica di miglior tiratore dalla lunetta (nell'albo d'oro ci sono personaggi come Oscar Robertson, Larry Costello, Rick Barry, Larry Bird): nel 1982 sbaraglia gli avversari con l'89,9%, si ripete nel 1985 superando addirittura il 90%.

è la sua ultima stagione a Phoenix; passa ai Chicago Bulls dove gioca 82 partite entrando per 79 volte in un quintetto che comprende anche Gervin, Green, Woolridge e Banks. Resta in campo 2.426, più di ogni altro compagno di franchigia, realizzando 703 punti (8,6 di media) con 286 su 592 (48,3%), 58 "bombe" su 141 e 73 liberi su 90 (81,1%). Distribuisce ben 446 assist, agguanta 178 rimbalzi e, cosa assai sorprendente, piccolo com'è stoppa gli avversari 11 volte. Il suo record stagionale è di 22 punti.

L'anno dopo Macy va agli Indiana Pacers. In un quintetto composta da Person, Long, Williams, Stipanovich e Fleming (che non sono dei fenomeni), il nostro non trova tanto spazio: gioca comunque 76 partite per un totale di 1.250 minuti. Calano ovviamente i punti realizzati (376, media 4,9 high di 18). gli assist (197) e i rimbalzi (113) ma rimangono la precisione nelle "bombe" (14 su 469 e dalla lunetta (34 su 41,82,9%).

INTERVISTA A KYLE MACY

di Roberto Cornacchia - V Magazine - Novembre 2011

 

Chi l’ha visto giocare non può non ricordarsi delle due cose che più lo hanno caratterizzato: una precisione ai tiri liberi da record e una capigliatura che sembrava scolpita nel marmo, tanto da non scomporsi in nessuna occasione. L’abbiamo scovato in America e abbiamo scoperto che, se la prima caratteristica è ancora perfettamente riconducibile a lui, così non può più dirsi per la seconda: ormai  l’apparentemente inalterabile scalpo è solo un lontano ricordo.

Durante la tua carriera universitaria ha giocato, fatto abbastanza inconsueto specie ai suoi tempi, in due diverse università, entrambe con grande tradizione cestistica. Come mai?

Dopo la prima stagione a Purdue volli andarmene, perché ero rimasto deluso dal coach Fred Schaus. C’era poco disciplina e conseguentemente il nostro talento non veniva sfruttato al meglio e nemmeno sviluppato.

I tuoi ricordi degli anni universitari, ricchi di successi.

Ho solo ricordi bellissimi di quegli anni. Non solo per quanto successe in campo ma anche per i miei compagni di università. Credo che sia per quello che ancora oggi vivo a Lexington (sede della University of Kentucky).

Scelto da una franchigia Nba un anno prima della tua uscita dal college: qualcosa che è successo solo per i grandissimi. Fu una cosa positiva o caricò il tuo esordio di troppe aspettative?

Fu una cosa molto positiva, non sapevo nemmeno di essere già nel mirino di qualche franchigia e non immaginavo assolutamente che mi avrebbero scelto! Questo mi tolse molta pressione. L’unica cosa della quale mi rammarico fu che, causa il boicottaggio di Mosca ’80, non potei partecipare alle Olimpiadi con la Nazionale statunitense di cui facevo parte. Non mi rimase che firmare per Phoenix, città dove non vedevo l’ora di andare a giocare.

Come furono i tuoi inizi nel dorato ma spietato mondo Nba?

Bellissimo! Fai quello che ti piace, viaggi in tutto il paese (e ora il mondo) e ti danno un mucchio di soldi! Come potrebbe non piacerti? Anche se, purtroppo, i soldi che prendevamo allora non erano certo quelli di oggi.

Quali aspetti del gioco e dello stile di vita della Nba ti sono rimasti impressi?

I play-offs erano e sono ancora adesso la cosa più bella, ma amavo anche il fatto di viaggiare tanto. Quest’ultimo aspetto fu probabilmente anche uno dei più difficili da assimilare: imparare a riposarsi e a mantenere una scorta di energie per il finale di stagione non fu per niente facile per un rookie come me.

Nella Nba può succedere, più che altrove, che una carriera sia condizionata da diversi aspetti: avere un certo allenatore, certi compagni, vivere in una certa realtà… Ritieni di aver avuto la possibilità di mostrare le tutte le tue capacità oppure pensi che in un contesto diverso avresti potuto fare meglio (o peggio)?

È normale per un giocatore pensare che avrebbe potuto fare meglio. È stato molto bello giocare a Phoenix, poi andai a Chicago per giocare a fianco di Michael Jordan. Purtroppo, come saprete, ebbe un infortunio al piede e questo sogno non si materializzò veramente. In Indiana, non ho mai avuto una reale possibilità di dare il meglio di me.

Fino alla stagione 1985/86 eri in quintetto. L’anno seguente partisti dalla panchina e quello successivo lasciasti la lega, quando moltissimi giocatori si costruiscono ugualmente delle lunghe carriere senza avere la possibilità di essere dei titolari. Non ricevesti offerte interessanti oppure semplicemente non ti piaceva il ruolo di rincalzo?

Ad Indiana non mi venne mai data una concreta chance di giocare al meglio delle mie possibilità e anche da altre franchigie Nba ricevetti solo un tiepido interesse. Ma io sapevo che potevo ancora giocare bene e dare tanto e quindi venni in Italia!

Quali differenze noti tra il modo di giocare in Nba della tua epoca con quello in voga attualmente?

I giocatori avevano dei fondamentali decisamente migliori. Ora gli atleti sono più grossi, più forti, più veloci ma spesso non conoscono proprio il gioco. Non fanno altro che affidarsi alle loro abilità atletiche.

Cosa ti ha portato in Europa e perché proprio in Italia?

Ero già stato un paio di volte in precedenza in Italia a giocare ed era sempre stata una bella esperienza. Notai un grande interesse da parte del pubblico e siccome sentivo di avere ancora tanto da dimostrare su un campo da gioco sfruttai l’opportunità che mi venne offerta.

Arrivato in Virtus non giocasti male ma la squadra non andava benissimo. Cosa pensi di quella stagione?

Credo che se avessi avuto modo di far parte della squadra fin dall’inizio del campionato, avremmo potuto fare una grande stagione. Non fu facile arrivare a campionato iniziato e fare i necessari aggiustamenti al basket europeo. Ma probabilmente il motivo principale per il quale la nostra post-season non fu quella che avrebbe potuto essere fu l’infortunio di Roberto Brunamonti proprio prima dei play-offs. Con lui al 100% della condizione fisica, avremmo potuto dare qualche bella soddisfazione ai nostri tifosi. Mi ricorda un po’ il mio anno a Chicago e l’infortunio, decisivo, a Michael Jordan.

Cosa pensavi dell’allenatore Kresimir Cosic, un gigante del basket europeo, ma anche un allenatore con idee piuttosto particolari ai suoi tempi?

Nonostante fosse un personaggio davvero particolare, mi è piaciuto giocare per lui. Mi sarebbe piaciuto rimanere alla Virtus anche la stagione seguente, in modo da poter portare alla causa una migliore conoscenza del basket italiano e di quello voluto da Cosic.

Quali compagni hai apprezzato maggiormente o ricordi con più piacere?

Mi ricordo di tutti quanti anche se quello con il quale feci maggiormente amicizia rimane Roberto Brunamonti. Fu sempre molto gentile nel farmi partecipare ad eventi e situazioni fuori dal campo e lui e sua moglie Carla furono sempre molto cordiali e cercarono in tutti i modi di farmi sentire come a casa.

Hai riscontrato differenze negli anni seguenti trascorsi a Treviso rispetto a quanto avevi conosciuto a Bologna?

No, poche differenze. Entrambe le città andavano fiere della propria squadra. Treviso è una città più piccola e pertanto aveva dei ritmi più tranquilli. Comunque, nel mio secondo e terzo anno in Italia sentivo di aver migliorato la mia comprensione del modo di giocare in Italia.

Quali furono le tue prime impressioni sul diverso stile di gioco e del livello generale del basket europeo?

Pensai subito che fosse molto più fisico nei pressi del canestro, ma i giocatori a volte sembravano piuttosto meccanici nei loro movimenti. Il livello di allora lo avrei paragonato a quello delle migliori formazioni universitarie degli Stati Uniti. Adesso però non potrei più affermare una cosa del genere! Di questi tempi mi diverto maggiormente a guardare partite di basket europeo che quelle Nba!

Quali aspetti dello stile vita e della mentalità ti sorpresero maggiormente, sia in positivo che in negativo?

Beh, mi ci volle un po’ per adeguarmi ai due allenamenti quotidiani che facevamo a Treviso con coach Riccardo Sales. Fu in quel periodo che cominciai ad apprezzare i pisolini pomeridiani. Ma la sorpresa più grande la ebbi a tavola: ero stupito nel vedere i giocatori italiani bere vino nel pasto pre-gara, solo poche prima di scendere in campo! Ora capisco che  è solo una questione di cultura diversa!!!

Di ritorno negli Stati Uniti, per anni hai allenato. Raccontaci qualcosa di questi tuoi anni.

Ho allenato in un piccolo college NCAA nel Kentucky. La nostra sfida più importante era quella di essere abili nel reclutare giocatori dovendoli convincere a venire a giocare in un piccolo campus isolato. Ma la scuola ci dava davvero poco aiuto in questo senso e alla fine decisi di andarmene. Se non sbaglio Ricky Minard, uno dei miei allievi, gioca ancora dalle vostre parti…

Ricordo di averti vista giocare diverse volte, sia in Nba che in Italia. Quello che mi rimase impressa era l’estrema pulizia dei fondamentali, non solo nei tiri liberi per i quali andava giustamente famoso. Oggi, che i giovani cestisti americani sono famosi soprattutto per le loro abilità fisiche, i giocatori più tecnici sembrano, in percentuale sempre crescente, provenire dall’Europa. Cosa ne pensa, in qualità di ex-giocatore e ex-allenatore?

Sono completamente d’accordo con te. Il gioco americano ormai fa affidamento sempre più sulle abilità fisiche. I giocatori pensano solo a schiacciare o a fare qualche movimento spettacolare degno di andare negli highlights invece di preoccuparsi di imparare a tirare, passare, palleggiare o migliorare la propria squadra. Il basket americano sta sempre più diventando un gioco basato sull’uno contro uno. Credo che questo sia uno dei motivi per i quali la Nazionale Statunitense abbia cominciato a raccogliere delle sconfitte nelle competizioni internazionali.

Hai avuto “diverse vite” nello sport, diventando anche un allenatore universitario di tennis e ora un commentatore per il telecast della sua università. Svolte casuali o qualcosa che ha voluto sperimentare?

Da giovane sono stato un discreto giocatore di tennis e siccome mi piace allenare, indipendentemente dal fatto che si tratti di uno sport individuale o di squadra, ho colto questa opportunità. Fare il commentatore mi mantiene all’interno dell’ambiente del basket e il tennis mi permette di allenare l’altro sport che mi piace. Cosa potrei volere di più?

In conclusione, è stato bellissimo per me giocare in Italia ed ho uno stupendo ricordo di quegli anni. Se potessi tornare indietro e trovarmi nella stessa situazione, è una scelta che farei assolutamente di nuovo. Il mio unico rammarico è stato quello di non essere riuscito a parlare in italiano abbastanza bene. Della mia esperienza italiana ho solo dei bei ricordi.

Ciao a tutti da Kyle!

 

Per chi non se lo ricorda bene

 

Kyle Macy, nato a Fort Wayne (Texas, USA) il 9 aprile 1957, è stato un playmaker di 1,85.

Già un piccolo campione a livello di high school, quando militava nelle fila della Peru High School agli ordini del padre allenatore, venne insignito del prestigioso “Indiana Mr. Basketball”, il premio che viene dato al miglior giocatore dello stato che è stato vinto anche da gente come Oscar Robertson, George McGinnis, Glenn Robinson, Greg Oden e Eric Gordon.

A livello universitario esordì con i Boilermakers della Purdue University, dove si impose subito in doppia cifra di punti realizzati e come miglior tiratore di liberi sfiorando l’86%. Per i problemi sopra citati con l’allenatore Fred Schaus, l’anno seguente scelse di passare alla prestigiosa Kentucky University (con 7 titoli vinti nella sua storia, seconda solo dietro a UCLA), nonostante sapesse che questo gli sarebbe costato, viste le norme NCAA dell’epoca, il divieto di giocare partite ufficiali per un anno. Fu comunque un’ottima scelta la sua. Coach Joe B. Hall disse di lui dopo il suo primo allenamento con i Wildcats: “Ha condotto la squadra meglio lui dopo un allenamento di giocatori che sono con noi da 3 anni”. La sua prima stagione fu pressoché perfetta, chiusa con un record di 30 vittorie e 2 sconfitte, il primo posto nel ranking a partire dalla seconda settimana e la vittoria finale del titolo universitario sconfiggendo Duke per 94-88. In tutte e tre le stagioni, Macy fu eletto All-American e nel miglior quintetto della SEC Conference e, come a Purdue, ebbe sempre la miglior percentuale ai tiri liberi della squadra.

Macy fece parte della Nazionale Statunitense che vinse i Giochi Panamericani a Puerto Rico nel 1979 con un record di 9-0, un’edizione passata alla storia più che altro per il pugno rifilato da coach Bobby Kinght ad un poliziotto locale come reazione ad un fallo tecnico e relativa espulsione. Come detentrice del torneo continentale quella squadra si qualificò per le Olimpiadi del 1980 di Mosca che, con gran dispiacere di Macy, videro gli Stati Uniti farsi promotori di un boicottaggio internazionale come protesta per l’invasione da parte dell’Unione Sovietica dell’Afghanistan. Noi italiani invece non ci adeguammo al comune comportamento del blocco occidentale e riuscimmo a portarci a casa un’insperata medaglia d’argento.

Cosa piuttosto rara, Macy venne scelto un anno in anticipo rispetto alla sua uscita dal college, all’epoca possibile per gli atleti al loro penultimo anno ma che dall’anno seguente, causa la scelta di Larry Bird da parte dei Celtics, divenne vietata con quella norma che divenne nota come la Bird Collegiate Rule. Fu scelto nel 1979 con il numero 22 in assoluto dai Phoenix Suns che erano disponibili ad aspettare che completasse il suo iter universitario prima di averlo con loro. Dopo un anno di apprendistato, conquistò il posto da titolare e, agli ordini di coach John MacLeod formò, assieme a Dennis Johnson e Walter Davis uno dei migliori pacchetti di esterni dell’intera lega. Purtroppo sotto canestro Alvan Adams, Larry Nance e Truck Robinson, nonostante il successivo approdo di Maurice Lucas, non fornirono altrettanta sostanza per sperare di opporsi al predominio della Ovest Conference operata in quegli anni da una delle squadre più forti e più entusiasmanti di sempre: i Los Angelers dello show-time che ebbero tra le proprie fila magistrali interpreti come Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar, Norm Nixon, James Worthy, Michael Cooper e Jamaal Wilkes.

Macy dal canto suo non fece mai mancare il suo apporto, rivelandosi un autentico uomo di ferro: nelle prime 4 stagioni non saltò nemmeno una gara di regular season. Poi il tiro, quel suo tiro perfettamente impostato: primo per 2 volte nella Nba per percentuale di realizzazione dei tiri liberi (89,9% nel 81/82 e 90,7% nel 84/85 utili a conseguire un 87,3% in carriera), per due volte nei migliori 10 tiratori da 3 punti della Lega (col 39,0% nel 81/82 e il 41,1 nel 84/85), cosa che gli valse la convocazione alla prima gara del tiro da 3 punti mai disputata nel 1986. Allo scadere del suo contratto, i Chicago Bulls si fecero avanti, necessitando di un playmaker esperto che sapesse rifornire adeguatamente un giovane Michael Jordan in piena ascesa. Poco dopo però MJ si infortunò gravemente ad un piede e dovette saltare ben 64 gare, in pratica l’intera stagione. Kyle resse tutta la stagione, ancora una volta senza saltare una singola gara, assieme George Gervin, Sydney Green, Dave Corzine e a due giocatori che sarebbero poi passati da Bologna, seppure su separate sponde: Orlando Woolridge e Gene Banks. Jordan tornò appena in tempo per i play-offs dove quasi da solo si oppose ai Boston Celtics, futuri campioni e una delle squadre più forti di sempre (Larry Bird, Kevin McHale, Robert Parish, Dennis Johnson, Danny Ainge, Bill Walton): fu contro questa corazzata che His Airness stabilì l’imbattuto record di 63 punti in una gara di play-offs, al termine della quale Larry Bird ebbe a dire: “Quello non era Michael Jordan, era Dio travestito da Michael Jordan”. Kyle c’era quella sera, a passargliela.

L’anno successivo lo vollero gli Indiana Pacers ma a fianco ai vari Chuck Person, John Long, Wayman Tisdale e Steve Stipanovich, coach Jack Ramsay gli preferiva Vern Fleming, relegandolo ad ottavo uomo nelle rotazioni con 16 minuti a serata. Forse il gioco stava diventando troppo fisico e veloce per Kyle, che continuava ad essere un manuale di tecnica ma che, già non velocissimo da giovane, si trovava sempre più in difficoltà contro le nuove leve. Donnie Walsh, allora GM di Indiana, preferì investire sul turbolento Scott Skiles ma soprattutto su un filiforme rookie che come tiratore non aveva nulla da invidiare a Kyle: un certo Reggie Miller.

Venne così il momento di provare altre strade, magari in un campionato dove le qualità atletiche non fossero le principali armi richieste. Kyle Macy era già stato in Italia un paio di volte in precedenza e ricordando il seguito che il basket vi riscuoteva, si rese disponibile. Ormai 31enne, giunto in Italia a febbraio dopo che era inattivo dalla fine della stagione precedente, si trovò catapultato nella Virtus allenata da Kresimir Cosic, che come allenatore aveva idee di non facile digestione: lo stesso Ettore Messina, all’epoca suo assistente ebbe a dire di aver avuto spesso discussioni con l’head coach e di essersi reso conto della validità delle sue teorie solo molto tempo dopo, a dimostrazione di quanto il croato fosse avanti per i suoi tempi. Rimane il fatto che la Virtus di quella stagione faticò parecchio, anche perché la squadra era stata fatta e impacchettata dall’Avvocato Porelli e al povero Cosic non rimase che adeguarsi al materiale disponibile. Brunamonti, Fantin, Sbaragli, un sempre più lento Sylvester, un Binelli 23enne da tempo in attesa di una definitiva consacrazione ed un Villalta ormai avanti negli anni costituiva il drappello degli italiani. A questi si aggiungevano Greg Stokes, che bene aveva fatto l’anno precedente, e Floyd Allen. Dopo un avvio abbastanza sorprendente in cui la Virtus stupiva per il suo gioco in velocità, seguì una fase di crisi e di sconfitte che impose dei cambiamenti. Volendo provare a lanciare Binelli in quintetto e ritenendo che Brunamonti fosse poco aiutato nella costruzione del gioco dagli altri esterni, si sacrificò il buon Stokes rispetto al deludente Allen solo per sopperire ad eventuali defaillance di Binelli, reduce da un lungo infortunio e comunque spesso con problemi di falli. L’arrivo di Macy ebbe un effetto rivitalizzante ma l’infortunio a Brunamonti alla vigilia della post-season mandò tutto all’aria: nonostante la maiuscola prova di Marcheselli playmaker al posto di Brunamonti, autore di 21 punti in 29 minuti, la Fortitudo Yoga violò il campo bianconero negli ottavi di finale dei play-offs ed eliminò la Virtus al ritorno. Macy tenne in regular season una media di quasi 37 minuti e 24,4 punti a gara, ma nei play-offs, pur aumentando i minuti a 38 scivolò a 15 punti. Le percentuali al tiro ottime, come sempre: 54,7% da 2 punti, 42,3% da 3 punti e 87,3% dalla lunetta.

L’anno seguente Macy venne ingaggiato dalla Benetton Treviso, dove per due stagioni evoluì al fianco di Massimo Iacopini, Dan Gay, Massimo Minto e l’ex virtussino Pietro Generali. Due buoni stagioni, sempre con minutaggi attorno ai 36 minuti e punteggi medi attorno ai 15/16.

Al termine dell’esperienza italiana, Macy tornò negli Stati Uniti dove, per 9 anni, allenò un piccolo college del Kentucky: gli Eagles della Morehead State University che prende parte alla Ohio Valley Conference, portandola ad una stagione da 20 vittorie, allora record della squadra. Un college che solo quest’anno è riuscito per la prima volta nella sua storia ad accedere alla fase finale del campionato NCAA, mentre le squadre di cheer-leaders di questo college sono giustamente riconosciute come una delle migliori su tutto il suolo americano, vantando, non a caso, qualcosa come 25 titoli nazionali. Al termine della stagione 2004/05, Macy allenò una selezione di giocatori universitari che fece una tournée in Cina, dove ebbe un record di 7-0 contro squadre professionistiche locali. Ma la stagione seguente fu un disastro, 4 vittorie a fronte di ben 23 sconfitte e Macy, sentendo anche di non avere l’appoggio dei dirigenti della scuola per migliorare il programma cestistico, si dimise. Ovviamente non poteva mancare di trasmettere ai suoi giocatori la sua perfetta tecnica ai tiri liberi: non a caso Morehead è sempre stata ai vertici delle classifiche NCAA per percentuali ai tiri dalla linea della carità. Poco dopo iniziò ad allenare tennis alla Lexington Christian Academy, alla quale esordì subito con una stagione vincente. Nel 2007 divenne General Manager di una squadra della CBA, gli East Kentucky Miners. Ora è il color commentator per il telecast delle partite della Kentucky University.

 

 

MACY, IL LAUREATO

"La mia Virtus era già nel futuro. Cosic aveva una visione perfetta. Nel 1988 Kreso aveva impostato tutto il gioco su me e Brunamonti". L'applauso a Messina: "Era un ottimo assistente, si capiva che sarebbe diventati un eccellente head-coach". Un doppio lavoro; è un brillante e stimato opinionista televisivo ed è anche tecnico di tennis. Il rimpianto: "Il gruppo volava, si ruppe Roberto e nei playoff fummo eliminati dalla Fortitudo". Da un altro mondo: "Facevo fatica con la lingua, ma compagni di squadra e tifosi furono eccezionali"

di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 06/08/2013

 

Classe purissima, al punto di poter comunque lasciare il segno, e un bel ricordo, a Bologna, pur avendo disputato, con la maglia della Virtus, solo 11 partite. Stiamo parlando di Kyle Robert Macy, giunto in corsa in una Virtus che aveva come capitano Renato Villalta e, come altri reduci dallo scudetto della stella, Roberto Brunamonti, Domenico Fantin e Augusto Binelli. Gli altri erano Mike Sylvester, Massimo Sbaragli ed Emilio Marcheselli. Lo straniero era Greg Stokes, l'altro il tagliato Floyd Allen.

"Ho tanti ricordi della mia permanenza a Bologna - attacca Kyle -. I tifosi mi hanno supportato fin dall'inizio. E così pure i miei compagni. Anche se, sinceramente, non sapevo molto della vostra pallacanestro. In più, almeno agli inizi, c'era lo scoglio della lingua. Non era facile capire, ma il periodo, per me, è stato molto bello".

L'inizio è promettente. "Abitavo vicino al palasport di Piazza Azzarita - prosegue -, anche se so che ora la Virtus si è spostata. Poi non ricordo dove mangiavo, ma non ho dimenticato il sapore di tortellini, lasagne, tagliatelle. Semplicemente piatti fantastici".

Giocatore intelligente, Kyle, non poteva che legare con Roberto Brunamonti. "Robby e la sua famiglia mi hanno aiutato parecchio. Soprattutto nel periodo dell'ambientamento, Io e Roberto ci intendevamo a meraviglia anche sul campo: ci interessava più vincere che guardare alle nostre statistiche. E poi ci si poteva alternare nei ruoli di playmaker e di guardia".

É una Virtus che dà spettacolo e che, come spiega Kyle, forse è troppo avanti nel tempo.

"Cosic puntò molto sul gioco perimetrale. Non avevamo dei centri dominanti: l'attacco si basava molto su me e Roberto. Per certi versi simile a quello che si vede nella Nba di oggi. Cominciammo a giocare una bella pallacanestro: lo stile e la mano del coach si vedevano bene".

Il vice di Kreso è Ettore Messina: "Come assistente era brillante, ma si capiva che sarebbe diventato un capo allenatore".

Tutto procede per il verso giusto. Poi, però, l'irreparabile: l'infortunio di Roberto Brunamonti, le alchimie di Kreso vanno in frantumi. E la Virtus esce nei playoff. È la stagione che passa alla storia come l'anno del sorpasso: il derby playoff è della Fortitudo.

"Avevamo giocato così bene insieme - prosegue Kyle -. Senza Roberto diventammo un'altra squadra. Ricordo la delusione quando perdemmo contro la Fortitudo. Senza Brunamonti la nostra difesa vacillava e loro erano in grado di attaccarci il doppio. Mi marcava George Bucci, ma lui veniva sempre aiutato, così dovevo fronteggiare un raddoppio Continuo a pensare che se ci fosse stato Roberto la storia sarebbe andata diversamente. E noi avremmo proseguito il nostro cammino anche nei playoff".

L'eliminazione sancisce l'addio di Kyle alle Due Torri e il suo trasferimento a Treviso. "Una bella esperienza anche in Veneto. Anche lì amano la pallacanestro, ma Bologna è più grande".

L'Itali è, di fatto, l'addio di Kyle alla Nba. "Bologna mi ha offerto la possibilità di giocare comunque ad altissimo livello. Per capirlo basta anche vedere la composizione annuale delle squadre Nba. Il numero degli atleti provenienti dall'Europa è cresciuto. Già in quegli anni c'erano tanti bravi italiani. Era sufficiente che qualcuno rompesse il ghiaccio. Ora la strada è aperta. No sono affatto sorpreso della crescita della pallacanestro europea. Si capiva già quando c'ero io".

Il basket resta comunque parte della sua vita perché, dopo aver provato anche la carriera di allenatore, oggi è un brillante e stimato opinionista televisivo. Ma il pallone non gli basta, perché Kyle allena anche una squadra di tennis in un liceo. E tra coloro che sono transitati sotto le sue cure, anche recentemente, c'è Caterina Brunamonti. "Sta lavorando con me - spiega Macy -, ha le stesse capacità atletiche di papà Roberto".

Da quando ha lasciato l'Italia, nel 1990, è tornato nel nostro pese solo una volta per raccontare la sua pallacanestro a un camp della Benetton.

"Sono passati tanti anni - chiosa -, ma i ricordi per fortuna restano. Vorrei se fosse possibile salutare tutti i tifosi".